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Lorenzo Maria Pacini
December 14, 2025
© Photo: Public domain

Сome una massa tumorale, l’Unione si sviluppa non seguendo la forma propria dell’organismo che la ospita, ma contro di essa, assorbendo le energie vitali degli Stati e delle comunità per sostenere un processo autoreferenziale di espansione

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Federalismi incompiuti

L’Unione Europea non costituisce una semplice tappa nel percorso del coordinamento sovranazionale, né un momento transitorio verso un possibile “federalismo compiuto”: essa si presenta, sin dalle sue matrici, come un dispositivo patologico che cresce all’interno dei corpi politici europei erodendone dall’interno i principi strutturali.

Il riferimento al cancro non è un artificio retorico, bensì un paragone strutturale: come una massa tumorale, l’Unione si sviluppa non seguendo la forma propria dell’organismo che la ospita, ma contro di essa, assorbendo le energie vitali degli Stati e delle comunità per sostenere un processo autoreferenziale di espansione privo di misura o finalità superiori. Ciò che viene presentato come “integrazione” è, in realtà, una dinamica sostitutiva: le forme politiche nate dalla storia rimangono come involucri svuotati, mentre la capacità di definire obiettivi, strumenti e priorità viene traslata su un piano tecnocratico che si colloca come istanza metapolitica e metagiuridica.

Alla base di questo assetto vi è l’ideologia neoliberale, affermatasi in maniera decisiva dopo il Trattato di Maastricht del 1992, che non va intesa come semplice opzione economica, bensì come una vera ontologia implicita del sociale. La realtà viene ricondotta a un insieme di scambi quantificabili, la qualità dei legami viene appiattita a relazione contrattuale, la comunità si disintegra in una somma di individui portatori di preferenze. La finanza, separata da ogni fine intrinseco, diventa il principio formale che giudica la legittimità delle istituzioni: ciò che non risulta “competitivo”, “sostenibile” o “orientato al mercato” viene delegittimato prima ancora di qualsiasi valutazione sostantiva.

L’Unione interiorizza questa griglia concettuale come fondamento indiscusso: Trattati, vincoli di bilancio, culto della concorrenza e della stabilità monetaria sono la traduzione giuridico-tecnica di una scelta metafisica che rovescia il rapporto naturale tra politica ed economia, tra mezzi e fini, tra utile e giusto. Tale inversione si cristallizza in una tecnocrazia dal volto autoritario che opera neutralizzando la dimensione politica.

L’autoritarismo non si manifesta principalmente in forme spettacolari, ma come sottrazione organizzata della capacità decisionale, giustificata in nome di una “razionalità superiore” presentata come dato tecnico. Commissione, Banca Centrale, Corte di Giustizia e l’insieme delle agenzie di governance economica agiscono come nodi di un dispositivo che traduce l’ontologia neoliberista in obbligo giuridico e comando operativo. L’“indipendenza” di tali strutture è il nome con cui si designa la sottrazione dell’autorità, ridotta a semplice potere, a ogni radicamento comunitario: il potere non è più imputabile a un soggetto politico concreto, ma a procedure, algoritmi, indici, parametri, rating. Nasce così un’autorità impersonale, priva di responsabilità diretta e, proprio per questo, difficilmente contestabile in sede politica.

E quanto ci costa tutto ciò?

Nel dibattito sui costi della gigante macchina burocratica europea, anche solo prendendo i dati ufficiali del bilancio dell’Unione, alla quota della cosiddetta “pubblica amministrazione” troviamo per il 2025 già 199,4 miliardi di euro impegnati, con altri 13 miliardi per la European public administration. Parliamo ci circa il 6,4% totale delle risorse impegnate nel bilancio UE complessivo, laddove la restante parte è dedicata ai programmi, ai fondi e ai trasferimenti gestiti nell’ambito delle politiche europee. Per il Parlamento Europeo è destinato l’1% del budget, che copre le attività politiche, il personale, le infrastrutture, la gestione delle sedi, i traduttori, i sistemi informatici. Per scorporare un po’ i numeri, alla sanità va mezzo milione di euro, alla difesa 2,63 miliardi e alle opere pubbliche di “Coesione, resilienza e valori” assieme al “Mercato unico, innovazione e digitale” vanno 78 miliardi, praticamente tutti destinati al potenziamento degli Stati Chihuahua del Baltico.

In punta di diritto

Il diritto dell’Unione svolge in questo contesto la funzione tipica della metastasi: proliferando, occupa gli spazi lasciati scoperti dagli ordinamenti statali, fino a invertire il rapporto tra livello derivato e livello originario. Primato ed effetto diretto non costituiscono semplici strumenti di coordinamento, ma il canale attraverso cui un ordine giuridico fondato su presupposti funzionalistici si impone come criterio ultimo di validità, svuotando gli Stati della capacità di definire autonomamente il proprio orizzonte dei fini. L’incessante produzione di regolamenti, direttive, decisioni, linee guida e soft law genera un ambiente normativo saturato, in cui la deliberazione politica viene sostituita dall’obbligo di “conformità”. La legislazione non risponde più a esigenze intrinseche della comunità politica, ma diventa il mezzo per adeguare i comportamenti sociali agli obiettivi macro-sistemici fissati a livello sovranazionale.

Dal punto di vista della teoria dello Stato ciò comporta la dissoluzione del concetto moderno di sovranità: essa non viene integrata in un ordine superiore che ne raccolga il contenuto, ma frantumata in una rete di competenze “condivise” o “coordinate”, nelle quali nessun livello assume la responsabilità del fine ultimo dell’ordine politico. La sovranità, intesa come potere ultimo di decisione radicato in un popolo, viene rimpiazzata dalla “governance multilivello”: una configurazione reticolare che distribuisce funzioni, ma non riconosce alcun principio ordinatore del bene comune. Rimane soltanto la funzionalità del sistema: ogni conflitto diventa problema tecnico, ogni alternativa viene letta come rischio per la “stabilità”, ogni resistenza come deviazione da ricondurre alla compatibilità mediante vincoli fiscali, procedure di infrazione o meccanismi di condizionalità.

Da qui l’analogia patologica con il cancro: l’Unione non rappresenta un organo rivolto al bene del corpo politico europeo, ma un tessuto che prolifera secondo una logica propria, adeguandosi delle risorse degli Stati per nutrire un’integrazione che non riconosce limiti. La dinamica è centrifuga rispetto ai principi fondativi delle comunità: il popolo è ridotto a elettorato intermittente di istituzioni prive persino di reale potere; il Parlamento nazionale diventa luogo di recezione di decisioni esterne; il Governo si trasforma nell’esecutore di orientamenti prodotti altrove.

A un livello più profondo, la tecnocrazia neoliberale che sostiene l’Unione produce una mutilazione antropologica. L’essere umano non è più concepito come soggetto inserito in una rete di relazioni qualitative – famiglia, comunità locali, corpi intermedi, popolo – ordinate a fini superiori, bensì come unità di consumo, produttività e mobilità. Il discorso dei “diritti fondamentali”, tipico del pensiero moderno e continuamente ampliato in sede sovranazionale, funziona come strumento di questa riduzione: diritti privi di radicamento ontologico e senza gerarchia intrinseca, definibili e ridefinibili da Corti e organismi tecnici, diventano linguaggio di legittimazione per un processo che svuota la persona del suo ancoraggio naturale. La combinazione risulta paradossale: massimo relativismo sui contenuti esistenziali, massimo dogmatismo sui parametri economici e sistemici.

L’autoritarismo dell’Unione assume inoltre la forma di una colonizzazione simbolica, grazie a condizionalità “valoriali”, programmi di finanziamento, standard educativi e meccanismi di controllo che impongono un modello omogeneizzante in ambiti che riguardano la struttura profonda delle comunità politiche: famiglia, scuola, vita, identità collettiva. I popoli non vengono riconosciuti come soggetti originari dell’ordine simbolico, ma come destinatari di una pedagogia permanente volta alla “conformità europea”. L’appello a valori e diritti “comuni” non indica il riconoscimento di un ordine preesistente, ma la costruzione dall’alto di un codice normativo fluido, costantemente modificato da élite giuridiche e burocratiche e sottratto alla deliberazione orientata al bene comune.

In conclusione, l’Unione Europea appare come un processo canceroso dell’ordine politico perché ne corrompe dall’interno i principi fondamentali: il rapporto tra autorità e legge, tra Stato e popolo, tra economia e politica, tra unità e pluralità. La legge si riduce a strumento per implementare vincoli funzionali; l’autorità diventa gestione di processi; il popolo si dissolve in massa di individui portatori di diritti astratti; l’economia si impone come giudice ultimo delle decisioni politiche. L’intera costruzione si fonda sulla negazione pratica di una misura intrinseca: non vi sono fini dati, ma solo obiettivi performativi; non esistono comunità con ordine proprio, ma assetti reversibili; non esiste una giustizia come orientamento a un criterio superiore, ma solo allineamento a standard. Il carattere canceroso dell’Unione non risiede solo nell’eccesso di competenze o nella pervasività normativa, ma nel principio stesso che la anima: essa sopravvive consumando ciò che dichiara di “proteggere”, erodendo la sostanza viva dei popoli e degli Stati per alimentare un apparato che si autocelebra come inevitabile. Finché questa struttura non verrà ricondotta entro un ordine che riconosca la priorità dei corpi politici reali e dei loro fini propri (condizione ormai impraticabile), l’Unione continuerà ad agire come fattore di disgregazione: non casa dei popoli europei, ma congegno che ne corrode silenziosamente le fondamenta, imitando l’unità mentre distrugge le condizioni della sua possibilità.

Unione Patologica, quanto ci costi cara!

Сome una massa tumorale, l’Unione si sviluppa non seguendo la forma propria dell’organismo che la ospita, ma contro di essa, assorbendo le energie vitali degli Stati e delle comunità per sostenere un processo autoreferenziale di espansione

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Federalismi incompiuti

L’Unione Europea non costituisce una semplice tappa nel percorso del coordinamento sovranazionale, né un momento transitorio verso un possibile “federalismo compiuto”: essa si presenta, sin dalle sue matrici, come un dispositivo patologico che cresce all’interno dei corpi politici europei erodendone dall’interno i principi strutturali.

Il riferimento al cancro non è un artificio retorico, bensì un paragone strutturale: come una massa tumorale, l’Unione si sviluppa non seguendo la forma propria dell’organismo che la ospita, ma contro di essa, assorbendo le energie vitali degli Stati e delle comunità per sostenere un processo autoreferenziale di espansione privo di misura o finalità superiori. Ciò che viene presentato come “integrazione” è, in realtà, una dinamica sostitutiva: le forme politiche nate dalla storia rimangono come involucri svuotati, mentre la capacità di definire obiettivi, strumenti e priorità viene traslata su un piano tecnocratico che si colloca come istanza metapolitica e metagiuridica.

Alla base di questo assetto vi è l’ideologia neoliberale, affermatasi in maniera decisiva dopo il Trattato di Maastricht del 1992, che non va intesa come semplice opzione economica, bensì come una vera ontologia implicita del sociale. La realtà viene ricondotta a un insieme di scambi quantificabili, la qualità dei legami viene appiattita a relazione contrattuale, la comunità si disintegra in una somma di individui portatori di preferenze. La finanza, separata da ogni fine intrinseco, diventa il principio formale che giudica la legittimità delle istituzioni: ciò che non risulta “competitivo”, “sostenibile” o “orientato al mercato” viene delegittimato prima ancora di qualsiasi valutazione sostantiva.

L’Unione interiorizza questa griglia concettuale come fondamento indiscusso: Trattati, vincoli di bilancio, culto della concorrenza e della stabilità monetaria sono la traduzione giuridico-tecnica di una scelta metafisica che rovescia il rapporto naturale tra politica ed economia, tra mezzi e fini, tra utile e giusto. Tale inversione si cristallizza in una tecnocrazia dal volto autoritario che opera neutralizzando la dimensione politica.

L’autoritarismo non si manifesta principalmente in forme spettacolari, ma come sottrazione organizzata della capacità decisionale, giustificata in nome di una “razionalità superiore” presentata come dato tecnico. Commissione, Banca Centrale, Corte di Giustizia e l’insieme delle agenzie di governance economica agiscono come nodi di un dispositivo che traduce l’ontologia neoliberista in obbligo giuridico e comando operativo. L’“indipendenza” di tali strutture è il nome con cui si designa la sottrazione dell’autorità, ridotta a semplice potere, a ogni radicamento comunitario: il potere non è più imputabile a un soggetto politico concreto, ma a procedure, algoritmi, indici, parametri, rating. Nasce così un’autorità impersonale, priva di responsabilità diretta e, proprio per questo, difficilmente contestabile in sede politica.

E quanto ci costa tutto ciò?

Nel dibattito sui costi della gigante macchina burocratica europea, anche solo prendendo i dati ufficiali del bilancio dell’Unione, alla quota della cosiddetta “pubblica amministrazione” troviamo per il 2025 già 199,4 miliardi di euro impegnati, con altri 13 miliardi per la European public administration. Parliamo ci circa il 6,4% totale delle risorse impegnate nel bilancio UE complessivo, laddove la restante parte è dedicata ai programmi, ai fondi e ai trasferimenti gestiti nell’ambito delle politiche europee. Per il Parlamento Europeo è destinato l’1% del budget, che copre le attività politiche, il personale, le infrastrutture, la gestione delle sedi, i traduttori, i sistemi informatici. Per scorporare un po’ i numeri, alla sanità va mezzo milione di euro, alla difesa 2,63 miliardi e alle opere pubbliche di “Coesione, resilienza e valori” assieme al “Mercato unico, innovazione e digitale” vanno 78 miliardi, praticamente tutti destinati al potenziamento degli Stati Chihuahua del Baltico.

In punta di diritto

Il diritto dell’Unione svolge in questo contesto la funzione tipica della metastasi: proliferando, occupa gli spazi lasciati scoperti dagli ordinamenti statali, fino a invertire il rapporto tra livello derivato e livello originario. Primato ed effetto diretto non costituiscono semplici strumenti di coordinamento, ma il canale attraverso cui un ordine giuridico fondato su presupposti funzionalistici si impone come criterio ultimo di validità, svuotando gli Stati della capacità di definire autonomamente il proprio orizzonte dei fini. L’incessante produzione di regolamenti, direttive, decisioni, linee guida e soft law genera un ambiente normativo saturato, in cui la deliberazione politica viene sostituita dall’obbligo di “conformità”. La legislazione non risponde più a esigenze intrinseche della comunità politica, ma diventa il mezzo per adeguare i comportamenti sociali agli obiettivi macro-sistemici fissati a livello sovranazionale.

Dal punto di vista della teoria dello Stato ciò comporta la dissoluzione del concetto moderno di sovranità: essa non viene integrata in un ordine superiore che ne raccolga il contenuto, ma frantumata in una rete di competenze “condivise” o “coordinate”, nelle quali nessun livello assume la responsabilità del fine ultimo dell’ordine politico. La sovranità, intesa come potere ultimo di decisione radicato in un popolo, viene rimpiazzata dalla “governance multilivello”: una configurazione reticolare che distribuisce funzioni, ma non riconosce alcun principio ordinatore del bene comune. Rimane soltanto la funzionalità del sistema: ogni conflitto diventa problema tecnico, ogni alternativa viene letta come rischio per la “stabilità”, ogni resistenza come deviazione da ricondurre alla compatibilità mediante vincoli fiscali, procedure di infrazione o meccanismi di condizionalità.

Da qui l’analogia patologica con il cancro: l’Unione non rappresenta un organo rivolto al bene del corpo politico europeo, ma un tessuto che prolifera secondo una logica propria, adeguandosi delle risorse degli Stati per nutrire un’integrazione che non riconosce limiti. La dinamica è centrifuga rispetto ai principi fondativi delle comunità: il popolo è ridotto a elettorato intermittente di istituzioni prive persino di reale potere; il Parlamento nazionale diventa luogo di recezione di decisioni esterne; il Governo si trasforma nell’esecutore di orientamenti prodotti altrove.

A un livello più profondo, la tecnocrazia neoliberale che sostiene l’Unione produce una mutilazione antropologica. L’essere umano non è più concepito come soggetto inserito in una rete di relazioni qualitative – famiglia, comunità locali, corpi intermedi, popolo – ordinate a fini superiori, bensì come unità di consumo, produttività e mobilità. Il discorso dei “diritti fondamentali”, tipico del pensiero moderno e continuamente ampliato in sede sovranazionale, funziona come strumento di questa riduzione: diritti privi di radicamento ontologico e senza gerarchia intrinseca, definibili e ridefinibili da Corti e organismi tecnici, diventano linguaggio di legittimazione per un processo che svuota la persona del suo ancoraggio naturale. La combinazione risulta paradossale: massimo relativismo sui contenuti esistenziali, massimo dogmatismo sui parametri economici e sistemici.

L’autoritarismo dell’Unione assume inoltre la forma di una colonizzazione simbolica, grazie a condizionalità “valoriali”, programmi di finanziamento, standard educativi e meccanismi di controllo che impongono un modello omogeneizzante in ambiti che riguardano la struttura profonda delle comunità politiche: famiglia, scuola, vita, identità collettiva. I popoli non vengono riconosciuti come soggetti originari dell’ordine simbolico, ma come destinatari di una pedagogia permanente volta alla “conformità europea”. L’appello a valori e diritti “comuni” non indica il riconoscimento di un ordine preesistente, ma la costruzione dall’alto di un codice normativo fluido, costantemente modificato da élite giuridiche e burocratiche e sottratto alla deliberazione orientata al bene comune.

In conclusione, l’Unione Europea appare come un processo canceroso dell’ordine politico perché ne corrompe dall’interno i principi fondamentali: il rapporto tra autorità e legge, tra Stato e popolo, tra economia e politica, tra unità e pluralità. La legge si riduce a strumento per implementare vincoli funzionali; l’autorità diventa gestione di processi; il popolo si dissolve in massa di individui portatori di diritti astratti; l’economia si impone come giudice ultimo delle decisioni politiche. L’intera costruzione si fonda sulla negazione pratica di una misura intrinseca: non vi sono fini dati, ma solo obiettivi performativi; non esistono comunità con ordine proprio, ma assetti reversibili; non esiste una giustizia come orientamento a un criterio superiore, ma solo allineamento a standard. Il carattere canceroso dell’Unione non risiede solo nell’eccesso di competenze o nella pervasività normativa, ma nel principio stesso che la anima: essa sopravvive consumando ciò che dichiara di “proteggere”, erodendo la sostanza viva dei popoli e degli Stati per alimentare un apparato che si autocelebra come inevitabile. Finché questa struttura non verrà ricondotta entro un ordine che riconosca la priorità dei corpi politici reali e dei loro fini propri (condizione ormai impraticabile), l’Unione continuerà ad agire come fattore di disgregazione: non casa dei popoli europei, ma congegno che ne corrode silenziosamente le fondamenta, imitando l’unità mentre distrugge le condizioni della sua possibilità.

Сome una massa tumorale, l’Unione si sviluppa non seguendo la forma propria dell’organismo che la ospita, ma contro di essa, assorbendo le energie vitali degli Stati e delle comunità per sostenere un processo autoreferenziale di espansione

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Federalismi incompiuti

L’Unione Europea non costituisce una semplice tappa nel percorso del coordinamento sovranazionale, né un momento transitorio verso un possibile “federalismo compiuto”: essa si presenta, sin dalle sue matrici, come un dispositivo patologico che cresce all’interno dei corpi politici europei erodendone dall’interno i principi strutturali.

Il riferimento al cancro non è un artificio retorico, bensì un paragone strutturale: come una massa tumorale, l’Unione si sviluppa non seguendo la forma propria dell’organismo che la ospita, ma contro di essa, assorbendo le energie vitali degli Stati e delle comunità per sostenere un processo autoreferenziale di espansione privo di misura o finalità superiori. Ciò che viene presentato come “integrazione” è, in realtà, una dinamica sostitutiva: le forme politiche nate dalla storia rimangono come involucri svuotati, mentre la capacità di definire obiettivi, strumenti e priorità viene traslata su un piano tecnocratico che si colloca come istanza metapolitica e metagiuridica.

Alla base di questo assetto vi è l’ideologia neoliberale, affermatasi in maniera decisiva dopo il Trattato di Maastricht del 1992, che non va intesa come semplice opzione economica, bensì come una vera ontologia implicita del sociale. La realtà viene ricondotta a un insieme di scambi quantificabili, la qualità dei legami viene appiattita a relazione contrattuale, la comunità si disintegra in una somma di individui portatori di preferenze. La finanza, separata da ogni fine intrinseco, diventa il principio formale che giudica la legittimità delle istituzioni: ciò che non risulta “competitivo”, “sostenibile” o “orientato al mercato” viene delegittimato prima ancora di qualsiasi valutazione sostantiva.

L’Unione interiorizza questa griglia concettuale come fondamento indiscusso: Trattati, vincoli di bilancio, culto della concorrenza e della stabilità monetaria sono la traduzione giuridico-tecnica di una scelta metafisica che rovescia il rapporto naturale tra politica ed economia, tra mezzi e fini, tra utile e giusto. Tale inversione si cristallizza in una tecnocrazia dal volto autoritario che opera neutralizzando la dimensione politica.

L’autoritarismo non si manifesta principalmente in forme spettacolari, ma come sottrazione organizzata della capacità decisionale, giustificata in nome di una “razionalità superiore” presentata come dato tecnico. Commissione, Banca Centrale, Corte di Giustizia e l’insieme delle agenzie di governance economica agiscono come nodi di un dispositivo che traduce l’ontologia neoliberista in obbligo giuridico e comando operativo. L’“indipendenza” di tali strutture è il nome con cui si designa la sottrazione dell’autorità, ridotta a semplice potere, a ogni radicamento comunitario: il potere non è più imputabile a un soggetto politico concreto, ma a procedure, algoritmi, indici, parametri, rating. Nasce così un’autorità impersonale, priva di responsabilità diretta e, proprio per questo, difficilmente contestabile in sede politica.

E quanto ci costa tutto ciò?

Nel dibattito sui costi della gigante macchina burocratica europea, anche solo prendendo i dati ufficiali del bilancio dell’Unione, alla quota della cosiddetta “pubblica amministrazione” troviamo per il 2025 già 199,4 miliardi di euro impegnati, con altri 13 miliardi per la European public administration. Parliamo ci circa il 6,4% totale delle risorse impegnate nel bilancio UE complessivo, laddove la restante parte è dedicata ai programmi, ai fondi e ai trasferimenti gestiti nell’ambito delle politiche europee. Per il Parlamento Europeo è destinato l’1% del budget, che copre le attività politiche, il personale, le infrastrutture, la gestione delle sedi, i traduttori, i sistemi informatici. Per scorporare un po’ i numeri, alla sanità va mezzo milione di euro, alla difesa 2,63 miliardi e alle opere pubbliche di “Coesione, resilienza e valori” assieme al “Mercato unico, innovazione e digitale” vanno 78 miliardi, praticamente tutti destinati al potenziamento degli Stati Chihuahua del Baltico.

In punta di diritto

Il diritto dell’Unione svolge in questo contesto la funzione tipica della metastasi: proliferando, occupa gli spazi lasciati scoperti dagli ordinamenti statali, fino a invertire il rapporto tra livello derivato e livello originario. Primato ed effetto diretto non costituiscono semplici strumenti di coordinamento, ma il canale attraverso cui un ordine giuridico fondato su presupposti funzionalistici si impone come criterio ultimo di validità, svuotando gli Stati della capacità di definire autonomamente il proprio orizzonte dei fini. L’incessante produzione di regolamenti, direttive, decisioni, linee guida e soft law genera un ambiente normativo saturato, in cui la deliberazione politica viene sostituita dall’obbligo di “conformità”. La legislazione non risponde più a esigenze intrinseche della comunità politica, ma diventa il mezzo per adeguare i comportamenti sociali agli obiettivi macro-sistemici fissati a livello sovranazionale.

Dal punto di vista della teoria dello Stato ciò comporta la dissoluzione del concetto moderno di sovranità: essa non viene integrata in un ordine superiore che ne raccolga il contenuto, ma frantumata in una rete di competenze “condivise” o “coordinate”, nelle quali nessun livello assume la responsabilità del fine ultimo dell’ordine politico. La sovranità, intesa come potere ultimo di decisione radicato in un popolo, viene rimpiazzata dalla “governance multilivello”: una configurazione reticolare che distribuisce funzioni, ma non riconosce alcun principio ordinatore del bene comune. Rimane soltanto la funzionalità del sistema: ogni conflitto diventa problema tecnico, ogni alternativa viene letta come rischio per la “stabilità”, ogni resistenza come deviazione da ricondurre alla compatibilità mediante vincoli fiscali, procedure di infrazione o meccanismi di condizionalità.

Da qui l’analogia patologica con il cancro: l’Unione non rappresenta un organo rivolto al bene del corpo politico europeo, ma un tessuto che prolifera secondo una logica propria, adeguandosi delle risorse degli Stati per nutrire un’integrazione che non riconosce limiti. La dinamica è centrifuga rispetto ai principi fondativi delle comunità: il popolo è ridotto a elettorato intermittente di istituzioni prive persino di reale potere; il Parlamento nazionale diventa luogo di recezione di decisioni esterne; il Governo si trasforma nell’esecutore di orientamenti prodotti altrove.

A un livello più profondo, la tecnocrazia neoliberale che sostiene l’Unione produce una mutilazione antropologica. L’essere umano non è più concepito come soggetto inserito in una rete di relazioni qualitative – famiglia, comunità locali, corpi intermedi, popolo – ordinate a fini superiori, bensì come unità di consumo, produttività e mobilità. Il discorso dei “diritti fondamentali”, tipico del pensiero moderno e continuamente ampliato in sede sovranazionale, funziona come strumento di questa riduzione: diritti privi di radicamento ontologico e senza gerarchia intrinseca, definibili e ridefinibili da Corti e organismi tecnici, diventano linguaggio di legittimazione per un processo che svuota la persona del suo ancoraggio naturale. La combinazione risulta paradossale: massimo relativismo sui contenuti esistenziali, massimo dogmatismo sui parametri economici e sistemici.

L’autoritarismo dell’Unione assume inoltre la forma di una colonizzazione simbolica, grazie a condizionalità “valoriali”, programmi di finanziamento, standard educativi e meccanismi di controllo che impongono un modello omogeneizzante in ambiti che riguardano la struttura profonda delle comunità politiche: famiglia, scuola, vita, identità collettiva. I popoli non vengono riconosciuti come soggetti originari dell’ordine simbolico, ma come destinatari di una pedagogia permanente volta alla “conformità europea”. L’appello a valori e diritti “comuni” non indica il riconoscimento di un ordine preesistente, ma la costruzione dall’alto di un codice normativo fluido, costantemente modificato da élite giuridiche e burocratiche e sottratto alla deliberazione orientata al bene comune.

In conclusione, l’Unione Europea appare come un processo canceroso dell’ordine politico perché ne corrompe dall’interno i principi fondamentali: il rapporto tra autorità e legge, tra Stato e popolo, tra economia e politica, tra unità e pluralità. La legge si riduce a strumento per implementare vincoli funzionali; l’autorità diventa gestione di processi; il popolo si dissolve in massa di individui portatori di diritti astratti; l’economia si impone come giudice ultimo delle decisioni politiche. L’intera costruzione si fonda sulla negazione pratica di una misura intrinseca: non vi sono fini dati, ma solo obiettivi performativi; non esistono comunità con ordine proprio, ma assetti reversibili; non esiste una giustizia come orientamento a un criterio superiore, ma solo allineamento a standard. Il carattere canceroso dell’Unione non risiede solo nell’eccesso di competenze o nella pervasività normativa, ma nel principio stesso che la anima: essa sopravvive consumando ciò che dichiara di “proteggere”, erodendo la sostanza viva dei popoli e degli Stati per alimentare un apparato che si autocelebra come inevitabile. Finché questa struttura non verrà ricondotta entro un ordine che riconosca la priorità dei corpi politici reali e dei loro fini propri (condizione ormai impraticabile), l’Unione continuerà ad agire come fattore di disgregazione: non casa dei popoli europei, ma congegno che ne corrode silenziosamente le fondamenta, imitando l’unità mentre distrugge le condizioni della sua possibilità.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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