Le cose non stanno più come prima e l’America dovrà occuparsi, prima che sia troppo tardi, di quale posizione prendere nel mondo sempre più multipolare
Tutto può accadere
Quello che abbiamo visto succedere nel recente conflitto in Medio Oriente fra Israele e Iran rappresenta una chiara ed inconfutabile prova della caduta sempre maggiore, del collasso inesorabile, della imminente fine del sistema egemonico americano, e più In generale tra guida anglo-americana, nonché di quello sionista strettamente collegato a quello indicato sopra.
Proviamo a immaginare se quello che è successo nei giorni scorsi fosse avvenuto ad esempio 30 anni fa, all’apice della potenza americana nello scacchiere internazionale. Non si sarebbe trattato tanto di un evento di durata minore o maggiore, Perché la durata dipende da una serie di fattori che concorrono insieme, come la tipologia di conflitto, il territorio, le azioni operative concrete, le risorse impiegate, e ovviamente la situazione internazionale, ma si sarebbe sicuramente trattato di un conflitto nel quale gli Stati Uniti avrebbero dimostrato Senza tanta fatica la loro predominanza sulla scena internazionale, riuscendo a influenzare l’esito della situazione senza dover chiedere il permesso a nessuno, per lo meno senza bere alcuna difficoltà a fare la voce grossa e ha ribadire il proprio dominio globale egemonico.
Questo è esattamente ciò che non è successo stavolta. E non è successo Perché gli Stati Uniti non hanno più quella posizione di predominio sul resto del mondo, non hanno più il controllo della deterrenza strategica nucleare, petrolifera, monetaria, non hanno più nemmeno la credibilità politica di poter essere coloro che garantiscono la stabilità e il successo ad altri paesi – semmai è proprio il contrario.
Su questo occorre riflettere con una certa attenzione, per imparare la lezione nascosta negli esiti – almeno temporanei – del conflitto.
Non più al primo posto
Nel 2010, uno storico anticipò che l’egemonia americana sarebbe potuta giungere al termine entro il 2025 — non con un’esplosione, ma con un lento sussurro — a causa di crescenti spaccature interne e dell’ascesa di potenze rivali intenzionate a metterne in discussione il dominio. Oggi, quella previsione sembra avverarsi: gli Stati Uniti si trovano sotto pressione, sia sul piano interno che internazionale. Sebbene conservino ancora una superiorità militare e un’economia capace di grande influenza, i pilastri strutturali del loro potere globale stanno progressivamente cedendo. Non si tratta necessariamente di un declino irreversibile, ma sicuramente segna un passaggio oltre l’epoca del cosiddetto “Secolo Americano”.
Dopo la Seconda guerra mondiale, gli USA hanno sfruttato la loro potenza economica, il dinamismo tecnologico e l’influenza culturale per plasmare l’ordine mondiale. Tuttavia, le fondamenta di questa supremazia si stanno indebolendo. La quota statunitense del PIL globale è scesa dal 50% a metà del Novecento a circa il 15% oggi, considerando la parità di potere d’acquisto. La globalizzazione, promossa dagli stessi Stati Uniti, ha redistribuito capacità produttive, favorendo soprattutto la Cina.
All’interno, gli Stati Uniti devono affrontare un guerra civile lasciata sottotraccia e volutamente taciuta nella sua gravità. Le crescenti disuguaglianze economiche, una polarizzazione politica sempre più acuta e un indebolimento dello spirito civico collettivo sono soltanto alcuni dei problemi che caratterizzano la salute del corpo sociale americano. L’incapacità cronica di vari governi di affrontare temi cruciali come il ristagno dei salari, le disparità sanitarie e il deterioramento delle infrastrutture ha minato la coesione interna e l’autorevolezza morale del Paese. L’immigrazione, certo, è un problema, ma è uno fra i tanti nella lunga lista delle cose irrisolte, lasciate lì ad ingigantirsi.
E perché tanto giganti? Perché hanno fondato la loro stabilità economica sul principio di dominio politico globale, sia a livello militare che monetario; venendo a mancare quel motore, inevitabilmente tutto il resto non può che sgretolarsi poco a poco, lasciando dietro di sé una strage.
Non c’è più la imbattibilità militare pura. La dipendenza dagli interventi armati come strumento di risoluzione delle proprie crisi interne – questa è stata la dottrina americana nel XX secolo e oltre – si è rivelata essere una dipendenza deleteria. Ciò ha fatto sì che i nuovi conflitti, non andanti come la governance statunitense sperava, abbiano significato un peggioramento della situazione, in termini di economia interna, di pianificazione strategica, di credibilità internazionale.
Chi, infatti, crede ancora agli USA come super-poliziotto del mondo? Forse i Paesi vassalli e qualche piccola colonia reduce. Nessun altro più. Anzi, essere amici degli USA sta diventando controproducente, perché espone ad una serie di limitazioni e di pregiudizi. Tutto ciò non è altro che la logica conseguenza di anni di autoproclamata superiorità.
Mancando la superiorità militare effettiva, gli USA con Israele e Iran non hanno potuto fare molto. Sono volate minacce e provocazioni, come sempre fanno gli americani. Trump ha fatto la voce grossa come se fosse ubriaco al bar, come al solito. Una retorica politica che funziona con l’americano medio, ancora convinto di essere l’essere vivente migliore del mondo, ma è una retorica che assomiglia di più a quando gli animali urlano perché sono arrabbiati. Dovremmo fare attenzione a non scambiare la tifoseria da stadio con la diplomazia. Sono due cose diverse.
Perché tante parole, invece della storica pragmaticità americana? George W. Bush ci mise 24 ore per incolpare “i terroristi arabi” e scatenare due guerre, senza chiedere il permesso a nessuno. Una ventina di anni fa, non secoli addietro. Oggi invece il Presidente americano ha dovuto prendere tempo, fare qualche telefonata, sentire la controparte, muovere un po’ di aeroplani da guerra e scrivere una grande quantità di post su un social network inventato da lui e che legge solo lui (Truth).
Non ha, di fatto, potuto agire da solo, non ha potuto fare ciò che gli americani fanno di solito. Niente guerra totale, niente bombe a casa degli altri.
È meglio così, sia chiaro. Siamo tutti contenti che la situazione sia stata risolta senza ulteriore distruzione, almeno per adesso. Ma cosa farà ora l’America? Perché sì, sarà forse anche vero che Trump con questa mossa ha messo allo scoperto molti nemici interni e fatto un po’ di pulizia, ma è altrettanto vero che dovrà riconoscere il tracollo del potere americano. Cosa che non ha fatto, in quanto si è preso il merito di aver risolto la situazione, evitato l’escalation e ristabilito la pace. Ma quando mai, Donald?
La verità è che l’Iran è capace di rovinare i piani di Israele e di radergli al suolo la capitale con una piccola percentuale di missili, distruggendo il “sistema di difesa più evoluto al mondo” in pochi minuti. La verità è che l’Iran ha dimostrato di non avere paura di una guerra, che sia contro Israele, gli USA o chiunque altro. La verità è che l’Iran ha fatto tutto questo da solo. Ed è altrettanto vero che l’Iran si trova proprio in quella zona del mondo che è per l’America un pozzo senza fine da cui far uscire dollari su dollari, controllando i flussi di approvvigionamento energetico globale, e questo era e resta un problema per gli Stati Uniti d’America, che invece di pensare a come digerire il fallimento del proprio colonialismo magari cercando delle soluzioni equilibrate e in linea con una vera cooperazione internazionale, pensano a come far passare per vittoria quella che è una sconfitta.
Se provate a fare il giro del mondo e a chiedere all’estero cosa ne pensano del “grande successo di Donald Trump”, scoprirete che solo in Occidente gli analisti hanno interpretato il tutto in senso positivo e di successo, mentre nel resto del mondo, soprattutto in Asia, è chiaro che si tratta di un successo illusorio, perché è una sconfitta camuffata da vittoria diplomatica.
Da un evento come questo verranno tratti insegnamenti anche da parte delle altre grandi potenze. È stato un banco di prova importantissimo. L’Iran ne esce rafforzato e con un sostegno internazionale che non era facile prevedere. Gli USA ne escono indeboliti e con la necessità di riposizionarsi. Israele, in tutto ciò, conferma la sua statura criminale e pericolosa per il mondo intero. È molto probabile che Trump cercherà di far cadere Netanyahu, come da accordo con l’Iran, ma salverà il sionismo a cui è tanto affezionato, perché il progetto sionista del Grande Israele e la ricostruzione del Terzo Tempio sono due scopi del mandato presidenziale che non possono essere disattesi nemmeno dal Potus.
Le cose non stanno più come prima e l’America dovrà occuparsi, prima che sia troppo tardi, di quale posizione prendere nel mondo sempre più multipolare. Perché potrebbe arrivare il giorno in cui gli Stati Uniti, trovandosi in una tremenda crisi, potrebbero non ricevere aiuto da nessuno. E ciò sarebbe la retribuzione logica e giusta per tutto il male che hanno diffuso nel mondo intero.