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Daniele Perra
June 29, 2025
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La disinformazione sulla Repubblica Islamica dell’Iran è uno dei principali strumenti attraverso i quali l’Occidente ha costruito quella retorica bellicista che ha portato a giustificare le recenti aggressioni subite da Teheran. Qui si cercherà di smascherare parte di queste falsità.

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In primo luogo sarà necessario ribadire con forza (e sembra del tutto necessario) che il popolo iraniano non vuole in alcun modo essere liberato dall’Occidente e (soprattutto) da Israele, e non vuole fare del proprio Paese ciò che fu la Cina dopo le “guerre dell’oppio” del XIX secolo. Nei loro occhi è ancora vivo il ricordo dello Shah Reza Pahlavi, che fece dell’Iran il campo di addestramento dei piloti e militari israeliani. Per questo motivo non possono che sorridere di fronte alla (non richiesta) candidatura di suo figlio Ciro a guidare il Paese in un eventuale “post Repubblica Islamica”. Dopo tutto, i Pahlavi sono quelli che defenestrarono il legittimo governo nazionalista di Mossadeq nel 1953 in compagnia di CIA ed MI6 britannico, trasformandolo di fatto in una colonia dell’Occidente (e con gli Stati Uniti che approfittarono dell’occasione per spodestare dalla regione proprio la Gran Bretagna, inaugurando la loro decennale tradizione di umiliare e tradire i supposti alleati). Ed i Pahlavi sono quelli che repressero nel sangue le rivolte del 1963 (arrestando, torturando ed esiliando i suoi protagonisti, Khomeini incluso), mentre la loro “rivoluzione bianca” fallì miseramente, portando milioni di iraniani alla povertà assoluta ed arricchendo semplicemente la cerchia ristretta vicino al palazzo reale. Ancora, Reza Pahlavi era colui che si vantava di avere un canale di comunicazione diretta col divino; cosa che, a suo modo di dire, gli permetteva di prevenire ogni tentativo di colpo di Stato contro di lui (in effetti, tale capacità era rappresentata dal fatto che ogni comunicazione militare di un certo livello passava obbligatoriamente attraverso il palazzo reale). Nel testo autobiografico “Cella nr. 14” (recentemente pubblicato in Italia), inoltre, l’attuale Guida Suprema dell’Iran Ali Khamenei racconta degli arresti e delle torture subite per mano della Savak: l’onnipotente polizia segreta dello Shah e principale strumento di repressione del popolo negli anni della monarchia.

Tendenzialmente, in Occidente, si cerca di presentare gli anni della monarchia in Iran come un periodo di libertà e sviluppo. In realtà, è vero l’esatto contrario. Ed il popolo iraniano (salvo qualche espatriato di lungo corso) non nutre alcuna nostalgia per quei tempi. Sarà necessario anche ribadire che le donne iraniane non combattono affatto per poter indossare la minigonna. Per le donne iraniane queste questioni sono del tutto irrilevanti. Chiunque abbia viaggiato per l’Iran e chiunque ne conosca la storia, sa perfettamente che: 1) la condizione della donna (e la sua emancipazione) è notevolmente migliore rispetto a qualsiasi altro Paese della regione (Turchia orientale inclusa); 2) con l’avvento della Repubblica Islamica la stessa condizione femminile è indubbiamente migliorata (il 65% degli studenti iraniani sono donne e le donne ricoprono oggi ruoli di primo piano in diversi ambiti, dalla medicina al giornalismo all’educazione, fino a settori tecnici e finanziari legati all’ingegneria, alla cantieristica, o alla gestione delle fondazioni religiose sulle quali si basa parte dell’economia iraniana).

Altrettanto non gradita è la candidatura di Mariam Rajavi, a capo del Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran, e legata a doppio filo al MeK. Proprio la storia dei Mujahedin-e Khalq merita l’apertura di una breve parentesi, visto l’interesse dimostrato nei loro confronti da molti politici occidentali, italiani compresi.

Nato intorno alla metà degli anni ’60 del secolo scorso su basi ideologiche che mischiavano elementi marxisti con alcuni aspetti propri dell’Islam sciita (i membri erano invitati a vivere in collettivi ed a studiare i modelli economici del socialismo reale), il MeK ha giocato un ruolo importante negli eventi rivoluzionari dimostrando una notevole capacità nell’organizzazione di azioni rapide quanto efficaci contro il potere dello Shah. Nell’istante postrivoluzionario, tuttavia, l’Imam Khomeini iniziò (non a torto) a dubitare sulle reali intenzioni di Masoud Rajavi (guida dal 1979) e del movimento stesso che, dopo l’esclusione dalla vita politica del Paese, optò per la lotta armata contro la neonata Repubblica Islamica. Dal 1981 al 1986, i vertici del MeK vissero un dorato esilio parigino nel corso del quale, dopo la creazione del già citato Consiglio Nazionale di Resistenza (in cooperazione con l’ex primo Presidente dell’Iran postrivoluzionario Abolhassan Banisadr), cercarono nuovi consensi in Occidente presentandosi come movimento laico, democratico, a favore del libero mercato, e campione della causa dell’autonomia del Kurdistan. Questo è stato solo il primo dei non pochi cambi di paradigma del gruppo. Infatti, a partire dal 1985, a seguito delle seconde nozze con Maryam Azodanlu (ex sposa di un suo stretto collaboratore), Rajavi iniziò a parlare di una nuova “rivoluzione ideologica” che avrebbe portato alla parità dei sessi all’interno del gruppo. Per fare ciò attribuì alla sua nuova sposa il ruolo di guida del MeK ponendola al suo stesso livello e paragonando il nuovo matrimonio a quello del Profeta Muhammad con Khadija. Allo stesso tempo, riservò per sé il titolo di Imam-e Hal (Imam del presente).

A seguito dell’intervento di Teheran in favore della liberazione di alcuni cittadini francesi tenuti in ostaggio in Libano, il MeK, nel 1986, venne costretto ad abbandonare la Francia per l’Iraq dove poté godere della  protezione e dell’assistenza militare del regime di Saddam Hussein in cambio di servizi di traduzione e di operazioni oltre le linee in quella guerra che in Iran viene chiamata “Sacra Difesa” (o “guerra imposta”). Nel 1988, a cavallo del definitivo cessate il fuoco, Rajavi lanciò l’operazione “Luce Eterna”: di fatto, un vero e proprio tentativo di invasione dell’Iran da parte dei miliziani del gruppo nella speranza di scatenare un (mai avvenuto) sommovimento popolare contro la Repubblica Islamica (una sorta di “Baia dei Porci iraniana” che la storiografia occidentale ricorda solo per le esecuzioni degli uomini fatti prigionieri dalle autorità della Repubblica Islamica, senza mai fare riferimento alle cause – pratica assai diffusa da certa propaganda, quella di invertire cause ed effetti di un determinato evento in modo da attribuirne le responsabilità al nemico del momento – come si è visto per il caso ucraino).

Di fronte al palese fallimento (il MeK perse oltre la metà dei propri membri), Rajavi, al posto di riconoscere i propri errori, non fece altro che accusare i suoi uomini di avere la mente deviata da pensieri di natura sessuale. Da quel momento in poi, infatti, si registra un nuovo sviluppo ideologico all’interno del movimento che assume sempre di più i connotati della setta pseudoreligiosa votata al culto della personalità della sua coppia guida. Ai membri (molti dei quali tenuti in cattività contro la loro stessa volontà, privati dei documenti, minacciati di pesanti ritorsioni in caso di fuga e sottoposti al lavaggio del cervello) venne imposto il celibato ed il taglio totale delle comunicazioni con la famiglia. L’amore per la propria famiglia doveva essere sostituito dall’amore per i Rajavi e dalla speranza che il futuro dell’Iran possa essere sotto il loro segno (come recitano alcuni canti del gruppo).

A ciò si aggiunga il ruolo giocato dal MeK nella soppressione delle rivolte popolari contro il regime di Saddam scoppiate dopo l’Operazione Desert Storm. Un’azione che si trasformò rapidamente in una forma di pulizia etnico-confessionale contro la comunità sciita irachena (cosa che, insieme alla partecipazione diretta alla “guerra imposta” ed all’uccisione di migliaia di cittadini iraniani, valse la perdita di quella poca credibilità rimasta al gruppo all’interno dell’Iran) e contro la minoranza curda (paradossale se si pensa che il MeK ha spesso cercato di proporsi come sostenitore della loro autonomia). Va da sé che la rivolta venne ampiamente incoraggiata da Stati Uniti e Gran Bretagna (non dall’Iran), salvo poi ritirare immediatamente il loro sostegno in modo tale che il regime di Saddam potesse fare strage degli sciiti invisi tanto ai vertici di Baghdad quanto a Washington.

Nonostante il MeK abbia sempre cercato di negare la sua partecipazione nei fatti del 1991, è rimasta celebre una frase di Masoud Rajavi: “mettete i curdi sotto i vostri carri armati e risparmiate le pallottole per le Guardie Rivoluzionarie”.

Di fatto, il MeK è rimasto fino all’ultimo fedele a Saddam Hussein, con tanto di breve inserimento all’interno della lista internazionale delle organizzazioni terroristiche fino al suo trasferimento in Albania (sebbene, come affermato in un interessante documento della Rand Corp, influente think tank nordamericano, non sia mai stato trattato realmente come tale). Dalla seconda aggressione occidentale all’Iraq, inoltre, non si hanno più notizie di Masoud Rajavi – sotto una forma di occultamento che ricorda parodisticamente quello dell’ultimo Imam dello sciismo imamita – che ha lasciato alla moglie il ruolo di volto pubblico del Consiglio Nazionale di Resistenza. Da non tralasciare, infine, il fatto che la stessa Repubblica Islamica, dopo l’attacco all’Iraq, propose agli Stati Uniti uno scambio di prigionieri all’interno di più ampio progetto di cooperazione/normalizzazione dei rapporti (mai avvenuto a causa delle pressioni della lobby sionista a Washington): membri del MeK detenuti nelle prigioni della coalizione in Iraq in cambio di  membri di al-Qaeda detenuti in Iran. Gli Stati Uniti rifiutarono avanzando dubbi sul rispetto dei diritti umani nelle carceri iraniane (cosa ancora una volta paradossale se si considerano i casi di tortura a Guantanamo o ad Abu Ghraib). In realtà, lo fecero sapendo che i membri del MeK (come effettivamente avvenuto) sarebbero tornati utili per operazioni oltre il confine iraniano (assassinii mirati di scienziati e ufficiali, ad esempio).

Questo excursus è servito in primo luogo a dimostrare come un movimento che gode di assai poca stima all’interno dei confini della Repubblica Islamica venga presentato in Occidente come alternativa credibile ad essa. Lo scarso successo popolare (buona parte dei membri odierni sono reclutati tra l’immigrazione iraniana con promesse di asilo politico e occupazione lavorativa in Occidente), infatti, si accompagna ad un notevole successo politico ed economico ottenuto con audaci operazioni di promozione della propria immagine nei centri di potere occidentale, con la frode manifesta (presentandosi sotto la veste di diverse associazioni rivolte alla difesa dei diritti umani in Iran) ed attraverso la costruzione di un vero e proprio impero finanziario ed immobiliare (pacchetti azionari, finanziamento illecito di Partiti, proprietà di case da gioco ed alberghi).

Al discorso sul MeK si accompagna indubbiamente quello sulla guerra Iran-Iraq, anch’essa fonte di notevole mistificazione ideologico-storica. Prima di analizzare questo evento nel dettaglio sarà bene ribadire a chi accusa l’Iran di aver distrutto il panarabismo che: 1) il panarabismo era già morto e sepolto prima del conflitto contro l’Iraq, iniziato tra l’altro da Baghdad; 2) è assai difficile poter considerare il Ba’ath iracheno ed il regime di Saddam come espressioni del panarabismo, sebbene l’abbiano spesso utilizzato come manto ideologico proprio per giustificare la guerra contro la neonata Repubblica Islamica.

In primo luogo, è bene sottolineare quelli che erano gli obiettivi di Saddam con l’aggressione all’Iran: 1) l’egemonia politico-economica sul Golfo Persico (qualcosa che in un secondo momento lo porterà ad invadere il Kuwait per rendere più agevole l’accesso iracheno al mare); 2) il controllo totale sullo Shatt al-Arab (area fluviale dall’enorme rilevanza strategica per l’economia irachena); 3) il controllo sul Khuzestan iraniano ricco di petrolio; 4) limitare la penetrazione delle idee della Rivoluzione Islamica in Iraq (la popolazione sciita irachena, sebbene maggioranza, era governata da una élite quasi totalmente sunnita che mise a morte in gran segreto l’importante ayatollah Baqir al-Sadr nei primi mesi del 1980); 5) impedire che l’Iran potesse riemergere come potenza regionale dopo il caos rivoluzionario.

Saddam Hussein, inoltre, pensava ad un conflitto limitato da combattere in determinate località, non pensava di combattere un conflitto totale e quasi esistenziale. Allo stesso tempo, nonostante l’ordine di attacco, sostenne di essere impegnato in una guerra difensiva: ovvero, di autodifesa della propria sovranità territoriale dalle maligne intenzioni degli ayatollah iraniani. In realtà, se è vero che l’Iran aveva appoggiato il partito di opposizione al-Da’wa (e pesantemente attaccato lo stesso Saddam ed il suo regime definendolo un fantoccio delle potenze imperialiste – va da sé che le potenze imperialiste, secondo i canoni islamici, erano sia l’URSS che gli USA), è altrettanto vero che l’Iraq forniva da tempo armi ai ribelli arabi del Khuzestan e già prima del 1980 aveva sferrato alcuni attacchi oltre la frontiera.

Dunque, il 22 settembre 1980, l’Iraq lanciò incursioni aree contro dieci importanti aeroporti e basi iraniane e attaccò la neonata Repubblica Islamica in tre punti del confine (al nord, al centro ed al sud). Inizialmente, Baghdad ottenne alcuni limitati successi, sebbene a costo di gravi perdite come nel caso della conquista di Khorramshahr. Ad Abadan (centro di importanti raffinerie petrolifere), invece, le forze irachene incontrarono un’accanita resistenza e dovettero affrontare un lungo assedio. Così, mentre Saddam pensava di porre fine alla guerra entro l’inverno, a dicembre, l’Iraq era riuscito ad occupare solo alcune parti del Khuzestan per una combinazione di meriti difensivi iraniani (questi, anche se sorpresi dall’invasione, riuscirono ad organizzare rapidamente una forte resistenza attraverso l’utilizzo combinato di esercito regolare – nonostante le ampie purghe subite dopo la deposizione dello Shah – Guardie Rivoluzionarie ed unità di polizia e volontari) e demeriti iracheni. Gli ufficiali baathisti, infatti, commisero diversi errori grossolani determinati sia dalla mancanza di esperienza, sia dal fatto che sotto Saddam non si diventava ufficiali per meriti sul campo ma per la cieca lealtà allo stesso Rais e per l’appartenenza al suo clan tribale (legato all’area vicino a Tikrit).

Per ciò che concerne l’Iran, la guerra determinò le prime frizioni tra i vertici religiosi e quelli prettamente politici della Rivoluzione (un qualcosa che si era già manifestato nel corso della crisi degli ostaggi all’ambasciata USA). Nel giugno 1981, il Presidente e comandante in campo delle forze iraniane, il già citato Abolhassan Banisadr, venne esonerato dal suo incarico. E, a partire dal settembre 1981, gli iraniani iniziarono una controffensiva che l’estate successiva portò gli iracheni ad abbandonare le posizioni sin lì conquistate.

A questo punto, di fronte ad una evidente disfatta, Saddam si dichiarò pronto a negoziare una tregua, ma l’Iran (che nel mentre aveva acquisito una notevole confidenza) iniziò a richiedere condizioni eccessive come la destituzione dello stesso regime baathista. Così, nel luglio 1982, i vertici militari della Repubblica Islamica, facendo proprio il motto khomeinista che vedeva la liberazione di Baghdad come indispensabile per la liberazione di Gerusalemme, scelsero di avanzare in territorio iracheno per spingere al rovesciamento del Rais. Tuttavia, nonostante la scelta di indirizzare l’offensiva verso una regione a maggioranza sciita (in modo da scatenare un sollevamento popolare contro Saddam), questa non ottenne risultati particolarmente decisivi, portando ad un sostanziale stallo del conflitto che si protrarrà per diversi anni (salvo alcuni importanti successi iraniani del 1986) tra lo sgomento della cosiddetta “comunità internazionale” incapace di reagire anche di fronte agli attacchi sui civili (ai bombardamenti indiscriminati sulle città iraniane, senza particolari obiettivi militari) ed al reiterato uso di armi chimiche da parte delle forze di Saddam.

A questo proposito, è interessante notare come l’ONU, sebbene avesse condannato l’utilizzo delle armi chimiche nel conflitto in diverse risoluzioni, nonostante l’evidenza che ne mostrava l’utilizzo da parte delle truppe irachene, non faceva mai aperto riferimento all’Iraq (questo per il sostegno incondizionato, o quasi, di cui il regime di Saddam poteva godere presso molti Paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Francia). Soprattutto quest’ultima, per tutta la durata del conflitto, svolse insieme all’URSS il ruolo di principale fornitore di sistemi d’arma (anche altamente tecnologici) all’Iraq.

Sugli Stati Uniti, invece, è bene aprire una breve parentesi, visto che nello stesso periodo erano impegnati sia nella fornitura di armi al gihad antisovietico in Afghanistan, sia in America Latina per contrastare le forze “comuniste” in Nicaragua, El Salvador e Colombia. La “dottrina Carter”, inoltre, prevedeva un intervento diretto USA nel Golfo Persico solo in caso di minaccia contro un alleato degli Stati Uniti o di minaccia contro gli interessi diretti degli Stati Uniti nella regione. Sono ben note le vicende che portarono allo svelamento dello scandalo Iran-Contras ed all’operazione attraverso la quale Washington fornì armi e pezzi di ricambio anche all’Iran (sottoposto ad embargo), investendone il ricavato per il sostegno ai gruppi paramilitari reazionari e anti-sandinisti in Nicaragua. Questa operazione, tuttavia, non aveva alcun particolare risvolto ideologico. L’obiettivo USA era semplicemente quello di protrarre il conflitto il più a lungo possibile per poter successivamente godere dei risultati in termini di conquiste egemoniche di fronte a due Paesi in ginocchio. L’ex Segretario di Stato Henry Kissinger, ad esempio, stuzzicato sull’argomento, affermò che il risultato ideale del conflitto sarebbe stato la sconfitta di entrambi. Di fatto, gli USA, sulla base di queste considerazioni, sostennero scientemente entrambe le parti (sebbene la bilancia penda sul lato iracheno): ovvero, sostennero l’Iran quando ad attaccare era l’Iraq ed aiutarono l’Iraq quando la fase offensiva spettava all’Iran.

Il sostegno nascosto all’Iran del caso Iran-Contras (peraltro assai limitato), inoltre, risultava estremamente ambiguo. Questo, da un lato violava l’ufficialità dell’Operazione Staunch volta a prosciugare il flusso di armi verso lo stesso Iran (aiutato da Cina, Corea del Nord, Siria, Libia ed anche Israele, per il semplice motivo che questo percepiva l’Iraq come reale minaccia all’egemonia nell’area del Vicino Oriente), dall’altro, si poneva il preciso obiettivo di fornire all’Iran informazioni di intelligence falsate allo scopo di scoraggiare o far fallire sul nascere ogni potenziale offensiva che potesse alterare la situazione al fronte.

Infine, dal 1986 in poi, gli Stati Uniti stabilirono un filo diretto con Baghdad, fornendo ai militari baathisti coordinate e movimenti delle truppe iraniane sul campo. Allo stesso tempo, CIA e Pentagono incoraggiarono la dirigenza baathista ad intensificare gli attacchi contro gli obiettivi economici e civili iraniani (aree residenziali dei centri abitati e navi mercantili in particolar modo). Così, nel corso di quella fase della guerra passata alla storia come “guerra delle petroliere”, l’Iraq poteva colpire impunemente le navi iraniane, mentre l’eventuale risposta iraniana era sempre contrastata dalla marina militare americana che, a partire dal 1987, arrivò a schierare una massiccia flotta nel Golfo Persico. Ad ulteriore dimostrazione di ciò, il 17 maggio del 1987, un attacco missilistico iracheno colpì la USS Stark causando la morte di 37 membri dell’equipaggio. L’Iraq si scusò immediatamente per quanto avvenuto e, paradossalmente, gli USA utilizzarono l’evento per incolpare l’Iran della recrudescenza del conflitto nella regione. Ancora, il 14 aprile 1988 la fregata USA Samuel Roberts finì su una mina. Evento che gli USA utilizzarono per scatenare l’operazione Prayer Mantis. Questa si proponeva l’obiettivo di provocare la flotta ed il naviglio iraniano in modo che uscisse allo scoperto in alto mare per poi poterla facilmente colpire utilizzando la superiore potenza di fuoco e tecnologica della flotta USA. Di fatto, l’entità degli attacchi statunitensi contro la flotta iraniana fu estremamente pesante.

Infine, sempre per ciò che concerne il diretto coinvolgimento USA nel conflitto, non bisogna dimenticare l’episodio dell’abbattimento dell’Airbus Iran Air, con 290 civili a bordo, mentre svolgeva un volo regolare da Bandar Abbas a Dubai, il 3 luglio 1988. Sull’accaduto, il comandante della USS Vincennes (la nave dalla quale venne lanciato il missile che, tra l’altro, si trovava nelle acque territoriali iraniane), affermò di aver dato l’ordine di far fuoco pensando si trattasse di un aereo da guerra di Teheran. Tuttavia, l’aereo, come confermato anche dai controllori di volo di Dubai, stava salendo di quota. Dunque, non poteva essere una minaccia per la nave americana, con la quale si sarebbe pure identificato. Nonostante ciò, dopo che l’amministrazione Reagan diede spiegazioni sommarie, fuorvianti e autoconsolatorie, il comandante statunitense venne premiato con una medaglia per i “meriti” sul campo.

Ad ogni modo, la guerra si concluse ufficiosamente il 18 luglio 1988, quando l’allora Presidente iraniano (l’attuale Guida Suprema Khamenei), su invito di Khomeini, accettò la risoluzione ONU 598 ed il cessate il fuoco in un momento in cui l’Iran si trovava in grave difficoltà, con poche armi a disposizione (nel totale isolamento internazionale), in gravi condizioni economiche e pressato dall’aggressività nordamericana nel Golfo.

Dal suo canto, due anni dopo il cessate il fuoco e due settimane dopo l’invasione irachena del Kuwait, Saddam Hussein offrì di porre definitivamente fine al conflitto affermando la propria disponibilità ad accettare nuovamente i protocolli di Algeri del 1975 (firmati dallo Shah, i quali delineavano i confini tra i due Stati). Un’offerta che risuonava come una specie di ammissione di sconfitta nell’istante in cui l’Iraq venne tradito da quelle Monarchie del Golfo che l’avevano sostenuto nella sua campagna distruttiva contro l’Iran.

Queste, nello specifico, ne sostennero lo sforzo bellico per il timore che l’affermazione della Rivoluzione Islamica in Iran avrebbe potuto scatenare un effetto domino sull’intera regione. Tuttavia, la stessa idea che Khomeini volesse esportare il modello rivoluzionario iraniano all’intera area (e che l’Iran ancora ambisca segretamente a tale progetto) si presenta come un altro dei “miti occidentali” sulla Repubblica Islamica. Tale progetto, se mai esistito, dovette scontrarsi da subito con la realtà della guerra imposta dall’Iraq che tagliò rapidamente le gambe ad ogni potenziale aspirazione iraniana. Allo stesso periodo, infatti, risale il fallimento di Hezbollah al-Hijaz in Arabia Saudita; mentre l’Hezbollah libanese non ha mai posto tra i suoi obiettivi quello di instaurare uno “Stato islamico” a Beirut (fattore già di suo impossibile in una realtà multiconfessionale). Un discorso a parte lo meriterebbero gli Houthi yemeniti, la cui dottrina zaydita sull’imamato presenta comunque pochi punti di contatto con il khomeinismo, fatta eccezione per l’enfasi sulla giustizia sociale ed il sostegno agli oppressi. Con l’Iran, inoltre, che ha optato per l’aperto appoggio della loro causa in tempi relativamente recenti (dopo il 2011).

Oggi, invece, il principale strumento della geopolitica di Teheran, il cosiddetto “Asse della Resistenza”, si presenta come una forza eminentemente difensiva e mai offensiva. Di fatto, il suo ruolo, nella visione di Qassem Soleimani, era (ed è) quello di proteggere la Repubblica Islamica su più linee di difesa (molte di esse sono svanite, come nel caso della Siria) e di rappresentare una sorta di riserva strategica per Teheran in caso di conflitto prolungato contro Israele.

In conclusione andrebbe affrontata la questione del velayat-e faqih: il governo del giureconsulto come principio sul quale si basa la Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran. Molti in Occidente tendono ad identificarlo come un’invenzione khomeinista, anche per inserire lo stesso khomeinismo nell’ampia cerchia dell’islamismo politico-radicale del Novecento. In realtà, la questione è molto più complessa; ed il “governo del giureconsulto” non è affatto un’invenzione di Khomeini o un travisamento della dottrina teologica classica dello sciismo.

Questa, infatti, storicamente si è divisa in una scuola quietista che vedeva la religione sottomessa al potere politico-militare ed una attivista che ha spesso rivendicato il ruolo di guida della società da parte dei religiosi. Ad esempio, riporta l’eminente teologo sciita Ibn al-Mu’allim (meglio noto come Shaykh al-Mufid, vissuto tra X e XI secolo): “Finché non esiste un Sultano giusto [da intendersi come l’Imam del Tempo] a gestire ciò che è stato menzionato in queste sezioni della giurisprudenza, allora spetta al vero e giusto mujtahid [esperto della legge], che sia anche intelligente e virtuoso, governare ciò di cui era responsabile il Sultano giusto”. Ancora, il giurista e teologo persiano Shaykh Tusi (996-1067), fondatore del seminario religioso di Najaf, ha menzionato nei suoi scritti, in particolare “Nihayah”, che il giurista ha diritti sui fondamenti più importanti della società, il che significa che ha il diritto di emettere verdetti, di chiamare alla guerra, di giudicare e di applicare le pene. Sulla stessa linea si ritrovano il giurista Ibn Idris al-Hilli (XII secolo) e Allamah al-Hilli (1250-1325), altro importante giurista e teologo, e Shaykh Murtada Ansari. Di non minor conto sono i pareri del giurista di epoca safavide Muhaqqiq al-Thani e del grande pensatore e mistico Mulla Sadra (1572-1641). Il primo affermò: “Giuristi e studiosi sciiti imamiti sono d’accordo sul fatto che un giurisperito giusto, che soddisfi le condizioni per emettere verdetti  ed è accettato come mujtahid nella legge religiosa, è il rappresentante degli Imam durante l’occultazione riguardo a tutto ciò che può essere rappresentato”. Mentre il secondo (che ha influenzato in modo evidente il pensiero di Khomeini su più livelli) ha dichiarato: “È necessario che in ogni momento ci sia un guardiano (wali) che sia incaricato di preservare (qaim) il Corano di cui conosce i segreti (asrar) ed i misteri (rumuz), così da poterlo insegnare ai fedeli e guidare coloro che ricevono la guida, e perfezionare le anime dei suoi seguaci e sostenitori timorati di Dio, e illuminare i loro cuori con la luce della conoscenza”.

Ne deriva che descrivere il velayat-e faqih come un’invenzione khomeinista si presenta, ancora una volta, come una vera e propria mistificazione. Al massimo si potrebbe disquisire sulla modalità attraverso cui Khomeini ha applicato un concetto proprio della tradizione teologica sciita alla realtà contingente dell’Iran post-rivoluzionario. Ma in questo caso sarebbe necessario uno studio approfondito della Costituzione della Repubblica Islamica, che si presenta come un connubio tra istanze secolari ed altre in prevalenza religiose e come inevitabile prodotto delle diverse anime del movimento rivoluzionario.

Altrettanto mistificatorio è intendere la corrente sciita dell’Islam come una sorta di culto della morte che trae la sua origine dal sacrificio dell’Imam Hussein a Kerbala nel 680 d. C. Anche in questo caso, sarebbe necessario un trattato di teologia per potere semplicemente delineare quella che è la teologia sciita su questa tema. Qui dovremo accontentarci delle parole di Hassan Nasrallah (la guida di Hezbollah assassinata da Israele nel settembre 2024) in riferimento alla morte in battaglia del figlio: “Mio figlio non è stato ucciso mentre bighellonava per la strada. Affrontava il nemico con una pistola in pugno, marciava verso il fronte con determinazione e fiducia in se stesso, ispirato dal desiderio di distruggere il nemico. La sua morte non è una vittoria per Israele ma una vittoria per Hezbollah. Siamo orgogliosi di questa morte […] Mentirei se cercassi di farle credere che la morte di mio figlio non faccia male, ma bisogna guardare alle cose in questo modo: è morto da martire; e questa è la gioia più grande che un padre possa provare […] noi crediamo in Dio e, in base al nostro credo, i martiri cominciano una nuova vita, molto migliore, in Paradiso. Essi hanno un posto speciale presso Dio”.

Tutti i (falsi) miti occidentali sull’Iran

La disinformazione sulla Repubblica Islamica dell’Iran è uno dei principali strumenti attraverso i quali l’Occidente ha costruito quella retorica bellicista che ha portato a giustificare le recenti aggressioni subite da Teheran. Qui si cercherà di smascherare parte di queste falsità.

Segue nostro Telegram.

In primo luogo sarà necessario ribadire con forza (e sembra del tutto necessario) che il popolo iraniano non vuole in alcun modo essere liberato dall’Occidente e (soprattutto) da Israele, e non vuole fare del proprio Paese ciò che fu la Cina dopo le “guerre dell’oppio” del XIX secolo. Nei loro occhi è ancora vivo il ricordo dello Shah Reza Pahlavi, che fece dell’Iran il campo di addestramento dei piloti e militari israeliani. Per questo motivo non possono che sorridere di fronte alla (non richiesta) candidatura di suo figlio Ciro a guidare il Paese in un eventuale “post Repubblica Islamica”. Dopo tutto, i Pahlavi sono quelli che defenestrarono il legittimo governo nazionalista di Mossadeq nel 1953 in compagnia di CIA ed MI6 britannico, trasformandolo di fatto in una colonia dell’Occidente (e con gli Stati Uniti che approfittarono dell’occasione per spodestare dalla regione proprio la Gran Bretagna, inaugurando la loro decennale tradizione di umiliare e tradire i supposti alleati). Ed i Pahlavi sono quelli che repressero nel sangue le rivolte del 1963 (arrestando, torturando ed esiliando i suoi protagonisti, Khomeini incluso), mentre la loro “rivoluzione bianca” fallì miseramente, portando milioni di iraniani alla povertà assoluta ed arricchendo semplicemente la cerchia ristretta vicino al palazzo reale. Ancora, Reza Pahlavi era colui che si vantava di avere un canale di comunicazione diretta col divino; cosa che, a suo modo di dire, gli permetteva di prevenire ogni tentativo di colpo di Stato contro di lui (in effetti, tale capacità era rappresentata dal fatto che ogni comunicazione militare di un certo livello passava obbligatoriamente attraverso il palazzo reale). Nel testo autobiografico “Cella nr. 14” (recentemente pubblicato in Italia), inoltre, l’attuale Guida Suprema dell’Iran Ali Khamenei racconta degli arresti e delle torture subite per mano della Savak: l’onnipotente polizia segreta dello Shah e principale strumento di repressione del popolo negli anni della monarchia.

Tendenzialmente, in Occidente, si cerca di presentare gli anni della monarchia in Iran come un periodo di libertà e sviluppo. In realtà, è vero l’esatto contrario. Ed il popolo iraniano (salvo qualche espatriato di lungo corso) non nutre alcuna nostalgia per quei tempi. Sarà necessario anche ribadire che le donne iraniane non combattono affatto per poter indossare la minigonna. Per le donne iraniane queste questioni sono del tutto irrilevanti. Chiunque abbia viaggiato per l’Iran e chiunque ne conosca la storia, sa perfettamente che: 1) la condizione della donna (e la sua emancipazione) è notevolmente migliore rispetto a qualsiasi altro Paese della regione (Turchia orientale inclusa); 2) con l’avvento della Repubblica Islamica la stessa condizione femminile è indubbiamente migliorata (il 65% degli studenti iraniani sono donne e le donne ricoprono oggi ruoli di primo piano in diversi ambiti, dalla medicina al giornalismo all’educazione, fino a settori tecnici e finanziari legati all’ingegneria, alla cantieristica, o alla gestione delle fondazioni religiose sulle quali si basa parte dell’economia iraniana).

Altrettanto non gradita è la candidatura di Mariam Rajavi, a capo del Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran, e legata a doppio filo al MeK. Proprio la storia dei Mujahedin-e Khalq merita l’apertura di una breve parentesi, visto l’interesse dimostrato nei loro confronti da molti politici occidentali, italiani compresi.

Nato intorno alla metà degli anni ’60 del secolo scorso su basi ideologiche che mischiavano elementi marxisti con alcuni aspetti propri dell’Islam sciita (i membri erano invitati a vivere in collettivi ed a studiare i modelli economici del socialismo reale), il MeK ha giocato un ruolo importante negli eventi rivoluzionari dimostrando una notevole capacità nell’organizzazione di azioni rapide quanto efficaci contro il potere dello Shah. Nell’istante postrivoluzionario, tuttavia, l’Imam Khomeini iniziò (non a torto) a dubitare sulle reali intenzioni di Masoud Rajavi (guida dal 1979) e del movimento stesso che, dopo l’esclusione dalla vita politica del Paese, optò per la lotta armata contro la neonata Repubblica Islamica. Dal 1981 al 1986, i vertici del MeK vissero un dorato esilio parigino nel corso del quale, dopo la creazione del già citato Consiglio Nazionale di Resistenza (in cooperazione con l’ex primo Presidente dell’Iran postrivoluzionario Abolhassan Banisadr), cercarono nuovi consensi in Occidente presentandosi come movimento laico, democratico, a favore del libero mercato, e campione della causa dell’autonomia del Kurdistan. Questo è stato solo il primo dei non pochi cambi di paradigma del gruppo. Infatti, a partire dal 1985, a seguito delle seconde nozze con Maryam Azodanlu (ex sposa di un suo stretto collaboratore), Rajavi iniziò a parlare di una nuova “rivoluzione ideologica” che avrebbe portato alla parità dei sessi all’interno del gruppo. Per fare ciò attribuì alla sua nuova sposa il ruolo di guida del MeK ponendola al suo stesso livello e paragonando il nuovo matrimonio a quello del Profeta Muhammad con Khadija. Allo stesso tempo, riservò per sé il titolo di Imam-e Hal (Imam del presente).

A seguito dell’intervento di Teheran in favore della liberazione di alcuni cittadini francesi tenuti in ostaggio in Libano, il MeK, nel 1986, venne costretto ad abbandonare la Francia per l’Iraq dove poté godere della  protezione e dell’assistenza militare del regime di Saddam Hussein in cambio di servizi di traduzione e di operazioni oltre le linee in quella guerra che in Iran viene chiamata “Sacra Difesa” (o “guerra imposta”). Nel 1988, a cavallo del definitivo cessate il fuoco, Rajavi lanciò l’operazione “Luce Eterna”: di fatto, un vero e proprio tentativo di invasione dell’Iran da parte dei miliziani del gruppo nella speranza di scatenare un (mai avvenuto) sommovimento popolare contro la Repubblica Islamica (una sorta di “Baia dei Porci iraniana” che la storiografia occidentale ricorda solo per le esecuzioni degli uomini fatti prigionieri dalle autorità della Repubblica Islamica, senza mai fare riferimento alle cause – pratica assai diffusa da certa propaganda, quella di invertire cause ed effetti di un determinato evento in modo da attribuirne le responsabilità al nemico del momento – come si è visto per il caso ucraino).

Di fronte al palese fallimento (il MeK perse oltre la metà dei propri membri), Rajavi, al posto di riconoscere i propri errori, non fece altro che accusare i suoi uomini di avere la mente deviata da pensieri di natura sessuale. Da quel momento in poi, infatti, si registra un nuovo sviluppo ideologico all’interno del movimento che assume sempre di più i connotati della setta pseudoreligiosa votata al culto della personalità della sua coppia guida. Ai membri (molti dei quali tenuti in cattività contro la loro stessa volontà, privati dei documenti, minacciati di pesanti ritorsioni in caso di fuga e sottoposti al lavaggio del cervello) venne imposto il celibato ed il taglio totale delle comunicazioni con la famiglia. L’amore per la propria famiglia doveva essere sostituito dall’amore per i Rajavi e dalla speranza che il futuro dell’Iran possa essere sotto il loro segno (come recitano alcuni canti del gruppo).

A ciò si aggiunga il ruolo giocato dal MeK nella soppressione delle rivolte popolari contro il regime di Saddam scoppiate dopo l’Operazione Desert Storm. Un’azione che si trasformò rapidamente in una forma di pulizia etnico-confessionale contro la comunità sciita irachena (cosa che, insieme alla partecipazione diretta alla “guerra imposta” ed all’uccisione di migliaia di cittadini iraniani, valse la perdita di quella poca credibilità rimasta al gruppo all’interno dell’Iran) e contro la minoranza curda (paradossale se si pensa che il MeK ha spesso cercato di proporsi come sostenitore della loro autonomia). Va da sé che la rivolta venne ampiamente incoraggiata da Stati Uniti e Gran Bretagna (non dall’Iran), salvo poi ritirare immediatamente il loro sostegno in modo tale che il regime di Saddam potesse fare strage degli sciiti invisi tanto ai vertici di Baghdad quanto a Washington.

Nonostante il MeK abbia sempre cercato di negare la sua partecipazione nei fatti del 1991, è rimasta celebre una frase di Masoud Rajavi: “mettete i curdi sotto i vostri carri armati e risparmiate le pallottole per le Guardie Rivoluzionarie”.

Di fatto, il MeK è rimasto fino all’ultimo fedele a Saddam Hussein, con tanto di breve inserimento all’interno della lista internazionale delle organizzazioni terroristiche fino al suo trasferimento in Albania (sebbene, come affermato in un interessante documento della Rand Corp, influente think tank nordamericano, non sia mai stato trattato realmente come tale). Dalla seconda aggressione occidentale all’Iraq, inoltre, non si hanno più notizie di Masoud Rajavi – sotto una forma di occultamento che ricorda parodisticamente quello dell’ultimo Imam dello sciismo imamita – che ha lasciato alla moglie il ruolo di volto pubblico del Consiglio Nazionale di Resistenza. Da non tralasciare, infine, il fatto che la stessa Repubblica Islamica, dopo l’attacco all’Iraq, propose agli Stati Uniti uno scambio di prigionieri all’interno di più ampio progetto di cooperazione/normalizzazione dei rapporti (mai avvenuto a causa delle pressioni della lobby sionista a Washington): membri del MeK detenuti nelle prigioni della coalizione in Iraq in cambio di  membri di al-Qaeda detenuti in Iran. Gli Stati Uniti rifiutarono avanzando dubbi sul rispetto dei diritti umani nelle carceri iraniane (cosa ancora una volta paradossale se si considerano i casi di tortura a Guantanamo o ad Abu Ghraib). In realtà, lo fecero sapendo che i membri del MeK (come effettivamente avvenuto) sarebbero tornati utili per operazioni oltre il confine iraniano (assassinii mirati di scienziati e ufficiali, ad esempio).

Questo excursus è servito in primo luogo a dimostrare come un movimento che gode di assai poca stima all’interno dei confini della Repubblica Islamica venga presentato in Occidente come alternativa credibile ad essa. Lo scarso successo popolare (buona parte dei membri odierni sono reclutati tra l’immigrazione iraniana con promesse di asilo politico e occupazione lavorativa in Occidente), infatti, si accompagna ad un notevole successo politico ed economico ottenuto con audaci operazioni di promozione della propria immagine nei centri di potere occidentale, con la frode manifesta (presentandosi sotto la veste di diverse associazioni rivolte alla difesa dei diritti umani in Iran) ed attraverso la costruzione di un vero e proprio impero finanziario ed immobiliare (pacchetti azionari, finanziamento illecito di Partiti, proprietà di case da gioco ed alberghi).

Al discorso sul MeK si accompagna indubbiamente quello sulla guerra Iran-Iraq, anch’essa fonte di notevole mistificazione ideologico-storica. Prima di analizzare questo evento nel dettaglio sarà bene ribadire a chi accusa l’Iran di aver distrutto il panarabismo che: 1) il panarabismo era già morto e sepolto prima del conflitto contro l’Iraq, iniziato tra l’altro da Baghdad; 2) è assai difficile poter considerare il Ba’ath iracheno ed il regime di Saddam come espressioni del panarabismo, sebbene l’abbiano spesso utilizzato come manto ideologico proprio per giustificare la guerra contro la neonata Repubblica Islamica.

In primo luogo, è bene sottolineare quelli che erano gli obiettivi di Saddam con l’aggressione all’Iran: 1) l’egemonia politico-economica sul Golfo Persico (qualcosa che in un secondo momento lo porterà ad invadere il Kuwait per rendere più agevole l’accesso iracheno al mare); 2) il controllo totale sullo Shatt al-Arab (area fluviale dall’enorme rilevanza strategica per l’economia irachena); 3) il controllo sul Khuzestan iraniano ricco di petrolio; 4) limitare la penetrazione delle idee della Rivoluzione Islamica in Iraq (la popolazione sciita irachena, sebbene maggioranza, era governata da una élite quasi totalmente sunnita che mise a morte in gran segreto l’importante ayatollah Baqir al-Sadr nei primi mesi del 1980); 5) impedire che l’Iran potesse riemergere come potenza regionale dopo il caos rivoluzionario.

Saddam Hussein, inoltre, pensava ad un conflitto limitato da combattere in determinate località, non pensava di combattere un conflitto totale e quasi esistenziale. Allo stesso tempo, nonostante l’ordine di attacco, sostenne di essere impegnato in una guerra difensiva: ovvero, di autodifesa della propria sovranità territoriale dalle maligne intenzioni degli ayatollah iraniani. In realtà, se è vero che l’Iran aveva appoggiato il partito di opposizione al-Da’wa (e pesantemente attaccato lo stesso Saddam ed il suo regime definendolo un fantoccio delle potenze imperialiste – va da sé che le potenze imperialiste, secondo i canoni islamici, erano sia l’URSS che gli USA), è altrettanto vero che l’Iraq forniva da tempo armi ai ribelli arabi del Khuzestan e già prima del 1980 aveva sferrato alcuni attacchi oltre la frontiera.

Dunque, il 22 settembre 1980, l’Iraq lanciò incursioni aree contro dieci importanti aeroporti e basi iraniane e attaccò la neonata Repubblica Islamica in tre punti del confine (al nord, al centro ed al sud). Inizialmente, Baghdad ottenne alcuni limitati successi, sebbene a costo di gravi perdite come nel caso della conquista di Khorramshahr. Ad Abadan (centro di importanti raffinerie petrolifere), invece, le forze irachene incontrarono un’accanita resistenza e dovettero affrontare un lungo assedio. Così, mentre Saddam pensava di porre fine alla guerra entro l’inverno, a dicembre, l’Iraq era riuscito ad occupare solo alcune parti del Khuzestan per una combinazione di meriti difensivi iraniani (questi, anche se sorpresi dall’invasione, riuscirono ad organizzare rapidamente una forte resistenza attraverso l’utilizzo combinato di esercito regolare – nonostante le ampie purghe subite dopo la deposizione dello Shah – Guardie Rivoluzionarie ed unità di polizia e volontari) e demeriti iracheni. Gli ufficiali baathisti, infatti, commisero diversi errori grossolani determinati sia dalla mancanza di esperienza, sia dal fatto che sotto Saddam non si diventava ufficiali per meriti sul campo ma per la cieca lealtà allo stesso Rais e per l’appartenenza al suo clan tribale (legato all’area vicino a Tikrit).

Per ciò che concerne l’Iran, la guerra determinò le prime frizioni tra i vertici religiosi e quelli prettamente politici della Rivoluzione (un qualcosa che si era già manifestato nel corso della crisi degli ostaggi all’ambasciata USA). Nel giugno 1981, il Presidente e comandante in campo delle forze iraniane, il già citato Abolhassan Banisadr, venne esonerato dal suo incarico. E, a partire dal settembre 1981, gli iraniani iniziarono una controffensiva che l’estate successiva portò gli iracheni ad abbandonare le posizioni sin lì conquistate.

A questo punto, di fronte ad una evidente disfatta, Saddam si dichiarò pronto a negoziare una tregua, ma l’Iran (che nel mentre aveva acquisito una notevole confidenza) iniziò a richiedere condizioni eccessive come la destituzione dello stesso regime baathista. Così, nel luglio 1982, i vertici militari della Repubblica Islamica, facendo proprio il motto khomeinista che vedeva la liberazione di Baghdad come indispensabile per la liberazione di Gerusalemme, scelsero di avanzare in territorio iracheno per spingere al rovesciamento del Rais. Tuttavia, nonostante la scelta di indirizzare l’offensiva verso una regione a maggioranza sciita (in modo da scatenare un sollevamento popolare contro Saddam), questa non ottenne risultati particolarmente decisivi, portando ad un sostanziale stallo del conflitto che si protrarrà per diversi anni (salvo alcuni importanti successi iraniani del 1986) tra lo sgomento della cosiddetta “comunità internazionale” incapace di reagire anche di fronte agli attacchi sui civili (ai bombardamenti indiscriminati sulle città iraniane, senza particolari obiettivi militari) ed al reiterato uso di armi chimiche da parte delle forze di Saddam.

A questo proposito, è interessante notare come l’ONU, sebbene avesse condannato l’utilizzo delle armi chimiche nel conflitto in diverse risoluzioni, nonostante l’evidenza che ne mostrava l’utilizzo da parte delle truppe irachene, non faceva mai aperto riferimento all’Iraq (questo per il sostegno incondizionato, o quasi, di cui il regime di Saddam poteva godere presso molti Paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Francia). Soprattutto quest’ultima, per tutta la durata del conflitto, svolse insieme all’URSS il ruolo di principale fornitore di sistemi d’arma (anche altamente tecnologici) all’Iraq.

Sugli Stati Uniti, invece, è bene aprire una breve parentesi, visto che nello stesso periodo erano impegnati sia nella fornitura di armi al gihad antisovietico in Afghanistan, sia in America Latina per contrastare le forze “comuniste” in Nicaragua, El Salvador e Colombia. La “dottrina Carter”, inoltre, prevedeva un intervento diretto USA nel Golfo Persico solo in caso di minaccia contro un alleato degli Stati Uniti o di minaccia contro gli interessi diretti degli Stati Uniti nella regione. Sono ben note le vicende che portarono allo svelamento dello scandalo Iran-Contras ed all’operazione attraverso la quale Washington fornì armi e pezzi di ricambio anche all’Iran (sottoposto ad embargo), investendone il ricavato per il sostegno ai gruppi paramilitari reazionari e anti-sandinisti in Nicaragua. Questa operazione, tuttavia, non aveva alcun particolare risvolto ideologico. L’obiettivo USA era semplicemente quello di protrarre il conflitto il più a lungo possibile per poter successivamente godere dei risultati in termini di conquiste egemoniche di fronte a due Paesi in ginocchio. L’ex Segretario di Stato Henry Kissinger, ad esempio, stuzzicato sull’argomento, affermò che il risultato ideale del conflitto sarebbe stato la sconfitta di entrambi. Di fatto, gli USA, sulla base di queste considerazioni, sostennero scientemente entrambe le parti (sebbene la bilancia penda sul lato iracheno): ovvero, sostennero l’Iran quando ad attaccare era l’Iraq ed aiutarono l’Iraq quando la fase offensiva spettava all’Iran.

Il sostegno nascosto all’Iran del caso Iran-Contras (peraltro assai limitato), inoltre, risultava estremamente ambiguo. Questo, da un lato violava l’ufficialità dell’Operazione Staunch volta a prosciugare il flusso di armi verso lo stesso Iran (aiutato da Cina, Corea del Nord, Siria, Libia ed anche Israele, per il semplice motivo che questo percepiva l’Iraq come reale minaccia all’egemonia nell’area del Vicino Oriente), dall’altro, si poneva il preciso obiettivo di fornire all’Iran informazioni di intelligence falsate allo scopo di scoraggiare o far fallire sul nascere ogni potenziale offensiva che potesse alterare la situazione al fronte.

Infine, dal 1986 in poi, gli Stati Uniti stabilirono un filo diretto con Baghdad, fornendo ai militari baathisti coordinate e movimenti delle truppe iraniane sul campo. Allo stesso tempo, CIA e Pentagono incoraggiarono la dirigenza baathista ad intensificare gli attacchi contro gli obiettivi economici e civili iraniani (aree residenziali dei centri abitati e navi mercantili in particolar modo). Così, nel corso di quella fase della guerra passata alla storia come “guerra delle petroliere”, l’Iraq poteva colpire impunemente le navi iraniane, mentre l’eventuale risposta iraniana era sempre contrastata dalla marina militare americana che, a partire dal 1987, arrivò a schierare una massiccia flotta nel Golfo Persico. Ad ulteriore dimostrazione di ciò, il 17 maggio del 1987, un attacco missilistico iracheno colpì la USS Stark causando la morte di 37 membri dell’equipaggio. L’Iraq si scusò immediatamente per quanto avvenuto e, paradossalmente, gli USA utilizzarono l’evento per incolpare l’Iran della recrudescenza del conflitto nella regione. Ancora, il 14 aprile 1988 la fregata USA Samuel Roberts finì su una mina. Evento che gli USA utilizzarono per scatenare l’operazione Prayer Mantis. Questa si proponeva l’obiettivo di provocare la flotta ed il naviglio iraniano in modo che uscisse allo scoperto in alto mare per poi poterla facilmente colpire utilizzando la superiore potenza di fuoco e tecnologica della flotta USA. Di fatto, l’entità degli attacchi statunitensi contro la flotta iraniana fu estremamente pesante.

Infine, sempre per ciò che concerne il diretto coinvolgimento USA nel conflitto, non bisogna dimenticare l’episodio dell’abbattimento dell’Airbus Iran Air, con 290 civili a bordo, mentre svolgeva un volo regolare da Bandar Abbas a Dubai, il 3 luglio 1988. Sull’accaduto, il comandante della USS Vincennes (la nave dalla quale venne lanciato il missile che, tra l’altro, si trovava nelle acque territoriali iraniane), affermò di aver dato l’ordine di far fuoco pensando si trattasse di un aereo da guerra di Teheran. Tuttavia, l’aereo, come confermato anche dai controllori di volo di Dubai, stava salendo di quota. Dunque, non poteva essere una minaccia per la nave americana, con la quale si sarebbe pure identificato. Nonostante ciò, dopo che l’amministrazione Reagan diede spiegazioni sommarie, fuorvianti e autoconsolatorie, il comandante statunitense venne premiato con una medaglia per i “meriti” sul campo.

Ad ogni modo, la guerra si concluse ufficiosamente il 18 luglio 1988, quando l’allora Presidente iraniano (l’attuale Guida Suprema Khamenei), su invito di Khomeini, accettò la risoluzione ONU 598 ed il cessate il fuoco in un momento in cui l’Iran si trovava in grave difficoltà, con poche armi a disposizione (nel totale isolamento internazionale), in gravi condizioni economiche e pressato dall’aggressività nordamericana nel Golfo.

Dal suo canto, due anni dopo il cessate il fuoco e due settimane dopo l’invasione irachena del Kuwait, Saddam Hussein offrì di porre definitivamente fine al conflitto affermando la propria disponibilità ad accettare nuovamente i protocolli di Algeri del 1975 (firmati dallo Shah, i quali delineavano i confini tra i due Stati). Un’offerta che risuonava come una specie di ammissione di sconfitta nell’istante in cui l’Iraq venne tradito da quelle Monarchie del Golfo che l’avevano sostenuto nella sua campagna distruttiva contro l’Iran.

Queste, nello specifico, ne sostennero lo sforzo bellico per il timore che l’affermazione della Rivoluzione Islamica in Iran avrebbe potuto scatenare un effetto domino sull’intera regione. Tuttavia, la stessa idea che Khomeini volesse esportare il modello rivoluzionario iraniano all’intera area (e che l’Iran ancora ambisca segretamente a tale progetto) si presenta come un altro dei “miti occidentali” sulla Repubblica Islamica. Tale progetto, se mai esistito, dovette scontrarsi da subito con la realtà della guerra imposta dall’Iraq che tagliò rapidamente le gambe ad ogni potenziale aspirazione iraniana. Allo stesso periodo, infatti, risale il fallimento di Hezbollah al-Hijaz in Arabia Saudita; mentre l’Hezbollah libanese non ha mai posto tra i suoi obiettivi quello di instaurare uno “Stato islamico” a Beirut (fattore già di suo impossibile in una realtà multiconfessionale). Un discorso a parte lo meriterebbero gli Houthi yemeniti, la cui dottrina zaydita sull’imamato presenta comunque pochi punti di contatto con il khomeinismo, fatta eccezione per l’enfasi sulla giustizia sociale ed il sostegno agli oppressi. Con l’Iran, inoltre, che ha optato per l’aperto appoggio della loro causa in tempi relativamente recenti (dopo il 2011).

Oggi, invece, il principale strumento della geopolitica di Teheran, il cosiddetto “Asse della Resistenza”, si presenta come una forza eminentemente difensiva e mai offensiva. Di fatto, il suo ruolo, nella visione di Qassem Soleimani, era (ed è) quello di proteggere la Repubblica Islamica su più linee di difesa (molte di esse sono svanite, come nel caso della Siria) e di rappresentare una sorta di riserva strategica per Teheran in caso di conflitto prolungato contro Israele.

In conclusione andrebbe affrontata la questione del velayat-e faqih: il governo del giureconsulto come principio sul quale si basa la Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran. Molti in Occidente tendono ad identificarlo come un’invenzione khomeinista, anche per inserire lo stesso khomeinismo nell’ampia cerchia dell’islamismo politico-radicale del Novecento. In realtà, la questione è molto più complessa; ed il “governo del giureconsulto” non è affatto un’invenzione di Khomeini o un travisamento della dottrina teologica classica dello sciismo.

Questa, infatti, storicamente si è divisa in una scuola quietista che vedeva la religione sottomessa al potere politico-militare ed una attivista che ha spesso rivendicato il ruolo di guida della società da parte dei religiosi. Ad esempio, riporta l’eminente teologo sciita Ibn al-Mu’allim (meglio noto come Shaykh al-Mufid, vissuto tra X e XI secolo): “Finché non esiste un Sultano giusto [da intendersi come l’Imam del Tempo] a gestire ciò che è stato menzionato in queste sezioni della giurisprudenza, allora spetta al vero e giusto mujtahid [esperto della legge], che sia anche intelligente e virtuoso, governare ciò di cui era responsabile il Sultano giusto”. Ancora, il giurista e teologo persiano Shaykh Tusi (996-1067), fondatore del seminario religioso di Najaf, ha menzionato nei suoi scritti, in particolare “Nihayah”, che il giurista ha diritti sui fondamenti più importanti della società, il che significa che ha il diritto di emettere verdetti, di chiamare alla guerra, di giudicare e di applicare le pene. Sulla stessa linea si ritrovano il giurista Ibn Idris al-Hilli (XII secolo) e Allamah al-Hilli (1250-1325), altro importante giurista e teologo, e Shaykh Murtada Ansari. Di non minor conto sono i pareri del giurista di epoca safavide Muhaqqiq al-Thani e del grande pensatore e mistico Mulla Sadra (1572-1641). Il primo affermò: “Giuristi e studiosi sciiti imamiti sono d’accordo sul fatto che un giurisperito giusto, che soddisfi le condizioni per emettere verdetti  ed è accettato come mujtahid nella legge religiosa, è il rappresentante degli Imam durante l’occultazione riguardo a tutto ciò che può essere rappresentato”. Mentre il secondo (che ha influenzato in modo evidente il pensiero di Khomeini su più livelli) ha dichiarato: “È necessario che in ogni momento ci sia un guardiano (wali) che sia incaricato di preservare (qaim) il Corano di cui conosce i segreti (asrar) ed i misteri (rumuz), così da poterlo insegnare ai fedeli e guidare coloro che ricevono la guida, e perfezionare le anime dei suoi seguaci e sostenitori timorati di Dio, e illuminare i loro cuori con la luce della conoscenza”.

Ne deriva che descrivere il velayat-e faqih come un’invenzione khomeinista si presenta, ancora una volta, come una vera e propria mistificazione. Al massimo si potrebbe disquisire sulla modalità attraverso cui Khomeini ha applicato un concetto proprio della tradizione teologica sciita alla realtà contingente dell’Iran post-rivoluzionario. Ma in questo caso sarebbe necessario uno studio approfondito della Costituzione della Repubblica Islamica, che si presenta come un connubio tra istanze secolari ed altre in prevalenza religiose e come inevitabile prodotto delle diverse anime del movimento rivoluzionario.

Altrettanto mistificatorio è intendere la corrente sciita dell’Islam come una sorta di culto della morte che trae la sua origine dal sacrificio dell’Imam Hussein a Kerbala nel 680 d. C. Anche in questo caso, sarebbe necessario un trattato di teologia per potere semplicemente delineare quella che è la teologia sciita su questa tema. Qui dovremo accontentarci delle parole di Hassan Nasrallah (la guida di Hezbollah assassinata da Israele nel settembre 2024) in riferimento alla morte in battaglia del figlio: “Mio figlio non è stato ucciso mentre bighellonava per la strada. Affrontava il nemico con una pistola in pugno, marciava verso il fronte con determinazione e fiducia in se stesso, ispirato dal desiderio di distruggere il nemico. La sua morte non è una vittoria per Israele ma una vittoria per Hezbollah. Siamo orgogliosi di questa morte […] Mentirei se cercassi di farle credere che la morte di mio figlio non faccia male, ma bisogna guardare alle cose in questo modo: è morto da martire; e questa è la gioia più grande che un padre possa provare […] noi crediamo in Dio e, in base al nostro credo, i martiri cominciano una nuova vita, molto migliore, in Paradiso. Essi hanno un posto speciale presso Dio”.

La disinformazione sulla Repubblica Islamica dell’Iran è uno dei principali strumenti attraverso i quali l’Occidente ha costruito quella retorica bellicista che ha portato a giustificare le recenti aggressioni subite da Teheran. Qui si cercherà di smascherare parte di queste falsità.

Segue nostro Telegram.

In primo luogo sarà necessario ribadire con forza (e sembra del tutto necessario) che il popolo iraniano non vuole in alcun modo essere liberato dall’Occidente e (soprattutto) da Israele, e non vuole fare del proprio Paese ciò che fu la Cina dopo le “guerre dell’oppio” del XIX secolo. Nei loro occhi è ancora vivo il ricordo dello Shah Reza Pahlavi, che fece dell’Iran il campo di addestramento dei piloti e militari israeliani. Per questo motivo non possono che sorridere di fronte alla (non richiesta) candidatura di suo figlio Ciro a guidare il Paese in un eventuale “post Repubblica Islamica”. Dopo tutto, i Pahlavi sono quelli che defenestrarono il legittimo governo nazionalista di Mossadeq nel 1953 in compagnia di CIA ed MI6 britannico, trasformandolo di fatto in una colonia dell’Occidente (e con gli Stati Uniti che approfittarono dell’occasione per spodestare dalla regione proprio la Gran Bretagna, inaugurando la loro decennale tradizione di umiliare e tradire i supposti alleati). Ed i Pahlavi sono quelli che repressero nel sangue le rivolte del 1963 (arrestando, torturando ed esiliando i suoi protagonisti, Khomeini incluso), mentre la loro “rivoluzione bianca” fallì miseramente, portando milioni di iraniani alla povertà assoluta ed arricchendo semplicemente la cerchia ristretta vicino al palazzo reale. Ancora, Reza Pahlavi era colui che si vantava di avere un canale di comunicazione diretta col divino; cosa che, a suo modo di dire, gli permetteva di prevenire ogni tentativo di colpo di Stato contro di lui (in effetti, tale capacità era rappresentata dal fatto che ogni comunicazione militare di un certo livello passava obbligatoriamente attraverso il palazzo reale). Nel testo autobiografico “Cella nr. 14” (recentemente pubblicato in Italia), inoltre, l’attuale Guida Suprema dell’Iran Ali Khamenei racconta degli arresti e delle torture subite per mano della Savak: l’onnipotente polizia segreta dello Shah e principale strumento di repressione del popolo negli anni della monarchia.

Tendenzialmente, in Occidente, si cerca di presentare gli anni della monarchia in Iran come un periodo di libertà e sviluppo. In realtà, è vero l’esatto contrario. Ed il popolo iraniano (salvo qualche espatriato di lungo corso) non nutre alcuna nostalgia per quei tempi. Sarà necessario anche ribadire che le donne iraniane non combattono affatto per poter indossare la minigonna. Per le donne iraniane queste questioni sono del tutto irrilevanti. Chiunque abbia viaggiato per l’Iran e chiunque ne conosca la storia, sa perfettamente che: 1) la condizione della donna (e la sua emancipazione) è notevolmente migliore rispetto a qualsiasi altro Paese della regione (Turchia orientale inclusa); 2) con l’avvento della Repubblica Islamica la stessa condizione femminile è indubbiamente migliorata (il 65% degli studenti iraniani sono donne e le donne ricoprono oggi ruoli di primo piano in diversi ambiti, dalla medicina al giornalismo all’educazione, fino a settori tecnici e finanziari legati all’ingegneria, alla cantieristica, o alla gestione delle fondazioni religiose sulle quali si basa parte dell’economia iraniana).

Altrettanto non gradita è la candidatura di Mariam Rajavi, a capo del Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran, e legata a doppio filo al MeK. Proprio la storia dei Mujahedin-e Khalq merita l’apertura di una breve parentesi, visto l’interesse dimostrato nei loro confronti da molti politici occidentali, italiani compresi.

Nato intorno alla metà degli anni ’60 del secolo scorso su basi ideologiche che mischiavano elementi marxisti con alcuni aspetti propri dell’Islam sciita (i membri erano invitati a vivere in collettivi ed a studiare i modelli economici del socialismo reale), il MeK ha giocato un ruolo importante negli eventi rivoluzionari dimostrando una notevole capacità nell’organizzazione di azioni rapide quanto efficaci contro il potere dello Shah. Nell’istante postrivoluzionario, tuttavia, l’Imam Khomeini iniziò (non a torto) a dubitare sulle reali intenzioni di Masoud Rajavi (guida dal 1979) e del movimento stesso che, dopo l’esclusione dalla vita politica del Paese, optò per la lotta armata contro la neonata Repubblica Islamica. Dal 1981 al 1986, i vertici del MeK vissero un dorato esilio parigino nel corso del quale, dopo la creazione del già citato Consiglio Nazionale di Resistenza (in cooperazione con l’ex primo Presidente dell’Iran postrivoluzionario Abolhassan Banisadr), cercarono nuovi consensi in Occidente presentandosi come movimento laico, democratico, a favore del libero mercato, e campione della causa dell’autonomia del Kurdistan. Questo è stato solo il primo dei non pochi cambi di paradigma del gruppo. Infatti, a partire dal 1985, a seguito delle seconde nozze con Maryam Azodanlu (ex sposa di un suo stretto collaboratore), Rajavi iniziò a parlare di una nuova “rivoluzione ideologica” che avrebbe portato alla parità dei sessi all’interno del gruppo. Per fare ciò attribuì alla sua nuova sposa il ruolo di guida del MeK ponendola al suo stesso livello e paragonando il nuovo matrimonio a quello del Profeta Muhammad con Khadija. Allo stesso tempo, riservò per sé il titolo di Imam-e Hal (Imam del presente).

A seguito dell’intervento di Teheran in favore della liberazione di alcuni cittadini francesi tenuti in ostaggio in Libano, il MeK, nel 1986, venne costretto ad abbandonare la Francia per l’Iraq dove poté godere della  protezione e dell’assistenza militare del regime di Saddam Hussein in cambio di servizi di traduzione e di operazioni oltre le linee in quella guerra che in Iran viene chiamata “Sacra Difesa” (o “guerra imposta”). Nel 1988, a cavallo del definitivo cessate il fuoco, Rajavi lanciò l’operazione “Luce Eterna”: di fatto, un vero e proprio tentativo di invasione dell’Iran da parte dei miliziani del gruppo nella speranza di scatenare un (mai avvenuto) sommovimento popolare contro la Repubblica Islamica (una sorta di “Baia dei Porci iraniana” che la storiografia occidentale ricorda solo per le esecuzioni degli uomini fatti prigionieri dalle autorità della Repubblica Islamica, senza mai fare riferimento alle cause – pratica assai diffusa da certa propaganda, quella di invertire cause ed effetti di un determinato evento in modo da attribuirne le responsabilità al nemico del momento – come si è visto per il caso ucraino).

Di fronte al palese fallimento (il MeK perse oltre la metà dei propri membri), Rajavi, al posto di riconoscere i propri errori, non fece altro che accusare i suoi uomini di avere la mente deviata da pensieri di natura sessuale. Da quel momento in poi, infatti, si registra un nuovo sviluppo ideologico all’interno del movimento che assume sempre di più i connotati della setta pseudoreligiosa votata al culto della personalità della sua coppia guida. Ai membri (molti dei quali tenuti in cattività contro la loro stessa volontà, privati dei documenti, minacciati di pesanti ritorsioni in caso di fuga e sottoposti al lavaggio del cervello) venne imposto il celibato ed il taglio totale delle comunicazioni con la famiglia. L’amore per la propria famiglia doveva essere sostituito dall’amore per i Rajavi e dalla speranza che il futuro dell’Iran possa essere sotto il loro segno (come recitano alcuni canti del gruppo).

A ciò si aggiunga il ruolo giocato dal MeK nella soppressione delle rivolte popolari contro il regime di Saddam scoppiate dopo l’Operazione Desert Storm. Un’azione che si trasformò rapidamente in una forma di pulizia etnico-confessionale contro la comunità sciita irachena (cosa che, insieme alla partecipazione diretta alla “guerra imposta” ed all’uccisione di migliaia di cittadini iraniani, valse la perdita di quella poca credibilità rimasta al gruppo all’interno dell’Iran) e contro la minoranza curda (paradossale se si pensa che il MeK ha spesso cercato di proporsi come sostenitore della loro autonomia). Va da sé che la rivolta venne ampiamente incoraggiata da Stati Uniti e Gran Bretagna (non dall’Iran), salvo poi ritirare immediatamente il loro sostegno in modo tale che il regime di Saddam potesse fare strage degli sciiti invisi tanto ai vertici di Baghdad quanto a Washington.

Nonostante il MeK abbia sempre cercato di negare la sua partecipazione nei fatti del 1991, è rimasta celebre una frase di Masoud Rajavi: “mettete i curdi sotto i vostri carri armati e risparmiate le pallottole per le Guardie Rivoluzionarie”.

Di fatto, il MeK è rimasto fino all’ultimo fedele a Saddam Hussein, con tanto di breve inserimento all’interno della lista internazionale delle organizzazioni terroristiche fino al suo trasferimento in Albania (sebbene, come affermato in un interessante documento della Rand Corp, influente think tank nordamericano, non sia mai stato trattato realmente come tale). Dalla seconda aggressione occidentale all’Iraq, inoltre, non si hanno più notizie di Masoud Rajavi – sotto una forma di occultamento che ricorda parodisticamente quello dell’ultimo Imam dello sciismo imamita – che ha lasciato alla moglie il ruolo di volto pubblico del Consiglio Nazionale di Resistenza. Da non tralasciare, infine, il fatto che la stessa Repubblica Islamica, dopo l’attacco all’Iraq, propose agli Stati Uniti uno scambio di prigionieri all’interno di più ampio progetto di cooperazione/normalizzazione dei rapporti (mai avvenuto a causa delle pressioni della lobby sionista a Washington): membri del MeK detenuti nelle prigioni della coalizione in Iraq in cambio di  membri di al-Qaeda detenuti in Iran. Gli Stati Uniti rifiutarono avanzando dubbi sul rispetto dei diritti umani nelle carceri iraniane (cosa ancora una volta paradossale se si considerano i casi di tortura a Guantanamo o ad Abu Ghraib). In realtà, lo fecero sapendo che i membri del MeK (come effettivamente avvenuto) sarebbero tornati utili per operazioni oltre il confine iraniano (assassinii mirati di scienziati e ufficiali, ad esempio).

Questo excursus è servito in primo luogo a dimostrare come un movimento che gode di assai poca stima all’interno dei confini della Repubblica Islamica venga presentato in Occidente come alternativa credibile ad essa. Lo scarso successo popolare (buona parte dei membri odierni sono reclutati tra l’immigrazione iraniana con promesse di asilo politico e occupazione lavorativa in Occidente), infatti, si accompagna ad un notevole successo politico ed economico ottenuto con audaci operazioni di promozione della propria immagine nei centri di potere occidentale, con la frode manifesta (presentandosi sotto la veste di diverse associazioni rivolte alla difesa dei diritti umani in Iran) ed attraverso la costruzione di un vero e proprio impero finanziario ed immobiliare (pacchetti azionari, finanziamento illecito di Partiti, proprietà di case da gioco ed alberghi).

Al discorso sul MeK si accompagna indubbiamente quello sulla guerra Iran-Iraq, anch’essa fonte di notevole mistificazione ideologico-storica. Prima di analizzare questo evento nel dettaglio sarà bene ribadire a chi accusa l’Iran di aver distrutto il panarabismo che: 1) il panarabismo era già morto e sepolto prima del conflitto contro l’Iraq, iniziato tra l’altro da Baghdad; 2) è assai difficile poter considerare il Ba’ath iracheno ed il regime di Saddam come espressioni del panarabismo, sebbene l’abbiano spesso utilizzato come manto ideologico proprio per giustificare la guerra contro la neonata Repubblica Islamica.

In primo luogo, è bene sottolineare quelli che erano gli obiettivi di Saddam con l’aggressione all’Iran: 1) l’egemonia politico-economica sul Golfo Persico (qualcosa che in un secondo momento lo porterà ad invadere il Kuwait per rendere più agevole l’accesso iracheno al mare); 2) il controllo totale sullo Shatt al-Arab (area fluviale dall’enorme rilevanza strategica per l’economia irachena); 3) il controllo sul Khuzestan iraniano ricco di petrolio; 4) limitare la penetrazione delle idee della Rivoluzione Islamica in Iraq (la popolazione sciita irachena, sebbene maggioranza, era governata da una élite quasi totalmente sunnita che mise a morte in gran segreto l’importante ayatollah Baqir al-Sadr nei primi mesi del 1980); 5) impedire che l’Iran potesse riemergere come potenza regionale dopo il caos rivoluzionario.

Saddam Hussein, inoltre, pensava ad un conflitto limitato da combattere in determinate località, non pensava di combattere un conflitto totale e quasi esistenziale. Allo stesso tempo, nonostante l’ordine di attacco, sostenne di essere impegnato in una guerra difensiva: ovvero, di autodifesa della propria sovranità territoriale dalle maligne intenzioni degli ayatollah iraniani. In realtà, se è vero che l’Iran aveva appoggiato il partito di opposizione al-Da’wa (e pesantemente attaccato lo stesso Saddam ed il suo regime definendolo un fantoccio delle potenze imperialiste – va da sé che le potenze imperialiste, secondo i canoni islamici, erano sia l’URSS che gli USA), è altrettanto vero che l’Iraq forniva da tempo armi ai ribelli arabi del Khuzestan e già prima del 1980 aveva sferrato alcuni attacchi oltre la frontiera.

Dunque, il 22 settembre 1980, l’Iraq lanciò incursioni aree contro dieci importanti aeroporti e basi iraniane e attaccò la neonata Repubblica Islamica in tre punti del confine (al nord, al centro ed al sud). Inizialmente, Baghdad ottenne alcuni limitati successi, sebbene a costo di gravi perdite come nel caso della conquista di Khorramshahr. Ad Abadan (centro di importanti raffinerie petrolifere), invece, le forze irachene incontrarono un’accanita resistenza e dovettero affrontare un lungo assedio. Così, mentre Saddam pensava di porre fine alla guerra entro l’inverno, a dicembre, l’Iraq era riuscito ad occupare solo alcune parti del Khuzestan per una combinazione di meriti difensivi iraniani (questi, anche se sorpresi dall’invasione, riuscirono ad organizzare rapidamente una forte resistenza attraverso l’utilizzo combinato di esercito regolare – nonostante le ampie purghe subite dopo la deposizione dello Shah – Guardie Rivoluzionarie ed unità di polizia e volontari) e demeriti iracheni. Gli ufficiali baathisti, infatti, commisero diversi errori grossolani determinati sia dalla mancanza di esperienza, sia dal fatto che sotto Saddam non si diventava ufficiali per meriti sul campo ma per la cieca lealtà allo stesso Rais e per l’appartenenza al suo clan tribale (legato all’area vicino a Tikrit).

Per ciò che concerne l’Iran, la guerra determinò le prime frizioni tra i vertici religiosi e quelli prettamente politici della Rivoluzione (un qualcosa che si era già manifestato nel corso della crisi degli ostaggi all’ambasciata USA). Nel giugno 1981, il Presidente e comandante in campo delle forze iraniane, il già citato Abolhassan Banisadr, venne esonerato dal suo incarico. E, a partire dal settembre 1981, gli iraniani iniziarono una controffensiva che l’estate successiva portò gli iracheni ad abbandonare le posizioni sin lì conquistate.

A questo punto, di fronte ad una evidente disfatta, Saddam si dichiarò pronto a negoziare una tregua, ma l’Iran (che nel mentre aveva acquisito una notevole confidenza) iniziò a richiedere condizioni eccessive come la destituzione dello stesso regime baathista. Così, nel luglio 1982, i vertici militari della Repubblica Islamica, facendo proprio il motto khomeinista che vedeva la liberazione di Baghdad come indispensabile per la liberazione di Gerusalemme, scelsero di avanzare in territorio iracheno per spingere al rovesciamento del Rais. Tuttavia, nonostante la scelta di indirizzare l’offensiva verso una regione a maggioranza sciita (in modo da scatenare un sollevamento popolare contro Saddam), questa non ottenne risultati particolarmente decisivi, portando ad un sostanziale stallo del conflitto che si protrarrà per diversi anni (salvo alcuni importanti successi iraniani del 1986) tra lo sgomento della cosiddetta “comunità internazionale” incapace di reagire anche di fronte agli attacchi sui civili (ai bombardamenti indiscriminati sulle città iraniane, senza particolari obiettivi militari) ed al reiterato uso di armi chimiche da parte delle forze di Saddam.

A questo proposito, è interessante notare come l’ONU, sebbene avesse condannato l’utilizzo delle armi chimiche nel conflitto in diverse risoluzioni, nonostante l’evidenza che ne mostrava l’utilizzo da parte delle truppe irachene, non faceva mai aperto riferimento all’Iraq (questo per il sostegno incondizionato, o quasi, di cui il regime di Saddam poteva godere presso molti Paesi occidentali, dagli Stati Uniti alla Francia). Soprattutto quest’ultima, per tutta la durata del conflitto, svolse insieme all’URSS il ruolo di principale fornitore di sistemi d’arma (anche altamente tecnologici) all’Iraq.

Sugli Stati Uniti, invece, è bene aprire una breve parentesi, visto che nello stesso periodo erano impegnati sia nella fornitura di armi al gihad antisovietico in Afghanistan, sia in America Latina per contrastare le forze “comuniste” in Nicaragua, El Salvador e Colombia. La “dottrina Carter”, inoltre, prevedeva un intervento diretto USA nel Golfo Persico solo in caso di minaccia contro un alleato degli Stati Uniti o di minaccia contro gli interessi diretti degli Stati Uniti nella regione. Sono ben note le vicende che portarono allo svelamento dello scandalo Iran-Contras ed all’operazione attraverso la quale Washington fornì armi e pezzi di ricambio anche all’Iran (sottoposto ad embargo), investendone il ricavato per il sostegno ai gruppi paramilitari reazionari e anti-sandinisti in Nicaragua. Questa operazione, tuttavia, non aveva alcun particolare risvolto ideologico. L’obiettivo USA era semplicemente quello di protrarre il conflitto il più a lungo possibile per poter successivamente godere dei risultati in termini di conquiste egemoniche di fronte a due Paesi in ginocchio. L’ex Segretario di Stato Henry Kissinger, ad esempio, stuzzicato sull’argomento, affermò che il risultato ideale del conflitto sarebbe stato la sconfitta di entrambi. Di fatto, gli USA, sulla base di queste considerazioni, sostennero scientemente entrambe le parti (sebbene la bilancia penda sul lato iracheno): ovvero, sostennero l’Iran quando ad attaccare era l’Iraq ed aiutarono l’Iraq quando la fase offensiva spettava all’Iran.

Il sostegno nascosto all’Iran del caso Iran-Contras (peraltro assai limitato), inoltre, risultava estremamente ambiguo. Questo, da un lato violava l’ufficialità dell’Operazione Staunch volta a prosciugare il flusso di armi verso lo stesso Iran (aiutato da Cina, Corea del Nord, Siria, Libia ed anche Israele, per il semplice motivo che questo percepiva l’Iraq come reale minaccia all’egemonia nell’area del Vicino Oriente), dall’altro, si poneva il preciso obiettivo di fornire all’Iran informazioni di intelligence falsate allo scopo di scoraggiare o far fallire sul nascere ogni potenziale offensiva che potesse alterare la situazione al fronte.

Infine, dal 1986 in poi, gli Stati Uniti stabilirono un filo diretto con Baghdad, fornendo ai militari baathisti coordinate e movimenti delle truppe iraniane sul campo. Allo stesso tempo, CIA e Pentagono incoraggiarono la dirigenza baathista ad intensificare gli attacchi contro gli obiettivi economici e civili iraniani (aree residenziali dei centri abitati e navi mercantili in particolar modo). Così, nel corso di quella fase della guerra passata alla storia come “guerra delle petroliere”, l’Iraq poteva colpire impunemente le navi iraniane, mentre l’eventuale risposta iraniana era sempre contrastata dalla marina militare americana che, a partire dal 1987, arrivò a schierare una massiccia flotta nel Golfo Persico. Ad ulteriore dimostrazione di ciò, il 17 maggio del 1987, un attacco missilistico iracheno colpì la USS Stark causando la morte di 37 membri dell’equipaggio. L’Iraq si scusò immediatamente per quanto avvenuto e, paradossalmente, gli USA utilizzarono l’evento per incolpare l’Iran della recrudescenza del conflitto nella regione. Ancora, il 14 aprile 1988 la fregata USA Samuel Roberts finì su una mina. Evento che gli USA utilizzarono per scatenare l’operazione Prayer Mantis. Questa si proponeva l’obiettivo di provocare la flotta ed il naviglio iraniano in modo che uscisse allo scoperto in alto mare per poi poterla facilmente colpire utilizzando la superiore potenza di fuoco e tecnologica della flotta USA. Di fatto, l’entità degli attacchi statunitensi contro la flotta iraniana fu estremamente pesante.

Infine, sempre per ciò che concerne il diretto coinvolgimento USA nel conflitto, non bisogna dimenticare l’episodio dell’abbattimento dell’Airbus Iran Air, con 290 civili a bordo, mentre svolgeva un volo regolare da Bandar Abbas a Dubai, il 3 luglio 1988. Sull’accaduto, il comandante della USS Vincennes (la nave dalla quale venne lanciato il missile che, tra l’altro, si trovava nelle acque territoriali iraniane), affermò di aver dato l’ordine di far fuoco pensando si trattasse di un aereo da guerra di Teheran. Tuttavia, l’aereo, come confermato anche dai controllori di volo di Dubai, stava salendo di quota. Dunque, non poteva essere una minaccia per la nave americana, con la quale si sarebbe pure identificato. Nonostante ciò, dopo che l’amministrazione Reagan diede spiegazioni sommarie, fuorvianti e autoconsolatorie, il comandante statunitense venne premiato con una medaglia per i “meriti” sul campo.

Ad ogni modo, la guerra si concluse ufficiosamente il 18 luglio 1988, quando l’allora Presidente iraniano (l’attuale Guida Suprema Khamenei), su invito di Khomeini, accettò la risoluzione ONU 598 ed il cessate il fuoco in un momento in cui l’Iran si trovava in grave difficoltà, con poche armi a disposizione (nel totale isolamento internazionale), in gravi condizioni economiche e pressato dall’aggressività nordamericana nel Golfo.

Dal suo canto, due anni dopo il cessate il fuoco e due settimane dopo l’invasione irachena del Kuwait, Saddam Hussein offrì di porre definitivamente fine al conflitto affermando la propria disponibilità ad accettare nuovamente i protocolli di Algeri del 1975 (firmati dallo Shah, i quali delineavano i confini tra i due Stati). Un’offerta che risuonava come una specie di ammissione di sconfitta nell’istante in cui l’Iraq venne tradito da quelle Monarchie del Golfo che l’avevano sostenuto nella sua campagna distruttiva contro l’Iran.

Queste, nello specifico, ne sostennero lo sforzo bellico per il timore che l’affermazione della Rivoluzione Islamica in Iran avrebbe potuto scatenare un effetto domino sull’intera regione. Tuttavia, la stessa idea che Khomeini volesse esportare il modello rivoluzionario iraniano all’intera area (e che l’Iran ancora ambisca segretamente a tale progetto) si presenta come un altro dei “miti occidentali” sulla Repubblica Islamica. Tale progetto, se mai esistito, dovette scontrarsi da subito con la realtà della guerra imposta dall’Iraq che tagliò rapidamente le gambe ad ogni potenziale aspirazione iraniana. Allo stesso periodo, infatti, risale il fallimento di Hezbollah al-Hijaz in Arabia Saudita; mentre l’Hezbollah libanese non ha mai posto tra i suoi obiettivi quello di instaurare uno “Stato islamico” a Beirut (fattore già di suo impossibile in una realtà multiconfessionale). Un discorso a parte lo meriterebbero gli Houthi yemeniti, la cui dottrina zaydita sull’imamato presenta comunque pochi punti di contatto con il khomeinismo, fatta eccezione per l’enfasi sulla giustizia sociale ed il sostegno agli oppressi. Con l’Iran, inoltre, che ha optato per l’aperto appoggio della loro causa in tempi relativamente recenti (dopo il 2011).

Oggi, invece, il principale strumento della geopolitica di Teheran, il cosiddetto “Asse della Resistenza”, si presenta come una forza eminentemente difensiva e mai offensiva. Di fatto, il suo ruolo, nella visione di Qassem Soleimani, era (ed è) quello di proteggere la Repubblica Islamica su più linee di difesa (molte di esse sono svanite, come nel caso della Siria) e di rappresentare una sorta di riserva strategica per Teheran in caso di conflitto prolungato contro Israele.

In conclusione andrebbe affrontata la questione del velayat-e faqih: il governo del giureconsulto come principio sul quale si basa la Costituzione della Repubblica Islamica dell’Iran. Molti in Occidente tendono ad identificarlo come un’invenzione khomeinista, anche per inserire lo stesso khomeinismo nell’ampia cerchia dell’islamismo politico-radicale del Novecento. In realtà, la questione è molto più complessa; ed il “governo del giureconsulto” non è affatto un’invenzione di Khomeini o un travisamento della dottrina teologica classica dello sciismo.

Questa, infatti, storicamente si è divisa in una scuola quietista che vedeva la religione sottomessa al potere politico-militare ed una attivista che ha spesso rivendicato il ruolo di guida della società da parte dei religiosi. Ad esempio, riporta l’eminente teologo sciita Ibn al-Mu’allim (meglio noto come Shaykh al-Mufid, vissuto tra X e XI secolo): “Finché non esiste un Sultano giusto [da intendersi come l’Imam del Tempo] a gestire ciò che è stato menzionato in queste sezioni della giurisprudenza, allora spetta al vero e giusto mujtahid [esperto della legge], che sia anche intelligente e virtuoso, governare ciò di cui era responsabile il Sultano giusto”. Ancora, il giurista e teologo persiano Shaykh Tusi (996-1067), fondatore del seminario religioso di Najaf, ha menzionato nei suoi scritti, in particolare “Nihayah”, che il giurista ha diritti sui fondamenti più importanti della società, il che significa che ha il diritto di emettere verdetti, di chiamare alla guerra, di giudicare e di applicare le pene. Sulla stessa linea si ritrovano il giurista Ibn Idris al-Hilli (XII secolo) e Allamah al-Hilli (1250-1325), altro importante giurista e teologo, e Shaykh Murtada Ansari. Di non minor conto sono i pareri del giurista di epoca safavide Muhaqqiq al-Thani e del grande pensatore e mistico Mulla Sadra (1572-1641). Il primo affermò: “Giuristi e studiosi sciiti imamiti sono d’accordo sul fatto che un giurisperito giusto, che soddisfi le condizioni per emettere verdetti  ed è accettato come mujtahid nella legge religiosa, è il rappresentante degli Imam durante l’occultazione riguardo a tutto ciò che può essere rappresentato”. Mentre il secondo (che ha influenzato in modo evidente il pensiero di Khomeini su più livelli) ha dichiarato: “È necessario che in ogni momento ci sia un guardiano (wali) che sia incaricato di preservare (qaim) il Corano di cui conosce i segreti (asrar) ed i misteri (rumuz), così da poterlo insegnare ai fedeli e guidare coloro che ricevono la guida, e perfezionare le anime dei suoi seguaci e sostenitori timorati di Dio, e illuminare i loro cuori con la luce della conoscenza”.

Ne deriva che descrivere il velayat-e faqih come un’invenzione khomeinista si presenta, ancora una volta, come una vera e propria mistificazione. Al massimo si potrebbe disquisire sulla modalità attraverso cui Khomeini ha applicato un concetto proprio della tradizione teologica sciita alla realtà contingente dell’Iran post-rivoluzionario. Ma in questo caso sarebbe necessario uno studio approfondito della Costituzione della Repubblica Islamica, che si presenta come un connubio tra istanze secolari ed altre in prevalenza religiose e come inevitabile prodotto delle diverse anime del movimento rivoluzionario.

Altrettanto mistificatorio è intendere la corrente sciita dell’Islam come una sorta di culto della morte che trae la sua origine dal sacrificio dell’Imam Hussein a Kerbala nel 680 d. C. Anche in questo caso, sarebbe necessario un trattato di teologia per potere semplicemente delineare quella che è la teologia sciita su questa tema. Qui dovremo accontentarci delle parole di Hassan Nasrallah (la guida di Hezbollah assassinata da Israele nel settembre 2024) in riferimento alla morte in battaglia del figlio: “Mio figlio non è stato ucciso mentre bighellonava per la strada. Affrontava il nemico con una pistola in pugno, marciava verso il fronte con determinazione e fiducia in se stesso, ispirato dal desiderio di distruggere il nemico. La sua morte non è una vittoria per Israele ma una vittoria per Hezbollah. Siamo orgogliosi di questa morte […] Mentirei se cercassi di farle credere che la morte di mio figlio non faccia male, ma bisogna guardare alle cose in questo modo: è morto da martire; e questa è la gioia più grande che un padre possa provare […] noi crediamo in Dio e, in base al nostro credo, i martiri cominciano una nuova vita, molto migliore, in Paradiso. Essi hanno un posto speciale presso Dio”.

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