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Giacomo Gabellini
August 21, 2025
© Photo: Public domain

A margine dell’incontro, l’inquilino della Casa Bianca ha pubblicato un post sul suo profilo Truth in cui si sostiene che quella appena conclusasi in Alaska rappresenta “una giornata fantastica e di grande successo!”

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Lo scorso 6 agosto, il presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo che sanciva il raddoppio, dal 25 al 50%, dei dazi statunitensi nei confronti dei prodotti indiani. Il provvedimento, che diverrà esecutivo a partire dal 27 agosto, si pone in coerente continuità rispetto alle dichiarazioni formulate verso la fine di luglio dallo stesso inquilino della Casa Bianca, il quale aveva chiarito la propria intenzione di imporre sanzioni secondarie «entro 10-12 giorni» a tutti i Paesi che intrattengono relazioni commerciali con la Russia e non sostengono l’Ucraina.

Il governo di Nuova Delhi, che a partire dal dallo scoppio del conflitto russo-ucraino ha incrementato il volume delle importazioni di petrolio russo dallo 0,2 al 45% del totale (da poco più di 30.000 a oltre 2 milioni di barili al giorno), ha risposto rivendicando il diritto sovrano di continuare ad approvvigionarsi di idrocarburi russi in quanto maggiormente vantaggiosi sotto il profilo economico e pertanto vitali per la sicurezza energetica del Paese. La presa di posizione è stata illustrata attraverso una dettagliatissima nota diramata dal Ministero degli Esteri di Nuova Delhi in cui si legge che: «le importazioni dell’India mirano a garantire costi energetici prevedibili e accessibili al consumatore indiano. Costituiscono una necessità imposta dalla situazione del mercato globale. È significativo che le stesse nazioni critiche nei confronti dell’India stiano a loro volta intrattenendo rapporti commerciali con la Russia  che non attengono ad alcun interesse vitale. Nel 2024, l’Unione Europea ha registrato un commercio bilaterale di beni con la Russia pari a 67,5 miliardi di euro. Nel 2023, ha registrato scambi di servizi stimati in 17,2 miliardi di euro. Si tratta di un ammontare significativamente superiore al volume del commercio totale russo-indiano registrato sia in quell’anno che in quelli successivi. Le importazioni europee di Gnl nel 2024, infatti, hanno raggiunto il record di 16,5 milioni di tonnellate, superando l’ultimo record di 15,21 milioni di tonnellate del 2022. Il commercio tra Europa e Russia include non solo energia, ma anche fertilizzanti, prodotti minerari, prodotti chimici, ferro e acciaio, macchinari e mezzi di trasporto. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, continuano a importare dalla Russia esafluoruro di uranio per la loro industria nucleare, palladio per la loro industria dei veicoli elettrici, fertilizzanti e prodotti chimici». La relazione tra Stati Uniti e Russia si estende anche all’ambito della cooperazione spaziale, come testimoniato dal recente allungamento fino al 2028 dell’accordo di collaborazione per la gestione della stazione spaziale internazionale siglato tra Nasa e Roscosmos proprio negli stessi giorni in cui l’amministrazione Trump predisponeva le tariffe contro l’India. Il portavoce del Ministero degli Estero indiano Randhir Jaiswal ha inoltre precisato che «l’India ha cominciato ad accrescere le importazioni di petrolio dalla Russia perché le forniture tradizionali erano state state dirottate verso l’Europa dopo lo scoppio del conflitto russo-ucraino. All’epoca, gli Stati Uniti incoraggiarono attivamente tutto questo per rafforzare la stabilità dei mercati energetici globali».

Ne consegue che, recita il documento diplomatico diffuso dal Ministero degli Esteri di Nuova Delhi, «è irragionevole privo di giustificazione prendere di mira l’India». La quale annovera tuttavia negli Stati Uniti il principale mercato di sbocco, in grado di assorbire il 18% dei beni e servizi complessivamente esportati da Nuova Delhi e di esercitare un peso sul Pil indiano pari a circa per il 2,2%. Nel 2024, l’interscambio bilaterale tra Stati Uniti e India ha registrato un forte attivo indiano per quanto concerne i beni  (45,8 miliardi di dollari) e un impercettibile surplus statunitense in materia di servizi (0,2 miliardi di dollari). Il ragguardevolissimo deficit statunitense, puntualmente addebitato da Trump alle poderose barriere sia tariffarie che l’India preserva a protezione del proprio mercato interno, riflette appieno la rilevanza che il mercato Usa riveste per l’India, con particolare riferimento a segmenti merceologici come le pietre preziose, i macchinari elettrici e i prodotti farmaceutici. Con dazi al 50%, il conseguimento di un risultato paragonabile a quello raggiunto nel 2024 (86,5 miliardi di dollari di export) rappresenta un miraggio per il Paese asiatico, i cui esportatori hanno dichiarato di poter a malapena gestire un incremento tariffario del 10-15%. Secondo gli specialisti della banca giapponese Nomura, l’entrata in vigore di dazi così pesanti genererebbe un effetto paragonabile a quello di «un embargo commerciale, con un blocco improvviso delle esportazioni dei prodotti interessati». Gli Stati Uniti si sono quindi avvalsi di un potente strumento di ricatto nei confronti dell’India in un’ottica di sanzionamento sia del legame strettamente collaborativo instaurato da Nuova Delhi con Mosca, sia del mercantilismo commerciale abbracciato dalle autorità indiane.

Lungi dal piegarsi ai diktat statunitensi, l’esecutivo guidato da Narendra Modi si è strettamente attenuto agli intenti dichiarati nel documento del Ministero degli Esteri, secondo cui «come ogni grande economia, l’India adotterà tutte le misure necessarie per salvaguardare i propri interessi nazionali e la propria sicurezza economica». Il primo passo è consistito nell’abbassamento delle tasse a beneficio delle categorie maggiormente colpite dalle misure statunitensi, seguito dall’interruzione delle trattative per l’acquisto di sistemi d’arma di fabbricazione statunitense. Si è poi registrato l’invio a Mosca del consigliere per la Sicurezza Nazionale indiano Ajit Doval, nell’ambito di una visita diplomatica volta ad approfondire la partnership strategica e l’intesa energetica tra i due Paesi alla luce dell’aggressività Usa. A margine di un incontro che Doval ha avuto con il segretario del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa Sergij Šojgu, quest’ultimo ha dichiarato che «siamo impegnati a promuovere una cooperazione attiva intesa a formare un nuovo ordine mondiale più giusto e sostenibile, garantire la supremazia del diritto internazionale e combattere congiuntamente le sfide e le minacce moderne». Subito dopo, Modi in persona ha pubblicato un post sul suo profilo Twitter/X in cui si legge che: «ho avuto una conversazione molto buona e approfondita con il mio amico, il presidente Putin. L’ho ringraziato per aver condiviso con me gli ultimi eventi in Ucraina. Abbiamo anche esaminato i progressi della nostra agenda bilaterale e confermato il nostro impegno a un ulteriore approfondimento della partnership strategica speciale e privilegiata tra Russia e India. Non vedo l’ora di accogliere il presidente Putin in India quest’anno». Parallelamente, il primo ministro indiano ha annunciato che tornerà in visita in Cina per la prima volta da sette anni, aprendo il varco a una serie di iniziative bilaterali particolarmente promettenti. Alla ripresa dei voli diretti entro poche settimane ha fatto seguito l’avvio di negoziati per la ripresa del commercio di frontiera, interrotto nel 2002 in conseguenza degli scontri tra truppe indiane e cinesi sul Ladakh. Ma non è tutto. Come riporta il «Times of India»: «NayaraEnergy, un’importante raffineria indiana sostenuta da Rosneft, ha spedito per la prima volta dal 2021 un carico di diesel in Cina, a causa delle sanzioni imposte dell’Unione Europea  […] che hanno ridotto il tetto di prezzo del petrolio russo a 47,6 dollari al barile, limitando l’accesso di Nayara ai mercati europei. Ciò ha spinto la compagnia a cercare nuovi mercati, con una nave cisterna, la Tempest Dream, che ha trasportato 43.000 tonnellate di diesel verso la Cina».

Quest’ultima, il cui interscambio con la Russia continua a incrementare nel quadro della “partnership senza limiti” che cementa i due Paesi ormai da diversi anni, è stata anch’essa sottoposta a pressioni statunitensi. Più specificamente, l’amministrazione Trump ha minacciato di imporre dazi fino al 100% qualora l’ex Celeste Impero non avesse ridimensionato considerevolmente le proprie importazioni di petrolio russo – che attualmente copre il 20% circa del fabbisogno cinese – e interrotto l’export di materiali a doppio uso (civile e militare) a beneficio di Mosca. Misure punitive sono state invece imposte da Washington contro diversi terminali attraverso cui il petrolio iraniano soggetto a sanzioni statunitensi ed europee fluisce regolarmente in Cina, per un ammontare di 1,4 milioni di barili al giorno. Senonché, come rilevato dal portavoce del Ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun, «la Cina adotterà misure appropriate per la propria sicurezza energetica in base ai propri interessi nazionali […]. Le guerre commerciali basate sui dazi non producono vincitori. Coercizione e pressioni non risolveranno alcun problema. La Cina preserverà con fermezza la propria sovranità, la propria sicurezza e le proprie prospettive di sviluppo». L’annuncio è giunto sulla scia di una nuova stretta cinese sull’export di minerali critici di cui Pechino controlla il 90% circa del mercato mondiale. Il «Wall Street Journal» ha adottato toni particolarmente drammatici per descrivere il provvedimento cinese, parlando apertamente di «strangolamento delle industrie occidentali della difesa». D’altro canto, la Cyberspace Administration of China ha ventilato la possibilità di precludere l’accesso al mercato interno a Nvidia, adducendo «gravi rischi per la sicurezza nazionale».

Un altro bersaglio dell’offensiva tariffaria trumpiana consiste indubbiamente nel Brasile, principale economia dell’America Latina che esporta negli Stati Uniti grandi quantità di idrocarburi, macchinari, legname, carne bovina, caffè e acciaio, ma verso il quale gli Stati Uniti vantano un avanzo commerciale che interessa sia il settore dei beni (6,8 miliardi di dollari) che quello dei servizi (29,1 miliardi di dollari). I dazi del 50% imposti dall’amministrazione Trump al Brasile non sono infatti motivati ufficialmente dalla necessità di correggere politiche commerciali ritenute scorrette, ma dalla volontà di punire la presunta “persecuzione giudiziaria” a cui il presidente Lula starebbe sottoponendo il suo predecessore Bolsonaro. Non a caso, i dazi sono stati affiancati da sanzioni individuali nei confronti di una serie di giudici brasiliani collegati a vario titolo all’“affaire Bolsonaro”. Le misure si sono concentrate soprattutto sulla figura di Alexandre de Moraes, membro della Corte Suprema brasiliana accusato dal segretario al Tesoro Scott Bessent di aver «assunto su di sé le funzioni di giudice e giuria in una illegale caccia alle streghe contro cittadini e aziende sia statunitensi che brasiliane», oltre che di aver portato avanti «una campagna oppressiva di censura, detenzioni arbitrarie che violano i diritti umani e procedimenti politicizzati». Il problema per Washington è che il Brasile ha ridotto costantemente la propria dipendenza dagli Stati Uniti attraverso una oculata strategia di diversificazione dei mercati di sbocco. A partire da quello cinese, verso cui il Brasile ha aumentato costantemente i volumi di esportazione. Attualmente, la Cina assorbe il 28% dell’export del Brasile, il cui commercio estero riveste in ogni caso una rilevanza molto relativa per l’economia nazionale (36% del Pil). Come ha dichiarato Lula: «dovremo cercare altri partner per acquistare i nostri prodotti, ma occorre ricordare che il commercio del Brasile con gli Stati Uniti rappresenta “soltanto” l’1,7% del suo Pil. Possiamo sopravvivere senza gli Stati Uniti».

Il presidente brasiliano si è però spinto oltre, facendosi sostanzialmente interprete delle esigenze comuni a tutti i Paesi colpiti dalle misure punitive statunitensi. In un’intervista rilasciata a «Reuters», ha infatti espresso l’intenzione di sfruttare l’imminente vertice dei Brics di Rio de Janeiro per convincere Xi Jinping e Narendra Modi a elaborare una reazione congiunta. L’aggressività statunitense agevola de facto la missione che Lula si è intestato. Nonostante le minacce formulate a 360° dall’amministrazione Trump, la Russia prosegue le operazioni militari in Ucraina, India e Cina continuano ad approvvigionarsi di idrocarburi russi e il Brasile rimane al pari degli altri arroccato sulle proprie posizioni di rifiuto di qualsiasi ingerenza nei propri affari interni. Allo stesso tempo, la comune necessità di sponde a cui fare riferimento per vanificare o quantomeno attutire l’impatto dei provvedimenti statunitensi moltiplica per tutti i soggetti esposti – spesso altamente complementari tra loro – gli incentivi a espandere e approfondire la cooperazione reciproca. La graduale militarizzazione del mercato statunitense, del dollaro e dei circuiti che ne garantiscono la circolazione alimenta di linfa vitale organismi complessi a ancora in fase di strutturazione come il Brics e la Shanghai Cooperation Organisation, con implicazioni pericolosissime per la vacillante egemonia monetaria e finanziaria statunitense.

Lo stesso governo statunitense deve averne preso atto, come si evince sia dalla decisione di rimandare di ulteriori 90 giorni l’entrata in vigore dei dazi nei confronti della Cina, sia dal clima alquanto conciliante che ha caratterizzato il recente vertice in Alaska tra i presidenti Trump e Putin. A margine dell’incontro, l’inquilino della Casa Bianca ha pubblicato un post sul suo profilo Truth in cui si sostiene che quella appena conclusasi in Alaska rappresenta «una giornata fantastica e di grande successo! Abbiamo convenuto tutti che il modo migliore per porre fine all’orribile guerra in corso tra Russia e Ucraina è quello di passare direttamente a un accordo di pace, che porrebbe fine alla guerra, e non a un semplice accordo di cessate il fuoco, che spesso non regge». Alla luce dei risultati raggiunti in Alaska, ha inoltre spiegato Trump, è possibile che non sussista la necessità di imporre all’India i dazi già annunciati, né di irrogare misure analoghe nei confronti della Cina.

I Brics escono rafforzati dal recente vertice in Alaska

A margine dell’incontro, l’inquilino della Casa Bianca ha pubblicato un post sul suo profilo Truth in cui si sostiene che quella appena conclusasi in Alaska rappresenta “una giornata fantastica e di grande successo!”

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Lo scorso 6 agosto, il presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo che sanciva il raddoppio, dal 25 al 50%, dei dazi statunitensi nei confronti dei prodotti indiani. Il provvedimento, che diverrà esecutivo a partire dal 27 agosto, si pone in coerente continuità rispetto alle dichiarazioni formulate verso la fine di luglio dallo stesso inquilino della Casa Bianca, il quale aveva chiarito la propria intenzione di imporre sanzioni secondarie «entro 10-12 giorni» a tutti i Paesi che intrattengono relazioni commerciali con la Russia e non sostengono l’Ucraina.

Il governo di Nuova Delhi, che a partire dal dallo scoppio del conflitto russo-ucraino ha incrementato il volume delle importazioni di petrolio russo dallo 0,2 al 45% del totale (da poco più di 30.000 a oltre 2 milioni di barili al giorno), ha risposto rivendicando il diritto sovrano di continuare ad approvvigionarsi di idrocarburi russi in quanto maggiormente vantaggiosi sotto il profilo economico e pertanto vitali per la sicurezza energetica del Paese. La presa di posizione è stata illustrata attraverso una dettagliatissima nota diramata dal Ministero degli Esteri di Nuova Delhi in cui si legge che: «le importazioni dell’India mirano a garantire costi energetici prevedibili e accessibili al consumatore indiano. Costituiscono una necessità imposta dalla situazione del mercato globale. È significativo che le stesse nazioni critiche nei confronti dell’India stiano a loro volta intrattenendo rapporti commerciali con la Russia  che non attengono ad alcun interesse vitale. Nel 2024, l’Unione Europea ha registrato un commercio bilaterale di beni con la Russia pari a 67,5 miliardi di euro. Nel 2023, ha registrato scambi di servizi stimati in 17,2 miliardi di euro. Si tratta di un ammontare significativamente superiore al volume del commercio totale russo-indiano registrato sia in quell’anno che in quelli successivi. Le importazioni europee di Gnl nel 2024, infatti, hanno raggiunto il record di 16,5 milioni di tonnellate, superando l’ultimo record di 15,21 milioni di tonnellate del 2022. Il commercio tra Europa e Russia include non solo energia, ma anche fertilizzanti, prodotti minerari, prodotti chimici, ferro e acciaio, macchinari e mezzi di trasporto. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, continuano a importare dalla Russia esafluoruro di uranio per la loro industria nucleare, palladio per la loro industria dei veicoli elettrici, fertilizzanti e prodotti chimici». La relazione tra Stati Uniti e Russia si estende anche all’ambito della cooperazione spaziale, come testimoniato dal recente allungamento fino al 2028 dell’accordo di collaborazione per la gestione della stazione spaziale internazionale siglato tra Nasa e Roscosmos proprio negli stessi giorni in cui l’amministrazione Trump predisponeva le tariffe contro l’India. Il portavoce del Ministero degli Estero indiano Randhir Jaiswal ha inoltre precisato che «l’India ha cominciato ad accrescere le importazioni di petrolio dalla Russia perché le forniture tradizionali erano state state dirottate verso l’Europa dopo lo scoppio del conflitto russo-ucraino. All’epoca, gli Stati Uniti incoraggiarono attivamente tutto questo per rafforzare la stabilità dei mercati energetici globali».

Ne consegue che, recita il documento diplomatico diffuso dal Ministero degli Esteri di Nuova Delhi, «è irragionevole privo di giustificazione prendere di mira l’India». La quale annovera tuttavia negli Stati Uniti il principale mercato di sbocco, in grado di assorbire il 18% dei beni e servizi complessivamente esportati da Nuova Delhi e di esercitare un peso sul Pil indiano pari a circa per il 2,2%. Nel 2024, l’interscambio bilaterale tra Stati Uniti e India ha registrato un forte attivo indiano per quanto concerne i beni  (45,8 miliardi di dollari) e un impercettibile surplus statunitense in materia di servizi (0,2 miliardi di dollari). Il ragguardevolissimo deficit statunitense, puntualmente addebitato da Trump alle poderose barriere sia tariffarie che l’India preserva a protezione del proprio mercato interno, riflette appieno la rilevanza che il mercato Usa riveste per l’India, con particolare riferimento a segmenti merceologici come le pietre preziose, i macchinari elettrici e i prodotti farmaceutici. Con dazi al 50%, il conseguimento di un risultato paragonabile a quello raggiunto nel 2024 (86,5 miliardi di dollari di export) rappresenta un miraggio per il Paese asiatico, i cui esportatori hanno dichiarato di poter a malapena gestire un incremento tariffario del 10-15%. Secondo gli specialisti della banca giapponese Nomura, l’entrata in vigore di dazi così pesanti genererebbe un effetto paragonabile a quello di «un embargo commerciale, con un blocco improvviso delle esportazioni dei prodotti interessati». Gli Stati Uniti si sono quindi avvalsi di un potente strumento di ricatto nei confronti dell’India in un’ottica di sanzionamento sia del legame strettamente collaborativo instaurato da Nuova Delhi con Mosca, sia del mercantilismo commerciale abbracciato dalle autorità indiane.

Lungi dal piegarsi ai diktat statunitensi, l’esecutivo guidato da Narendra Modi si è strettamente attenuto agli intenti dichiarati nel documento del Ministero degli Esteri, secondo cui «come ogni grande economia, l’India adotterà tutte le misure necessarie per salvaguardare i propri interessi nazionali e la propria sicurezza economica». Il primo passo è consistito nell’abbassamento delle tasse a beneficio delle categorie maggiormente colpite dalle misure statunitensi, seguito dall’interruzione delle trattative per l’acquisto di sistemi d’arma di fabbricazione statunitense. Si è poi registrato l’invio a Mosca del consigliere per la Sicurezza Nazionale indiano Ajit Doval, nell’ambito di una visita diplomatica volta ad approfondire la partnership strategica e l’intesa energetica tra i due Paesi alla luce dell’aggressività Usa. A margine di un incontro che Doval ha avuto con il segretario del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa Sergij Šojgu, quest’ultimo ha dichiarato che «siamo impegnati a promuovere una cooperazione attiva intesa a formare un nuovo ordine mondiale più giusto e sostenibile, garantire la supremazia del diritto internazionale e combattere congiuntamente le sfide e le minacce moderne». Subito dopo, Modi in persona ha pubblicato un post sul suo profilo Twitter/X in cui si legge che: «ho avuto una conversazione molto buona e approfondita con il mio amico, il presidente Putin. L’ho ringraziato per aver condiviso con me gli ultimi eventi in Ucraina. Abbiamo anche esaminato i progressi della nostra agenda bilaterale e confermato il nostro impegno a un ulteriore approfondimento della partnership strategica speciale e privilegiata tra Russia e India. Non vedo l’ora di accogliere il presidente Putin in India quest’anno». Parallelamente, il primo ministro indiano ha annunciato che tornerà in visita in Cina per la prima volta da sette anni, aprendo il varco a una serie di iniziative bilaterali particolarmente promettenti. Alla ripresa dei voli diretti entro poche settimane ha fatto seguito l’avvio di negoziati per la ripresa del commercio di frontiera, interrotto nel 2002 in conseguenza degli scontri tra truppe indiane e cinesi sul Ladakh. Ma non è tutto. Come riporta il «Times of India»: «NayaraEnergy, un’importante raffineria indiana sostenuta da Rosneft, ha spedito per la prima volta dal 2021 un carico di diesel in Cina, a causa delle sanzioni imposte dell’Unione Europea  […] che hanno ridotto il tetto di prezzo del petrolio russo a 47,6 dollari al barile, limitando l’accesso di Nayara ai mercati europei. Ciò ha spinto la compagnia a cercare nuovi mercati, con una nave cisterna, la Tempest Dream, che ha trasportato 43.000 tonnellate di diesel verso la Cina».

Quest’ultima, il cui interscambio con la Russia continua a incrementare nel quadro della “partnership senza limiti” che cementa i due Paesi ormai da diversi anni, è stata anch’essa sottoposta a pressioni statunitensi. Più specificamente, l’amministrazione Trump ha minacciato di imporre dazi fino al 100% qualora l’ex Celeste Impero non avesse ridimensionato considerevolmente le proprie importazioni di petrolio russo – che attualmente copre il 20% circa del fabbisogno cinese – e interrotto l’export di materiali a doppio uso (civile e militare) a beneficio di Mosca. Misure punitive sono state invece imposte da Washington contro diversi terminali attraverso cui il petrolio iraniano soggetto a sanzioni statunitensi ed europee fluisce regolarmente in Cina, per un ammontare di 1,4 milioni di barili al giorno. Senonché, come rilevato dal portavoce del Ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun, «la Cina adotterà misure appropriate per la propria sicurezza energetica in base ai propri interessi nazionali […]. Le guerre commerciali basate sui dazi non producono vincitori. Coercizione e pressioni non risolveranno alcun problema. La Cina preserverà con fermezza la propria sovranità, la propria sicurezza e le proprie prospettive di sviluppo». L’annuncio è giunto sulla scia di una nuova stretta cinese sull’export di minerali critici di cui Pechino controlla il 90% circa del mercato mondiale. Il «Wall Street Journal» ha adottato toni particolarmente drammatici per descrivere il provvedimento cinese, parlando apertamente di «strangolamento delle industrie occidentali della difesa». D’altro canto, la Cyberspace Administration of China ha ventilato la possibilità di precludere l’accesso al mercato interno a Nvidia, adducendo «gravi rischi per la sicurezza nazionale».

Un altro bersaglio dell’offensiva tariffaria trumpiana consiste indubbiamente nel Brasile, principale economia dell’America Latina che esporta negli Stati Uniti grandi quantità di idrocarburi, macchinari, legname, carne bovina, caffè e acciaio, ma verso il quale gli Stati Uniti vantano un avanzo commerciale che interessa sia il settore dei beni (6,8 miliardi di dollari) che quello dei servizi (29,1 miliardi di dollari). I dazi del 50% imposti dall’amministrazione Trump al Brasile non sono infatti motivati ufficialmente dalla necessità di correggere politiche commerciali ritenute scorrette, ma dalla volontà di punire la presunta “persecuzione giudiziaria” a cui il presidente Lula starebbe sottoponendo il suo predecessore Bolsonaro. Non a caso, i dazi sono stati affiancati da sanzioni individuali nei confronti di una serie di giudici brasiliani collegati a vario titolo all’“affaire Bolsonaro”. Le misure si sono concentrate soprattutto sulla figura di Alexandre de Moraes, membro della Corte Suprema brasiliana accusato dal segretario al Tesoro Scott Bessent di aver «assunto su di sé le funzioni di giudice e giuria in una illegale caccia alle streghe contro cittadini e aziende sia statunitensi che brasiliane», oltre che di aver portato avanti «una campagna oppressiva di censura, detenzioni arbitrarie che violano i diritti umani e procedimenti politicizzati». Il problema per Washington è che il Brasile ha ridotto costantemente la propria dipendenza dagli Stati Uniti attraverso una oculata strategia di diversificazione dei mercati di sbocco. A partire da quello cinese, verso cui il Brasile ha aumentato costantemente i volumi di esportazione. Attualmente, la Cina assorbe il 28% dell’export del Brasile, il cui commercio estero riveste in ogni caso una rilevanza molto relativa per l’economia nazionale (36% del Pil). Come ha dichiarato Lula: «dovremo cercare altri partner per acquistare i nostri prodotti, ma occorre ricordare che il commercio del Brasile con gli Stati Uniti rappresenta “soltanto” l’1,7% del suo Pil. Possiamo sopravvivere senza gli Stati Uniti».

Il presidente brasiliano si è però spinto oltre, facendosi sostanzialmente interprete delle esigenze comuni a tutti i Paesi colpiti dalle misure punitive statunitensi. In un’intervista rilasciata a «Reuters», ha infatti espresso l’intenzione di sfruttare l’imminente vertice dei Brics di Rio de Janeiro per convincere Xi Jinping e Narendra Modi a elaborare una reazione congiunta. L’aggressività statunitense agevola de facto la missione che Lula si è intestato. Nonostante le minacce formulate a 360° dall’amministrazione Trump, la Russia prosegue le operazioni militari in Ucraina, India e Cina continuano ad approvvigionarsi di idrocarburi russi e il Brasile rimane al pari degli altri arroccato sulle proprie posizioni di rifiuto di qualsiasi ingerenza nei propri affari interni. Allo stesso tempo, la comune necessità di sponde a cui fare riferimento per vanificare o quantomeno attutire l’impatto dei provvedimenti statunitensi moltiplica per tutti i soggetti esposti – spesso altamente complementari tra loro – gli incentivi a espandere e approfondire la cooperazione reciproca. La graduale militarizzazione del mercato statunitense, del dollaro e dei circuiti che ne garantiscono la circolazione alimenta di linfa vitale organismi complessi a ancora in fase di strutturazione come il Brics e la Shanghai Cooperation Organisation, con implicazioni pericolosissime per la vacillante egemonia monetaria e finanziaria statunitense.

Lo stesso governo statunitense deve averne preso atto, come si evince sia dalla decisione di rimandare di ulteriori 90 giorni l’entrata in vigore dei dazi nei confronti della Cina, sia dal clima alquanto conciliante che ha caratterizzato il recente vertice in Alaska tra i presidenti Trump e Putin. A margine dell’incontro, l’inquilino della Casa Bianca ha pubblicato un post sul suo profilo Truth in cui si sostiene che quella appena conclusasi in Alaska rappresenta «una giornata fantastica e di grande successo! Abbiamo convenuto tutti che il modo migliore per porre fine all’orribile guerra in corso tra Russia e Ucraina è quello di passare direttamente a un accordo di pace, che porrebbe fine alla guerra, e non a un semplice accordo di cessate il fuoco, che spesso non regge». Alla luce dei risultati raggiunti in Alaska, ha inoltre spiegato Trump, è possibile che non sussista la necessità di imporre all’India i dazi già annunciati, né di irrogare misure analoghe nei confronti della Cina.

A margine dell’incontro, l’inquilino della Casa Bianca ha pubblicato un post sul suo profilo Truth in cui si sostiene che quella appena conclusasi in Alaska rappresenta “una giornata fantastica e di grande successo!”

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Lo scorso 6 agosto, il presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo che sanciva il raddoppio, dal 25 al 50%, dei dazi statunitensi nei confronti dei prodotti indiani. Il provvedimento, che diverrà esecutivo a partire dal 27 agosto, si pone in coerente continuità rispetto alle dichiarazioni formulate verso la fine di luglio dallo stesso inquilino della Casa Bianca, il quale aveva chiarito la propria intenzione di imporre sanzioni secondarie «entro 10-12 giorni» a tutti i Paesi che intrattengono relazioni commerciali con la Russia e non sostengono l’Ucraina.

Il governo di Nuova Delhi, che a partire dal dallo scoppio del conflitto russo-ucraino ha incrementato il volume delle importazioni di petrolio russo dallo 0,2 al 45% del totale (da poco più di 30.000 a oltre 2 milioni di barili al giorno), ha risposto rivendicando il diritto sovrano di continuare ad approvvigionarsi di idrocarburi russi in quanto maggiormente vantaggiosi sotto il profilo economico e pertanto vitali per la sicurezza energetica del Paese. La presa di posizione è stata illustrata attraverso una dettagliatissima nota diramata dal Ministero degli Esteri di Nuova Delhi in cui si legge che: «le importazioni dell’India mirano a garantire costi energetici prevedibili e accessibili al consumatore indiano. Costituiscono una necessità imposta dalla situazione del mercato globale. È significativo che le stesse nazioni critiche nei confronti dell’India stiano a loro volta intrattenendo rapporti commerciali con la Russia  che non attengono ad alcun interesse vitale. Nel 2024, l’Unione Europea ha registrato un commercio bilaterale di beni con la Russia pari a 67,5 miliardi di euro. Nel 2023, ha registrato scambi di servizi stimati in 17,2 miliardi di euro. Si tratta di un ammontare significativamente superiore al volume del commercio totale russo-indiano registrato sia in quell’anno che in quelli successivi. Le importazioni europee di Gnl nel 2024, infatti, hanno raggiunto il record di 16,5 milioni di tonnellate, superando l’ultimo record di 15,21 milioni di tonnellate del 2022. Il commercio tra Europa e Russia include non solo energia, ma anche fertilizzanti, prodotti minerari, prodotti chimici, ferro e acciaio, macchinari e mezzi di trasporto. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, continuano a importare dalla Russia esafluoruro di uranio per la loro industria nucleare, palladio per la loro industria dei veicoli elettrici, fertilizzanti e prodotti chimici». La relazione tra Stati Uniti e Russia si estende anche all’ambito della cooperazione spaziale, come testimoniato dal recente allungamento fino al 2028 dell’accordo di collaborazione per la gestione della stazione spaziale internazionale siglato tra Nasa e Roscosmos proprio negli stessi giorni in cui l’amministrazione Trump predisponeva le tariffe contro l’India. Il portavoce del Ministero degli Estero indiano Randhir Jaiswal ha inoltre precisato che «l’India ha cominciato ad accrescere le importazioni di petrolio dalla Russia perché le forniture tradizionali erano state state dirottate verso l’Europa dopo lo scoppio del conflitto russo-ucraino. All’epoca, gli Stati Uniti incoraggiarono attivamente tutto questo per rafforzare la stabilità dei mercati energetici globali».

Ne consegue che, recita il documento diplomatico diffuso dal Ministero degli Esteri di Nuova Delhi, «è irragionevole privo di giustificazione prendere di mira l’India». La quale annovera tuttavia negli Stati Uniti il principale mercato di sbocco, in grado di assorbire il 18% dei beni e servizi complessivamente esportati da Nuova Delhi e di esercitare un peso sul Pil indiano pari a circa per il 2,2%. Nel 2024, l’interscambio bilaterale tra Stati Uniti e India ha registrato un forte attivo indiano per quanto concerne i beni  (45,8 miliardi di dollari) e un impercettibile surplus statunitense in materia di servizi (0,2 miliardi di dollari). Il ragguardevolissimo deficit statunitense, puntualmente addebitato da Trump alle poderose barriere sia tariffarie che l’India preserva a protezione del proprio mercato interno, riflette appieno la rilevanza che il mercato Usa riveste per l’India, con particolare riferimento a segmenti merceologici come le pietre preziose, i macchinari elettrici e i prodotti farmaceutici. Con dazi al 50%, il conseguimento di un risultato paragonabile a quello raggiunto nel 2024 (86,5 miliardi di dollari di export) rappresenta un miraggio per il Paese asiatico, i cui esportatori hanno dichiarato di poter a malapena gestire un incremento tariffario del 10-15%. Secondo gli specialisti della banca giapponese Nomura, l’entrata in vigore di dazi così pesanti genererebbe un effetto paragonabile a quello di «un embargo commerciale, con un blocco improvviso delle esportazioni dei prodotti interessati». Gli Stati Uniti si sono quindi avvalsi di un potente strumento di ricatto nei confronti dell’India in un’ottica di sanzionamento sia del legame strettamente collaborativo instaurato da Nuova Delhi con Mosca, sia del mercantilismo commerciale abbracciato dalle autorità indiane.

Lungi dal piegarsi ai diktat statunitensi, l’esecutivo guidato da Narendra Modi si è strettamente attenuto agli intenti dichiarati nel documento del Ministero degli Esteri, secondo cui «come ogni grande economia, l’India adotterà tutte le misure necessarie per salvaguardare i propri interessi nazionali e la propria sicurezza economica». Il primo passo è consistito nell’abbassamento delle tasse a beneficio delle categorie maggiormente colpite dalle misure statunitensi, seguito dall’interruzione delle trattative per l’acquisto di sistemi d’arma di fabbricazione statunitense. Si è poi registrato l’invio a Mosca del consigliere per la Sicurezza Nazionale indiano Ajit Doval, nell’ambito di una visita diplomatica volta ad approfondire la partnership strategica e l’intesa energetica tra i due Paesi alla luce dell’aggressività Usa. A margine di un incontro che Doval ha avuto con il segretario del Consiglio di Sicurezza della Federazione Russa Sergij Šojgu, quest’ultimo ha dichiarato che «siamo impegnati a promuovere una cooperazione attiva intesa a formare un nuovo ordine mondiale più giusto e sostenibile, garantire la supremazia del diritto internazionale e combattere congiuntamente le sfide e le minacce moderne». Subito dopo, Modi in persona ha pubblicato un post sul suo profilo Twitter/X in cui si legge che: «ho avuto una conversazione molto buona e approfondita con il mio amico, il presidente Putin. L’ho ringraziato per aver condiviso con me gli ultimi eventi in Ucraina. Abbiamo anche esaminato i progressi della nostra agenda bilaterale e confermato il nostro impegno a un ulteriore approfondimento della partnership strategica speciale e privilegiata tra Russia e India. Non vedo l’ora di accogliere il presidente Putin in India quest’anno». Parallelamente, il primo ministro indiano ha annunciato che tornerà in visita in Cina per la prima volta da sette anni, aprendo il varco a una serie di iniziative bilaterali particolarmente promettenti. Alla ripresa dei voli diretti entro poche settimane ha fatto seguito l’avvio di negoziati per la ripresa del commercio di frontiera, interrotto nel 2002 in conseguenza degli scontri tra truppe indiane e cinesi sul Ladakh. Ma non è tutto. Come riporta il «Times of India»: «NayaraEnergy, un’importante raffineria indiana sostenuta da Rosneft, ha spedito per la prima volta dal 2021 un carico di diesel in Cina, a causa delle sanzioni imposte dell’Unione Europea  […] che hanno ridotto il tetto di prezzo del petrolio russo a 47,6 dollari al barile, limitando l’accesso di Nayara ai mercati europei. Ciò ha spinto la compagnia a cercare nuovi mercati, con una nave cisterna, la Tempest Dream, che ha trasportato 43.000 tonnellate di diesel verso la Cina».

Quest’ultima, il cui interscambio con la Russia continua a incrementare nel quadro della “partnership senza limiti” che cementa i due Paesi ormai da diversi anni, è stata anch’essa sottoposta a pressioni statunitensi. Più specificamente, l’amministrazione Trump ha minacciato di imporre dazi fino al 100% qualora l’ex Celeste Impero non avesse ridimensionato considerevolmente le proprie importazioni di petrolio russo – che attualmente copre il 20% circa del fabbisogno cinese – e interrotto l’export di materiali a doppio uso (civile e militare) a beneficio di Mosca. Misure punitive sono state invece imposte da Washington contro diversi terminali attraverso cui il petrolio iraniano soggetto a sanzioni statunitensi ed europee fluisce regolarmente in Cina, per un ammontare di 1,4 milioni di barili al giorno. Senonché, come rilevato dal portavoce del Ministero degli Esteri cinese Guo Jiakun, «la Cina adotterà misure appropriate per la propria sicurezza energetica in base ai propri interessi nazionali […]. Le guerre commerciali basate sui dazi non producono vincitori. Coercizione e pressioni non risolveranno alcun problema. La Cina preserverà con fermezza la propria sovranità, la propria sicurezza e le proprie prospettive di sviluppo». L’annuncio è giunto sulla scia di una nuova stretta cinese sull’export di minerali critici di cui Pechino controlla il 90% circa del mercato mondiale. Il «Wall Street Journal» ha adottato toni particolarmente drammatici per descrivere il provvedimento cinese, parlando apertamente di «strangolamento delle industrie occidentali della difesa». D’altro canto, la Cyberspace Administration of China ha ventilato la possibilità di precludere l’accesso al mercato interno a Nvidia, adducendo «gravi rischi per la sicurezza nazionale».

Un altro bersaglio dell’offensiva tariffaria trumpiana consiste indubbiamente nel Brasile, principale economia dell’America Latina che esporta negli Stati Uniti grandi quantità di idrocarburi, macchinari, legname, carne bovina, caffè e acciaio, ma verso il quale gli Stati Uniti vantano un avanzo commerciale che interessa sia il settore dei beni (6,8 miliardi di dollari) che quello dei servizi (29,1 miliardi di dollari). I dazi del 50% imposti dall’amministrazione Trump al Brasile non sono infatti motivati ufficialmente dalla necessità di correggere politiche commerciali ritenute scorrette, ma dalla volontà di punire la presunta “persecuzione giudiziaria” a cui il presidente Lula starebbe sottoponendo il suo predecessore Bolsonaro. Non a caso, i dazi sono stati affiancati da sanzioni individuali nei confronti di una serie di giudici brasiliani collegati a vario titolo all’“affaire Bolsonaro”. Le misure si sono concentrate soprattutto sulla figura di Alexandre de Moraes, membro della Corte Suprema brasiliana accusato dal segretario al Tesoro Scott Bessent di aver «assunto su di sé le funzioni di giudice e giuria in una illegale caccia alle streghe contro cittadini e aziende sia statunitensi che brasiliane», oltre che di aver portato avanti «una campagna oppressiva di censura, detenzioni arbitrarie che violano i diritti umani e procedimenti politicizzati». Il problema per Washington è che il Brasile ha ridotto costantemente la propria dipendenza dagli Stati Uniti attraverso una oculata strategia di diversificazione dei mercati di sbocco. A partire da quello cinese, verso cui il Brasile ha aumentato costantemente i volumi di esportazione. Attualmente, la Cina assorbe il 28% dell’export del Brasile, il cui commercio estero riveste in ogni caso una rilevanza molto relativa per l’economia nazionale (36% del Pil). Come ha dichiarato Lula: «dovremo cercare altri partner per acquistare i nostri prodotti, ma occorre ricordare che il commercio del Brasile con gli Stati Uniti rappresenta “soltanto” l’1,7% del suo Pil. Possiamo sopravvivere senza gli Stati Uniti».

Il presidente brasiliano si è però spinto oltre, facendosi sostanzialmente interprete delle esigenze comuni a tutti i Paesi colpiti dalle misure punitive statunitensi. In un’intervista rilasciata a «Reuters», ha infatti espresso l’intenzione di sfruttare l’imminente vertice dei Brics di Rio de Janeiro per convincere Xi Jinping e Narendra Modi a elaborare una reazione congiunta. L’aggressività statunitense agevola de facto la missione che Lula si è intestato. Nonostante le minacce formulate a 360° dall’amministrazione Trump, la Russia prosegue le operazioni militari in Ucraina, India e Cina continuano ad approvvigionarsi di idrocarburi russi e il Brasile rimane al pari degli altri arroccato sulle proprie posizioni di rifiuto di qualsiasi ingerenza nei propri affari interni. Allo stesso tempo, la comune necessità di sponde a cui fare riferimento per vanificare o quantomeno attutire l’impatto dei provvedimenti statunitensi moltiplica per tutti i soggetti esposti – spesso altamente complementari tra loro – gli incentivi a espandere e approfondire la cooperazione reciproca. La graduale militarizzazione del mercato statunitense, del dollaro e dei circuiti che ne garantiscono la circolazione alimenta di linfa vitale organismi complessi a ancora in fase di strutturazione come il Brics e la Shanghai Cooperation Organisation, con implicazioni pericolosissime per la vacillante egemonia monetaria e finanziaria statunitense.

Lo stesso governo statunitense deve averne preso atto, come si evince sia dalla decisione di rimandare di ulteriori 90 giorni l’entrata in vigore dei dazi nei confronti della Cina, sia dal clima alquanto conciliante che ha caratterizzato il recente vertice in Alaska tra i presidenti Trump e Putin. A margine dell’incontro, l’inquilino della Casa Bianca ha pubblicato un post sul suo profilo Truth in cui si sostiene che quella appena conclusasi in Alaska rappresenta «una giornata fantastica e di grande successo! Abbiamo convenuto tutti che il modo migliore per porre fine all’orribile guerra in corso tra Russia e Ucraina è quello di passare direttamente a un accordo di pace, che porrebbe fine alla guerra, e non a un semplice accordo di cessate il fuoco, che spesso non regge». Alla luce dei risultati raggiunti in Alaska, ha inoltre spiegato Trump, è possibile che non sussista la necessità di imporre all’India i dazi già annunciati, né di irrogare misure analoghe nei confronti della Cina.

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August 19, 2025

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