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Giacomo Gabellini
July 24, 2025
© Photo: Public domain

Che cosa vuole ottenere il presidente azero Ilham Aliyev e nell’interesse di chi agisce questo Paese?

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Nel marzo 2023, il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian si recò in Turchia per esprimere solidarietà al Paese, duramente colpito pochi giorni prima da una serie di terremoti di rara intensità. Nel corso della conferenza stampa tenutasi assieme al suo omologo Mevlüt Çavuşoğlu a margine della visita, Abdollahian dichiarò: «consideriamo la presenza del regime sionista nella regione una grave minaccia alla pace e alla stabilità. Ovunque sia coinvolto questo regime, si sono verificate insicurezza e crisi. La Repubblica Islamica dell’Iran esorta le parti a prestare molta attenzione al comportamento del regime sionista. Non dovrebbero permetterne la presenza nella regione».

Il riferimento era rivolto alla riacutizzazione del conflitto incentrato sul Nagorno-Karabakh verificatasi circa due anni e mezzo addietro (27 settembre-10 novembre 2020), e in particolare al ruolo cruciale svolto da Israele. Nello specifico, lo Stato ebraico accordò all’Azerbaijan un sostegno più “discreto” rispetto a quello assicurato dalla Turchia ma non meno significativo. Si stima che le forniture israeliane abbiano coperto il 70% circa del fabbisogno bellico azero tra il 2016 e il 2020. Entro questa finestra temporale, i velivoli da trasporto di fabbricazione russa Ilyushin-76 in dotazione all’Azerbaijan hanno fatto la spola tra l’aeroporto di Ovda, nel sud di Israele, e quelli di Baku e Ganja (la seconda città più grande del Paese, appena a nord del Nagorno-Karabakh) almeno 92 volte. Tra l’1 e il 17 settembre 2020, si evince dai dati di tracciamento aereo reperibili su FlightRadar24.com, i cargo della compagnia di bandiera azera Silk Way Airlines hanno compiuto almeno sei viaggi tra Ovda e i due principali scali azeri. L’intensità dei voli è fortemente aumentata durante il conflitto. Armate di droni suicidi Harop, missili terra-aria Barak-8, bombe a grappolo Mo-95, sistemi anti-aerei, radar, proiettili di artiglieria e altro materiale militare messo a disposizione da Tel Aviv, le forze armate azere hanno inflitto una pesante sconfitta all’esercito armeno. E portato avanti, sempre grazie al determinante contributo israeliano, una vera e propria pulizia etnica del Nagorno-Karabakh.

La vicinanza di Israele a un Paese musulmano e situato a migliaia di km di distanza come l’Azerbaijan può apparire anomala, ma da un’analisi più approfondita risulta pienamente rispondente alle esigenze strategiche di entrambi gli attori.

Se Israele rappresenta fin dalle prime fasi del periodo post-sovietico un fornitore chiave di sistemi d’arma per l’Azerbaijan (a cui trasferì missili Stinger nella prima guerra del Nagorno-Karabakh), a sua volta quest’ultimo ha cominciato a svolgere un ruolo fondamentale nel garantire la sicurezza energetica di Israele già dagli anni ’80. Lo ha rivelato una fonte di spicco dell’intelligence israeliana, secondo cui il petrolio azero fluiva copiosamente verso Israele ancor prima che le relazioni diplomatiche venissero formalmente instaurate (1992). Naturalmente, gli idrocarburi azeri hanno continuato a sostenere l’economia israeliana anche negli anni difficili della Seconda Intifada, come riconosciuto dall’ambasciatore israeliano a Baku: «riteniamo che la vera amicizia venga messa alla prova nei momenti di bisogno, e penso che l’amicizia tra i nostri Paesi sia stata testata in quei momenti critici». Secondo «Israel Hayom», nel 2019 Israele ha coperto con importazioni dall’Azerbaijan il 60% del proprio fabbisogno di benzina. Nel 2024, con Israele impegnato in una guerra su più fronti e pertanto bisognoso di forniture addizionali e ininterrotte di energia, l’Azerbaijan ha aumentato le sue esportazioni di petrolio verso lo Stato ebraico del 55%. Nel luglio dello stesso anno, esponenti istituzionali di vertice di entrambi i Paesi hanno intavolato negoziati volti a «rafforzare la cooperazione regionale». Di fatto, ha sottolineato «Yedioth Ahronoth», «l’Azerbaijan è l’unico Paese musulmano al mondo a sostenere Israele nella guerra [su più fronti, nda]», come confermato dalla decisione della Azerbaijan Airlines di non sospendere, a differenza della stragrande maggioranza delle compagnie occidentali, i voli verso Israele. Risultato: il flusso turistico israeliano verso l’Azerbaijan è cresciuto del 50%. La natura di parte assai ragguardevole degli scambi bilaterali risulta peraltro coperta da segreto, come confermato da un cablogramma classificato reso pubblico da «WikiLeaks», in cui il consolato statunitense a Baku paragonava le relazioni fra Azerbaijan e Israele a «un iceberg, visto che come questi grandi blocchi di ghiaccio nasconde i nove decimi della sua consistenza sotto la superficie».

A riprova del fatto, evidenziato con forza dal ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen nell’ottobre 2024, che le relazioni bilaterali hanno raggiunto una dimensione strategica. Per Benjamin Netanyahu, che nel 1997 si recò in qualità di primo ministro in Azerbaijan per incontrare il presidente Heydar Aliyev e dare così un impulso significativo al partenariato strategico tra i due Paesi, la relazione strettamente collaborativa istituita sul piano bilaterale rappresenta «un esempio di come musulmani ed ebrei possano lavorare insieme per garantire un futuro migliore a entrambi». Due anni prima della visita di Netanyahu, il suo predecessore Yitzhak Rabin si era a sua volta confrontato con Aliyev a New York, richiamando la sua attenzione sul fatto che l’Azerbaijan «ha un confine molto lungo e teso con l’Iran» e proponendo collaborazione in materia di sicurezza. Più specificamente, l’Azerbaijan condivide una frontiera di 765 km con l’Iran, e gli azeri rappresentano la minoranza più numerosa della Repubblica Islamica, pari a circa il 20% della popolazione iraniana (17,7 milioni). Il governo di Teheran è inoltre storicamente collocato su posizioni di forte vicinanza all’Armenia cristiana, nemica giurata dell’Azerbaijan. Per Israele e Azerbaijan, osserva l’Institute for National Security Studies (Inss), l’Iran funge in altri termini da fattore unificante, poiché entrambi considerano la Repubblica Islamica alla stregua di una minaccia esistenziale. Secondo lo specialista in questioni di intelligence Yossi Melman, «apparentemente, Israele e Azerbaijan sono una strana e male assortita coppia, ma d’altra parte Israele non è mai troppo selettivo nella scelta degli amici quando si tratta di vendita di armi e interessi nazionali. Un rapido sguardo alla mappa mostra che l’Azerbaigian confina con l’Iran, nemico giurato di Israele», il quale ha puntualmente approfittato della diffidenza nutrita reciprocamente da Baku e Teheran con il consueto tempismo.

Lo si evince dalle rivelazioni rese già nel giugno 2006 a «Yedioth Ahronoth» da fonti interne al governo di Tel Aviv, secondo cui l’omogeneità etnica (azera) e religiosa (sciita) della regione situata a cavallo del confine azero-iraniano rendeva l’Azerbaijan un formidabile avamposto strategico da sfruttare nel contesto di un’eventuale operazione militare contro l’Iran. Nel dicembre dello stesso anno, il generale israeliano Oded Tira pose l’accento sulla necessità di «coordinare con l’Azerbaijan l’impiego di basi aeree sul suo territorio e ingraziarci il favore della minoranza azera in Iran». A due anni di distanza, il ministro degli Esteri Tzipi Livni riconobbe l’esistenza di «legami molto stretti tra Israele e Azerbaijan in settori strategicamente importanti come la sicurezza e la condivisione di intelligence». Il rapido consolidamento del rapporto tra Tel Aviv e Baku non era passato inosservato a Teheran. Il Washington Institute for Near East Policy, noto think-tank statunitense di ispirazione neoconservatrice, rilevava già nel 2005 che «da quando Ilham Aliyev [figlio di Heydar, nda] è diventato presidente nell’ottobre 2003, l’Iran ha avviato una campagna intimidatoria nei confronti dell’Azerbaijan. Un gruppo di alti ufficiali militari iraniani ha visitato Baku nell’agosto 2004, esortando l’Azerbaigian a cessare la cooperazione in materia di sicurezza con Israele e a non ricevere più ufficiali dell’esercito e dell’intelligence». Nel febbraio 2012, l’«Associated Press» evidenziò che l’Azerbaigian si era trasformato in un punto d’appoggio cruciale per l’intelligence israeliana, con decine di agenti operativi acquartierati all’interno dei confini azeri. Un mese dopo, «Foreign Policy» affermò che la partnership strategica bilaterale – confermata di lì a breve dal ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon nel corso di una visita a Baku – aveva ormai raggiunto un livello di profondità tale che «se i velivoli israeliani intendessero atterrare in Azerbaijan dopo un attacco all’Iran, probabilmente otterrebbero l’autorizzazione da Baku. Israele è profondamente radicato in Azerbaijan, e lo è da vent’anni». Secondo il Besa Center israeliano, «nel prossimo futuro, è probabile che le relazioni azero-israeliane si intensificheranno ulteriormente in settori quali la cooperazione scientifica, l’informatica, la medicina, la depurazione delle acque, l’agricoltura e gli scambi culturali. Ancora più importante, la cooperazione strategica nei settori della difesa e dell’intelligence, nonché nella lotta al terrorismo, ha dimostrato che due piccoli Paesi situati in un Medio Oriente allargato possono trovare la combinazione ideale per instaurare una relazione simbiotica di successo in un contesto di elevata insicurezza».

In seguito alla seconda guerra del Nagorno-Karabakh, le tensioni tra Baku e Teheran sono prevedibilmente salite alle stelle. Anzitutto perché, come osservato dall’ex direttore della divisione ricerca dell’Aman Yossi Kuperwasser, l’incorporazione de facto dell’Artsakh ad opera dell’Azerbaijan esponeva ancor di più il fianco iraniano alle operazioni israeliane realizzabili dal territorio azero, orientate a fomentare il separatismo in seno alla popolazione azera dell’Iran. O a destabilizzarlo attraverso altre forme. Non pochi sospetti sono sorti riguardo al misterioso incidente in elicottero verificatosi il 19 maggio 2024, costato la vita al presidente Ebrahim Raisi e al ministro degli Esteri Amir Abdollahian. L’episodio si è consumato nei pressi di Uzi, nella provincia iraniana dell’Azerbaijan orientale, a seguito di una visita ufficiale a Baku. A riprova del fatto che «la cooperazione in materia di intelligence tra Israele e Azerbaijan pone il regime degli Ayatollah in una posizione difficile», incalzava «Israel Hayom» nell’aprile del 2021.

La correttezza della valutazione espressa dal quotidiano israeliano è emersa con limpidezza con l’Operazione Rising Lion, sferrata da Israele lo scorso giugno al culmine di un lungo e meticoloso periodo di preparazione. L’azione si sarebbe dispiegata anzitutto con una serie di attacchi informatici contro le difese aeree iraniane. Le batterie antimissilistiche collocate nelle aree più occidentali della Repubblica Islamica sono state quindi bersagliate con missili balistici guidati dal sistema statunitense Battlescape che erano stati preposizionati dai servizi di intelligence israeliani attraverso il Kurdistan iracheno, di cui il Mossad si è servito come retroterra logistico anche per allestire una vasta rete di collusione interna – formata da afghani, baluci, membri del Mek, ecc. – all’Iran preposta alla produzione in loco di droni e al loro impiego contro obiettivi sia civili che militari. Secondo la ricostruzione formulata dal sempre ben informato Alastair Crooke, ex diplomatico britannico dotato di agganci di alto livello in Medio Oriente, uno sciame di droni sarebbe penetrato in territorio iraniano dall’Azerbaijan, che potrebbe anche aver fornito un contributo in materia di infiltrazione paragonabile a quello apportato dal Kurdistan iracheno. Nel corso di una conversazione telefonica, il ministro degli Esteri azero Jeyhun Bayramov ha assicurato al suo omologo iraniano Abbas Araghchi la totale estraneità dell’Azerbaijan rispetto all’Operazione Rising Lion, spiegando che Baku «non permetterà mai che il suo spazio aereo o il suo suolo servano da rampa di lancio per operazioni contro l’Iran o qualsiasi altro Paese». Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha in ogni caso sollecitato un’indagine da parte del governo azero, volta a fugare qualsiasi dubbio.

Significativamente, a Mosca sono sorti sospetti dello stesso tenore. L’ipotesi è che gli azeri dotati di passaporto russo e connessi a ben strutturate reti malavitose tratti in arresto dall’Fsb alla fine di giugno nell’ambito di una imponente retata possano aver agevolato l’infiltrazione e/o il reclutamento di elementi coinvolti nell’Operazione Spiderweb, implicante l’attacco coordinato a diverse basi militari che ospitavano bombardieri strategici russi pianificato dai servizi ucraini. All’operazione condotta dall’Fsb, a cui il governo di Aliyev ha riposto con inaspettata durezza, Mosca ha affiancato un poderoso attacco missilistico condotto contro un impianto ucraino che raffinava petrolio azero. Il messaggio è chiarissimo: Baku sta giocando con il fuoco. Nella fattispecie, prestandosi alle macchinazioni della Turchia, altro alleato di ferro dell’Azerbaijan e sostenitore di Baku nel secondo conflitto del Nagorno-Karabakh. Nell’ottica di Ankara, il passaggio dell’Artsakh sotto il pieno controllo di Baku apre il varco alla realizzazione del cosiddetto “Corridoio di Zangezur”, un collegamento terrestre tra la Turchia e il Mar Caspio la cui piena realizzazione richiede il coinvolgimento della provincia armena di Syunik, da ottenere previa “normalizzazione” del governo armeno. Si tratta di un processo già avviato: sotto la guida di Nikol Pashinyan, l’Armenia ha implementato una transizione “scomposta” dall’orbita russa all’asse atlantista, culminata con l’esecuzione di esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti. A sua volta, il “Corridoio di Zangezur” andrebbe a integrarsi nel Transport Corridor Europe-Caucasus-Asia (Traceca) un progetto infrastrutturale che coinvolge l’Unione Europea più 14 Stati dell’’Europa orientale, del Caucaso e dell’Asia centrale. Un disegno ambizioso, che si pone in netta concorrenza con l’International North-South Transport Corridor (Instc), una rete internazionale multimodale che, correndo per circa 7.200 chilometri da San Pietroburgo a Mumbai attraverso Russia, Azerbaijan e Iran, si candida a fungere da linea di collegamento tra Europa, Golfo Persico ed Oceano Indiano alternativa al Canale di Suez.

Allineandosi alle ambizioni panturaniche di Ankara, il “Corridoio di Zangezur” e il Traceca si configurano come strumenti funzionali a elevare la Turchia al rango di snodo logistico e militare tra Europa e Asia centrale. Un fondamentale anello di congiunzione tra Occidente e Oriente in grado di veicolare l’influenza atlantista nel Caucaso e in Asia centrale, ridimensionando la Russia e marginalizzando l’Iran. Di qui il forte interesse degli Stati Uniti per il progetto, identificato come un mezzo per «superare situazioni di stallo decennali, diversificare l’approvvigionamento energetico dell’Europa dalla Russia e contrastare la crescente influenza di Mosca, Pechino e Teheran in una regione di transito critica. L’iniziativa riflette l’ambizione più ampia degli Stati Uniti di sfruttare un raro vuoto di potere nel Caucaso meridionale, una regione storicamente dominata dalla Russia ma ora pronta per un riallineamento dopo il netto fallimento di Mosca nel proteggere il suo alleato armeno durante l’offensiva dell’Azerbaijan». Il “Corridoio di Zangezur” sconta anche il silenzioso assenso del governo Netanyahu. A dispetto della retorica infuocata che Erdoğan riversa quotidianamente su Israele, la convergenza di interessi tra Ankara e Tel Aviv appare molto più sostanziale se osservata con uno sguardo disincantato.

Sconfitta sul campo di battaglia in Ucraina e incapace di rovesciare l’assetto politico e istituzionale in Iran, la compagine atlantista sembra insomma ripiegare sul “reclutamento” di Caucaso e Asia centrale. Crooke reputa che nella classe dirigente russa sia maturata la convinzione, in particolare dopo la strage del Crocus Hall perpetrata soprattutto da tajiki infiltrati tramite il Kazakistan, che i burattinai dello schieramento atlantista stiano cercando di trasformare l’Asia centrale in un avamposto in cui pianificare operazioni di destabilizzazione nei confronti dei Paesi “revisionisti”, che la National Intelligence statunitense indentifica in Cina, Russia, Iran e Corea del Nord. Si tratterebbe di un ritorno alle logiche del “Grande Gioco” ottocentesco narrato con impareggiabile maestria dal Peter Hopkirk.

Caucaso e Asia centrale: torna il “Grande Gioco”

Che cosa vuole ottenere il presidente azero Ilham Aliyev e nell’interesse di chi agisce questo Paese?

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Nel marzo 2023, il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian si recò in Turchia per esprimere solidarietà al Paese, duramente colpito pochi giorni prima da una serie di terremoti di rara intensità. Nel corso della conferenza stampa tenutasi assieme al suo omologo Mevlüt Çavuşoğlu a margine della visita, Abdollahian dichiarò: «consideriamo la presenza del regime sionista nella regione una grave minaccia alla pace e alla stabilità. Ovunque sia coinvolto questo regime, si sono verificate insicurezza e crisi. La Repubblica Islamica dell’Iran esorta le parti a prestare molta attenzione al comportamento del regime sionista. Non dovrebbero permetterne la presenza nella regione».

Il riferimento era rivolto alla riacutizzazione del conflitto incentrato sul Nagorno-Karabakh verificatasi circa due anni e mezzo addietro (27 settembre-10 novembre 2020), e in particolare al ruolo cruciale svolto da Israele. Nello specifico, lo Stato ebraico accordò all’Azerbaijan un sostegno più “discreto” rispetto a quello assicurato dalla Turchia ma non meno significativo. Si stima che le forniture israeliane abbiano coperto il 70% circa del fabbisogno bellico azero tra il 2016 e il 2020. Entro questa finestra temporale, i velivoli da trasporto di fabbricazione russa Ilyushin-76 in dotazione all’Azerbaijan hanno fatto la spola tra l’aeroporto di Ovda, nel sud di Israele, e quelli di Baku e Ganja (la seconda città più grande del Paese, appena a nord del Nagorno-Karabakh) almeno 92 volte. Tra l’1 e il 17 settembre 2020, si evince dai dati di tracciamento aereo reperibili su FlightRadar24.com, i cargo della compagnia di bandiera azera Silk Way Airlines hanno compiuto almeno sei viaggi tra Ovda e i due principali scali azeri. L’intensità dei voli è fortemente aumentata durante il conflitto. Armate di droni suicidi Harop, missili terra-aria Barak-8, bombe a grappolo Mo-95, sistemi anti-aerei, radar, proiettili di artiglieria e altro materiale militare messo a disposizione da Tel Aviv, le forze armate azere hanno inflitto una pesante sconfitta all’esercito armeno. E portato avanti, sempre grazie al determinante contributo israeliano, una vera e propria pulizia etnica del Nagorno-Karabakh.

La vicinanza di Israele a un Paese musulmano e situato a migliaia di km di distanza come l’Azerbaijan può apparire anomala, ma da un’analisi più approfondita risulta pienamente rispondente alle esigenze strategiche di entrambi gli attori.

Se Israele rappresenta fin dalle prime fasi del periodo post-sovietico un fornitore chiave di sistemi d’arma per l’Azerbaijan (a cui trasferì missili Stinger nella prima guerra del Nagorno-Karabakh), a sua volta quest’ultimo ha cominciato a svolgere un ruolo fondamentale nel garantire la sicurezza energetica di Israele già dagli anni ’80. Lo ha rivelato una fonte di spicco dell’intelligence israeliana, secondo cui il petrolio azero fluiva copiosamente verso Israele ancor prima che le relazioni diplomatiche venissero formalmente instaurate (1992). Naturalmente, gli idrocarburi azeri hanno continuato a sostenere l’economia israeliana anche negli anni difficili della Seconda Intifada, come riconosciuto dall’ambasciatore israeliano a Baku: «riteniamo che la vera amicizia venga messa alla prova nei momenti di bisogno, e penso che l’amicizia tra i nostri Paesi sia stata testata in quei momenti critici». Secondo «Israel Hayom», nel 2019 Israele ha coperto con importazioni dall’Azerbaijan il 60% del proprio fabbisogno di benzina. Nel 2024, con Israele impegnato in una guerra su più fronti e pertanto bisognoso di forniture addizionali e ininterrotte di energia, l’Azerbaijan ha aumentato le sue esportazioni di petrolio verso lo Stato ebraico del 55%. Nel luglio dello stesso anno, esponenti istituzionali di vertice di entrambi i Paesi hanno intavolato negoziati volti a «rafforzare la cooperazione regionale». Di fatto, ha sottolineato «Yedioth Ahronoth», «l’Azerbaijan è l’unico Paese musulmano al mondo a sostenere Israele nella guerra [su più fronti, nda]», come confermato dalla decisione della Azerbaijan Airlines di non sospendere, a differenza della stragrande maggioranza delle compagnie occidentali, i voli verso Israele. Risultato: il flusso turistico israeliano verso l’Azerbaijan è cresciuto del 50%. La natura di parte assai ragguardevole degli scambi bilaterali risulta peraltro coperta da segreto, come confermato da un cablogramma classificato reso pubblico da «WikiLeaks», in cui il consolato statunitense a Baku paragonava le relazioni fra Azerbaijan e Israele a «un iceberg, visto che come questi grandi blocchi di ghiaccio nasconde i nove decimi della sua consistenza sotto la superficie».

A riprova del fatto, evidenziato con forza dal ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen nell’ottobre 2024, che le relazioni bilaterali hanno raggiunto una dimensione strategica. Per Benjamin Netanyahu, che nel 1997 si recò in qualità di primo ministro in Azerbaijan per incontrare il presidente Heydar Aliyev e dare così un impulso significativo al partenariato strategico tra i due Paesi, la relazione strettamente collaborativa istituita sul piano bilaterale rappresenta «un esempio di come musulmani ed ebrei possano lavorare insieme per garantire un futuro migliore a entrambi». Due anni prima della visita di Netanyahu, il suo predecessore Yitzhak Rabin si era a sua volta confrontato con Aliyev a New York, richiamando la sua attenzione sul fatto che l’Azerbaijan «ha un confine molto lungo e teso con l’Iran» e proponendo collaborazione in materia di sicurezza. Più specificamente, l’Azerbaijan condivide una frontiera di 765 km con l’Iran, e gli azeri rappresentano la minoranza più numerosa della Repubblica Islamica, pari a circa il 20% della popolazione iraniana (17,7 milioni). Il governo di Teheran è inoltre storicamente collocato su posizioni di forte vicinanza all’Armenia cristiana, nemica giurata dell’Azerbaijan. Per Israele e Azerbaijan, osserva l’Institute for National Security Studies (Inss), l’Iran funge in altri termini da fattore unificante, poiché entrambi considerano la Repubblica Islamica alla stregua di una minaccia esistenziale. Secondo lo specialista in questioni di intelligence Yossi Melman, «apparentemente, Israele e Azerbaijan sono una strana e male assortita coppia, ma d’altra parte Israele non è mai troppo selettivo nella scelta degli amici quando si tratta di vendita di armi e interessi nazionali. Un rapido sguardo alla mappa mostra che l’Azerbaigian confina con l’Iran, nemico giurato di Israele», il quale ha puntualmente approfittato della diffidenza nutrita reciprocamente da Baku e Teheran con il consueto tempismo.

Lo si evince dalle rivelazioni rese già nel giugno 2006 a «Yedioth Ahronoth» da fonti interne al governo di Tel Aviv, secondo cui l’omogeneità etnica (azera) e religiosa (sciita) della regione situata a cavallo del confine azero-iraniano rendeva l’Azerbaijan un formidabile avamposto strategico da sfruttare nel contesto di un’eventuale operazione militare contro l’Iran. Nel dicembre dello stesso anno, il generale israeliano Oded Tira pose l’accento sulla necessità di «coordinare con l’Azerbaijan l’impiego di basi aeree sul suo territorio e ingraziarci il favore della minoranza azera in Iran». A due anni di distanza, il ministro degli Esteri Tzipi Livni riconobbe l’esistenza di «legami molto stretti tra Israele e Azerbaijan in settori strategicamente importanti come la sicurezza e la condivisione di intelligence». Il rapido consolidamento del rapporto tra Tel Aviv e Baku non era passato inosservato a Teheran. Il Washington Institute for Near East Policy, noto think-tank statunitense di ispirazione neoconservatrice, rilevava già nel 2005 che «da quando Ilham Aliyev [figlio di Heydar, nda] è diventato presidente nell’ottobre 2003, l’Iran ha avviato una campagna intimidatoria nei confronti dell’Azerbaijan. Un gruppo di alti ufficiali militari iraniani ha visitato Baku nell’agosto 2004, esortando l’Azerbaigian a cessare la cooperazione in materia di sicurezza con Israele e a non ricevere più ufficiali dell’esercito e dell’intelligence». Nel febbraio 2012, l’«Associated Press» evidenziò che l’Azerbaigian si era trasformato in un punto d’appoggio cruciale per l’intelligence israeliana, con decine di agenti operativi acquartierati all’interno dei confini azeri. Un mese dopo, «Foreign Policy» affermò che la partnership strategica bilaterale – confermata di lì a breve dal ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon nel corso di una visita a Baku – aveva ormai raggiunto un livello di profondità tale che «se i velivoli israeliani intendessero atterrare in Azerbaijan dopo un attacco all’Iran, probabilmente otterrebbero l’autorizzazione da Baku. Israele è profondamente radicato in Azerbaijan, e lo è da vent’anni». Secondo il Besa Center israeliano, «nel prossimo futuro, è probabile che le relazioni azero-israeliane si intensificheranno ulteriormente in settori quali la cooperazione scientifica, l’informatica, la medicina, la depurazione delle acque, l’agricoltura e gli scambi culturali. Ancora più importante, la cooperazione strategica nei settori della difesa e dell’intelligence, nonché nella lotta al terrorismo, ha dimostrato che due piccoli Paesi situati in un Medio Oriente allargato possono trovare la combinazione ideale per instaurare una relazione simbiotica di successo in un contesto di elevata insicurezza».

In seguito alla seconda guerra del Nagorno-Karabakh, le tensioni tra Baku e Teheran sono prevedibilmente salite alle stelle. Anzitutto perché, come osservato dall’ex direttore della divisione ricerca dell’Aman Yossi Kuperwasser, l’incorporazione de facto dell’Artsakh ad opera dell’Azerbaijan esponeva ancor di più il fianco iraniano alle operazioni israeliane realizzabili dal territorio azero, orientate a fomentare il separatismo in seno alla popolazione azera dell’Iran. O a destabilizzarlo attraverso altre forme. Non pochi sospetti sono sorti riguardo al misterioso incidente in elicottero verificatosi il 19 maggio 2024, costato la vita al presidente Ebrahim Raisi e al ministro degli Esteri Amir Abdollahian. L’episodio si è consumato nei pressi di Uzi, nella provincia iraniana dell’Azerbaijan orientale, a seguito di una visita ufficiale a Baku. A riprova del fatto che «la cooperazione in materia di intelligence tra Israele e Azerbaijan pone il regime degli Ayatollah in una posizione difficile», incalzava «Israel Hayom» nell’aprile del 2021.

La correttezza della valutazione espressa dal quotidiano israeliano è emersa con limpidezza con l’Operazione Rising Lion, sferrata da Israele lo scorso giugno al culmine di un lungo e meticoloso periodo di preparazione. L’azione si sarebbe dispiegata anzitutto con una serie di attacchi informatici contro le difese aeree iraniane. Le batterie antimissilistiche collocate nelle aree più occidentali della Repubblica Islamica sono state quindi bersagliate con missili balistici guidati dal sistema statunitense Battlescape che erano stati preposizionati dai servizi di intelligence israeliani attraverso il Kurdistan iracheno, di cui il Mossad si è servito come retroterra logistico anche per allestire una vasta rete di collusione interna – formata da afghani, baluci, membri del Mek, ecc. – all’Iran preposta alla produzione in loco di droni e al loro impiego contro obiettivi sia civili che militari. Secondo la ricostruzione formulata dal sempre ben informato Alastair Crooke, ex diplomatico britannico dotato di agganci di alto livello in Medio Oriente, uno sciame di droni sarebbe penetrato in territorio iraniano dall’Azerbaijan, che potrebbe anche aver fornito un contributo in materia di infiltrazione paragonabile a quello apportato dal Kurdistan iracheno. Nel corso di una conversazione telefonica, il ministro degli Esteri azero Jeyhun Bayramov ha assicurato al suo omologo iraniano Abbas Araghchi la totale estraneità dell’Azerbaijan rispetto all’Operazione Rising Lion, spiegando che Baku «non permetterà mai che il suo spazio aereo o il suo suolo servano da rampa di lancio per operazioni contro l’Iran o qualsiasi altro Paese». Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha in ogni caso sollecitato un’indagine da parte del governo azero, volta a fugare qualsiasi dubbio.

Significativamente, a Mosca sono sorti sospetti dello stesso tenore. L’ipotesi è che gli azeri dotati di passaporto russo e connessi a ben strutturate reti malavitose tratti in arresto dall’Fsb alla fine di giugno nell’ambito di una imponente retata possano aver agevolato l’infiltrazione e/o il reclutamento di elementi coinvolti nell’Operazione Spiderweb, implicante l’attacco coordinato a diverse basi militari che ospitavano bombardieri strategici russi pianificato dai servizi ucraini. All’operazione condotta dall’Fsb, a cui il governo di Aliyev ha riposto con inaspettata durezza, Mosca ha affiancato un poderoso attacco missilistico condotto contro un impianto ucraino che raffinava petrolio azero. Il messaggio è chiarissimo: Baku sta giocando con il fuoco. Nella fattispecie, prestandosi alle macchinazioni della Turchia, altro alleato di ferro dell’Azerbaijan e sostenitore di Baku nel secondo conflitto del Nagorno-Karabakh. Nell’ottica di Ankara, il passaggio dell’Artsakh sotto il pieno controllo di Baku apre il varco alla realizzazione del cosiddetto “Corridoio di Zangezur”, un collegamento terrestre tra la Turchia e il Mar Caspio la cui piena realizzazione richiede il coinvolgimento della provincia armena di Syunik, da ottenere previa “normalizzazione” del governo armeno. Si tratta di un processo già avviato: sotto la guida di Nikol Pashinyan, l’Armenia ha implementato una transizione “scomposta” dall’orbita russa all’asse atlantista, culminata con l’esecuzione di esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti. A sua volta, il “Corridoio di Zangezur” andrebbe a integrarsi nel Transport Corridor Europe-Caucasus-Asia (Traceca) un progetto infrastrutturale che coinvolge l’Unione Europea più 14 Stati dell’’Europa orientale, del Caucaso e dell’Asia centrale. Un disegno ambizioso, che si pone in netta concorrenza con l’International North-South Transport Corridor (Instc), una rete internazionale multimodale che, correndo per circa 7.200 chilometri da San Pietroburgo a Mumbai attraverso Russia, Azerbaijan e Iran, si candida a fungere da linea di collegamento tra Europa, Golfo Persico ed Oceano Indiano alternativa al Canale di Suez.

Allineandosi alle ambizioni panturaniche di Ankara, il “Corridoio di Zangezur” e il Traceca si configurano come strumenti funzionali a elevare la Turchia al rango di snodo logistico e militare tra Europa e Asia centrale. Un fondamentale anello di congiunzione tra Occidente e Oriente in grado di veicolare l’influenza atlantista nel Caucaso e in Asia centrale, ridimensionando la Russia e marginalizzando l’Iran. Di qui il forte interesse degli Stati Uniti per il progetto, identificato come un mezzo per «superare situazioni di stallo decennali, diversificare l’approvvigionamento energetico dell’Europa dalla Russia e contrastare la crescente influenza di Mosca, Pechino e Teheran in una regione di transito critica. L’iniziativa riflette l’ambizione più ampia degli Stati Uniti di sfruttare un raro vuoto di potere nel Caucaso meridionale, una regione storicamente dominata dalla Russia ma ora pronta per un riallineamento dopo il netto fallimento di Mosca nel proteggere il suo alleato armeno durante l’offensiva dell’Azerbaijan». Il “Corridoio di Zangezur” sconta anche il silenzioso assenso del governo Netanyahu. A dispetto della retorica infuocata che Erdoğan riversa quotidianamente su Israele, la convergenza di interessi tra Ankara e Tel Aviv appare molto più sostanziale se osservata con uno sguardo disincantato.

Sconfitta sul campo di battaglia in Ucraina e incapace di rovesciare l’assetto politico e istituzionale in Iran, la compagine atlantista sembra insomma ripiegare sul “reclutamento” di Caucaso e Asia centrale. Crooke reputa che nella classe dirigente russa sia maturata la convinzione, in particolare dopo la strage del Crocus Hall perpetrata soprattutto da tajiki infiltrati tramite il Kazakistan, che i burattinai dello schieramento atlantista stiano cercando di trasformare l’Asia centrale in un avamposto in cui pianificare operazioni di destabilizzazione nei confronti dei Paesi “revisionisti”, che la National Intelligence statunitense indentifica in Cina, Russia, Iran e Corea del Nord. Si tratterebbe di un ritorno alle logiche del “Grande Gioco” ottocentesco narrato con impareggiabile maestria dal Peter Hopkirk.

Che cosa vuole ottenere il presidente azero Ilham Aliyev e nell’interesse di chi agisce questo Paese?

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Nel marzo 2023, il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian si recò in Turchia per esprimere solidarietà al Paese, duramente colpito pochi giorni prima da una serie di terremoti di rara intensità. Nel corso della conferenza stampa tenutasi assieme al suo omologo Mevlüt Çavuşoğlu a margine della visita, Abdollahian dichiarò: «consideriamo la presenza del regime sionista nella regione una grave minaccia alla pace e alla stabilità. Ovunque sia coinvolto questo regime, si sono verificate insicurezza e crisi. La Repubblica Islamica dell’Iran esorta le parti a prestare molta attenzione al comportamento del regime sionista. Non dovrebbero permetterne la presenza nella regione».

Il riferimento era rivolto alla riacutizzazione del conflitto incentrato sul Nagorno-Karabakh verificatasi circa due anni e mezzo addietro (27 settembre-10 novembre 2020), e in particolare al ruolo cruciale svolto da Israele. Nello specifico, lo Stato ebraico accordò all’Azerbaijan un sostegno più “discreto” rispetto a quello assicurato dalla Turchia ma non meno significativo. Si stima che le forniture israeliane abbiano coperto il 70% circa del fabbisogno bellico azero tra il 2016 e il 2020. Entro questa finestra temporale, i velivoli da trasporto di fabbricazione russa Ilyushin-76 in dotazione all’Azerbaijan hanno fatto la spola tra l’aeroporto di Ovda, nel sud di Israele, e quelli di Baku e Ganja (la seconda città più grande del Paese, appena a nord del Nagorno-Karabakh) almeno 92 volte. Tra l’1 e il 17 settembre 2020, si evince dai dati di tracciamento aereo reperibili su FlightRadar24.com, i cargo della compagnia di bandiera azera Silk Way Airlines hanno compiuto almeno sei viaggi tra Ovda e i due principali scali azeri. L’intensità dei voli è fortemente aumentata durante il conflitto. Armate di droni suicidi Harop, missili terra-aria Barak-8, bombe a grappolo Mo-95, sistemi anti-aerei, radar, proiettili di artiglieria e altro materiale militare messo a disposizione da Tel Aviv, le forze armate azere hanno inflitto una pesante sconfitta all’esercito armeno. E portato avanti, sempre grazie al determinante contributo israeliano, una vera e propria pulizia etnica del Nagorno-Karabakh.

La vicinanza di Israele a un Paese musulmano e situato a migliaia di km di distanza come l’Azerbaijan può apparire anomala, ma da un’analisi più approfondita risulta pienamente rispondente alle esigenze strategiche di entrambi gli attori.

Se Israele rappresenta fin dalle prime fasi del periodo post-sovietico un fornitore chiave di sistemi d’arma per l’Azerbaijan (a cui trasferì missili Stinger nella prima guerra del Nagorno-Karabakh), a sua volta quest’ultimo ha cominciato a svolgere un ruolo fondamentale nel garantire la sicurezza energetica di Israele già dagli anni ’80. Lo ha rivelato una fonte di spicco dell’intelligence israeliana, secondo cui il petrolio azero fluiva copiosamente verso Israele ancor prima che le relazioni diplomatiche venissero formalmente instaurate (1992). Naturalmente, gli idrocarburi azeri hanno continuato a sostenere l’economia israeliana anche negli anni difficili della Seconda Intifada, come riconosciuto dall’ambasciatore israeliano a Baku: «riteniamo che la vera amicizia venga messa alla prova nei momenti di bisogno, e penso che l’amicizia tra i nostri Paesi sia stata testata in quei momenti critici». Secondo «Israel Hayom», nel 2019 Israele ha coperto con importazioni dall’Azerbaijan il 60% del proprio fabbisogno di benzina. Nel 2024, con Israele impegnato in una guerra su più fronti e pertanto bisognoso di forniture addizionali e ininterrotte di energia, l’Azerbaijan ha aumentato le sue esportazioni di petrolio verso lo Stato ebraico del 55%. Nel luglio dello stesso anno, esponenti istituzionali di vertice di entrambi i Paesi hanno intavolato negoziati volti a «rafforzare la cooperazione regionale». Di fatto, ha sottolineato «Yedioth Ahronoth», «l’Azerbaijan è l’unico Paese musulmano al mondo a sostenere Israele nella guerra [su più fronti, nda]», come confermato dalla decisione della Azerbaijan Airlines di non sospendere, a differenza della stragrande maggioranza delle compagnie occidentali, i voli verso Israele. Risultato: il flusso turistico israeliano verso l’Azerbaijan è cresciuto del 50%. La natura di parte assai ragguardevole degli scambi bilaterali risulta peraltro coperta da segreto, come confermato da un cablogramma classificato reso pubblico da «WikiLeaks», in cui il consolato statunitense a Baku paragonava le relazioni fra Azerbaijan e Israele a «un iceberg, visto che come questi grandi blocchi di ghiaccio nasconde i nove decimi della sua consistenza sotto la superficie».

A riprova del fatto, evidenziato con forza dal ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen nell’ottobre 2024, che le relazioni bilaterali hanno raggiunto una dimensione strategica. Per Benjamin Netanyahu, che nel 1997 si recò in qualità di primo ministro in Azerbaijan per incontrare il presidente Heydar Aliyev e dare così un impulso significativo al partenariato strategico tra i due Paesi, la relazione strettamente collaborativa istituita sul piano bilaterale rappresenta «un esempio di come musulmani ed ebrei possano lavorare insieme per garantire un futuro migliore a entrambi». Due anni prima della visita di Netanyahu, il suo predecessore Yitzhak Rabin si era a sua volta confrontato con Aliyev a New York, richiamando la sua attenzione sul fatto che l’Azerbaijan «ha un confine molto lungo e teso con l’Iran» e proponendo collaborazione in materia di sicurezza. Più specificamente, l’Azerbaijan condivide una frontiera di 765 km con l’Iran, e gli azeri rappresentano la minoranza più numerosa della Repubblica Islamica, pari a circa il 20% della popolazione iraniana (17,7 milioni). Il governo di Teheran è inoltre storicamente collocato su posizioni di forte vicinanza all’Armenia cristiana, nemica giurata dell’Azerbaijan. Per Israele e Azerbaijan, osserva l’Institute for National Security Studies (Inss), l’Iran funge in altri termini da fattore unificante, poiché entrambi considerano la Repubblica Islamica alla stregua di una minaccia esistenziale. Secondo lo specialista in questioni di intelligence Yossi Melman, «apparentemente, Israele e Azerbaijan sono una strana e male assortita coppia, ma d’altra parte Israele non è mai troppo selettivo nella scelta degli amici quando si tratta di vendita di armi e interessi nazionali. Un rapido sguardo alla mappa mostra che l’Azerbaigian confina con l’Iran, nemico giurato di Israele», il quale ha puntualmente approfittato della diffidenza nutrita reciprocamente da Baku e Teheran con il consueto tempismo.

Lo si evince dalle rivelazioni rese già nel giugno 2006 a «Yedioth Ahronoth» da fonti interne al governo di Tel Aviv, secondo cui l’omogeneità etnica (azera) e religiosa (sciita) della regione situata a cavallo del confine azero-iraniano rendeva l’Azerbaijan un formidabile avamposto strategico da sfruttare nel contesto di un’eventuale operazione militare contro l’Iran. Nel dicembre dello stesso anno, il generale israeliano Oded Tira pose l’accento sulla necessità di «coordinare con l’Azerbaijan l’impiego di basi aeree sul suo territorio e ingraziarci il favore della minoranza azera in Iran». A due anni di distanza, il ministro degli Esteri Tzipi Livni riconobbe l’esistenza di «legami molto stretti tra Israele e Azerbaijan in settori strategicamente importanti come la sicurezza e la condivisione di intelligence». Il rapido consolidamento del rapporto tra Tel Aviv e Baku non era passato inosservato a Teheran. Il Washington Institute for Near East Policy, noto think-tank statunitense di ispirazione neoconservatrice, rilevava già nel 2005 che «da quando Ilham Aliyev [figlio di Heydar, nda] è diventato presidente nell’ottobre 2003, l’Iran ha avviato una campagna intimidatoria nei confronti dell’Azerbaijan. Un gruppo di alti ufficiali militari iraniani ha visitato Baku nell’agosto 2004, esortando l’Azerbaigian a cessare la cooperazione in materia di sicurezza con Israele e a non ricevere più ufficiali dell’esercito e dell’intelligence». Nel febbraio 2012, l’«Associated Press» evidenziò che l’Azerbaigian si era trasformato in un punto d’appoggio cruciale per l’intelligence israeliana, con decine di agenti operativi acquartierati all’interno dei confini azeri. Un mese dopo, «Foreign Policy» affermò che la partnership strategica bilaterale – confermata di lì a breve dal ministro della Difesa israeliano Moshe Ya’alon nel corso di una visita a Baku – aveva ormai raggiunto un livello di profondità tale che «se i velivoli israeliani intendessero atterrare in Azerbaijan dopo un attacco all’Iran, probabilmente otterrebbero l’autorizzazione da Baku. Israele è profondamente radicato in Azerbaijan, e lo è da vent’anni». Secondo il Besa Center israeliano, «nel prossimo futuro, è probabile che le relazioni azero-israeliane si intensificheranno ulteriormente in settori quali la cooperazione scientifica, l’informatica, la medicina, la depurazione delle acque, l’agricoltura e gli scambi culturali. Ancora più importante, la cooperazione strategica nei settori della difesa e dell’intelligence, nonché nella lotta al terrorismo, ha dimostrato che due piccoli Paesi situati in un Medio Oriente allargato possono trovare la combinazione ideale per instaurare una relazione simbiotica di successo in un contesto di elevata insicurezza».

In seguito alla seconda guerra del Nagorno-Karabakh, le tensioni tra Baku e Teheran sono prevedibilmente salite alle stelle. Anzitutto perché, come osservato dall’ex direttore della divisione ricerca dell’Aman Yossi Kuperwasser, l’incorporazione de facto dell’Artsakh ad opera dell’Azerbaijan esponeva ancor di più il fianco iraniano alle operazioni israeliane realizzabili dal territorio azero, orientate a fomentare il separatismo in seno alla popolazione azera dell’Iran. O a destabilizzarlo attraverso altre forme. Non pochi sospetti sono sorti riguardo al misterioso incidente in elicottero verificatosi il 19 maggio 2024, costato la vita al presidente Ebrahim Raisi e al ministro degli Esteri Amir Abdollahian. L’episodio si è consumato nei pressi di Uzi, nella provincia iraniana dell’Azerbaijan orientale, a seguito di una visita ufficiale a Baku. A riprova del fatto che «la cooperazione in materia di intelligence tra Israele e Azerbaijan pone il regime degli Ayatollah in una posizione difficile», incalzava «Israel Hayom» nell’aprile del 2021.

La correttezza della valutazione espressa dal quotidiano israeliano è emersa con limpidezza con l’Operazione Rising Lion, sferrata da Israele lo scorso giugno al culmine di un lungo e meticoloso periodo di preparazione. L’azione si sarebbe dispiegata anzitutto con una serie di attacchi informatici contro le difese aeree iraniane. Le batterie antimissilistiche collocate nelle aree più occidentali della Repubblica Islamica sono state quindi bersagliate con missili balistici guidati dal sistema statunitense Battlescape che erano stati preposizionati dai servizi di intelligence israeliani attraverso il Kurdistan iracheno, di cui il Mossad si è servito come retroterra logistico anche per allestire una vasta rete di collusione interna – formata da afghani, baluci, membri del Mek, ecc. – all’Iran preposta alla produzione in loco di droni e al loro impiego contro obiettivi sia civili che militari. Secondo la ricostruzione formulata dal sempre ben informato Alastair Crooke, ex diplomatico britannico dotato di agganci di alto livello in Medio Oriente, uno sciame di droni sarebbe penetrato in territorio iraniano dall’Azerbaijan, che potrebbe anche aver fornito un contributo in materia di infiltrazione paragonabile a quello apportato dal Kurdistan iracheno. Nel corso di una conversazione telefonica, il ministro degli Esteri azero Jeyhun Bayramov ha assicurato al suo omologo iraniano Abbas Araghchi la totale estraneità dell’Azerbaijan rispetto all’Operazione Rising Lion, spiegando che Baku «non permetterà mai che il suo spazio aereo o il suo suolo servano da rampa di lancio per operazioni contro l’Iran o qualsiasi altro Paese». Il presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha in ogni caso sollecitato un’indagine da parte del governo azero, volta a fugare qualsiasi dubbio.

Significativamente, a Mosca sono sorti sospetti dello stesso tenore. L’ipotesi è che gli azeri dotati di passaporto russo e connessi a ben strutturate reti malavitose tratti in arresto dall’Fsb alla fine di giugno nell’ambito di una imponente retata possano aver agevolato l’infiltrazione e/o il reclutamento di elementi coinvolti nell’Operazione Spiderweb, implicante l’attacco coordinato a diverse basi militari che ospitavano bombardieri strategici russi pianificato dai servizi ucraini. All’operazione condotta dall’Fsb, a cui il governo di Aliyev ha riposto con inaspettata durezza, Mosca ha affiancato un poderoso attacco missilistico condotto contro un impianto ucraino che raffinava petrolio azero. Il messaggio è chiarissimo: Baku sta giocando con il fuoco. Nella fattispecie, prestandosi alle macchinazioni della Turchia, altro alleato di ferro dell’Azerbaijan e sostenitore di Baku nel secondo conflitto del Nagorno-Karabakh. Nell’ottica di Ankara, il passaggio dell’Artsakh sotto il pieno controllo di Baku apre il varco alla realizzazione del cosiddetto “Corridoio di Zangezur”, un collegamento terrestre tra la Turchia e il Mar Caspio la cui piena realizzazione richiede il coinvolgimento della provincia armena di Syunik, da ottenere previa “normalizzazione” del governo armeno. Si tratta di un processo già avviato: sotto la guida di Nikol Pashinyan, l’Armenia ha implementato una transizione “scomposta” dall’orbita russa all’asse atlantista, culminata con l’esecuzione di esercitazioni militari congiunte con gli Stati Uniti. A sua volta, il “Corridoio di Zangezur” andrebbe a integrarsi nel Transport Corridor Europe-Caucasus-Asia (Traceca) un progetto infrastrutturale che coinvolge l’Unione Europea più 14 Stati dell’’Europa orientale, del Caucaso e dell’Asia centrale. Un disegno ambizioso, che si pone in netta concorrenza con l’International North-South Transport Corridor (Instc), una rete internazionale multimodale che, correndo per circa 7.200 chilometri da San Pietroburgo a Mumbai attraverso Russia, Azerbaijan e Iran, si candida a fungere da linea di collegamento tra Europa, Golfo Persico ed Oceano Indiano alternativa al Canale di Suez.

Allineandosi alle ambizioni panturaniche di Ankara, il “Corridoio di Zangezur” e il Traceca si configurano come strumenti funzionali a elevare la Turchia al rango di snodo logistico e militare tra Europa e Asia centrale. Un fondamentale anello di congiunzione tra Occidente e Oriente in grado di veicolare l’influenza atlantista nel Caucaso e in Asia centrale, ridimensionando la Russia e marginalizzando l’Iran. Di qui il forte interesse degli Stati Uniti per il progetto, identificato come un mezzo per «superare situazioni di stallo decennali, diversificare l’approvvigionamento energetico dell’Europa dalla Russia e contrastare la crescente influenza di Mosca, Pechino e Teheran in una regione di transito critica. L’iniziativa riflette l’ambizione più ampia degli Stati Uniti di sfruttare un raro vuoto di potere nel Caucaso meridionale, una regione storicamente dominata dalla Russia ma ora pronta per un riallineamento dopo il netto fallimento di Mosca nel proteggere il suo alleato armeno durante l’offensiva dell’Azerbaijan». Il “Corridoio di Zangezur” sconta anche il silenzioso assenso del governo Netanyahu. A dispetto della retorica infuocata che Erdoğan riversa quotidianamente su Israele, la convergenza di interessi tra Ankara e Tel Aviv appare molto più sostanziale se osservata con uno sguardo disincantato.

Sconfitta sul campo di battaglia in Ucraina e incapace di rovesciare l’assetto politico e istituzionale in Iran, la compagine atlantista sembra insomma ripiegare sul “reclutamento” di Caucaso e Asia centrale. Crooke reputa che nella classe dirigente russa sia maturata la convinzione, in particolare dopo la strage del Crocus Hall perpetrata soprattutto da tajiki infiltrati tramite il Kazakistan, che i burattinai dello schieramento atlantista stiano cercando di trasformare l’Asia centrale in un avamposto in cui pianificare operazioni di destabilizzazione nei confronti dei Paesi “revisionisti”, che la National Intelligence statunitense indentifica in Cina, Russia, Iran e Corea del Nord. Si tratterebbe di un ritorno alle logiche del “Grande Gioco” ottocentesco narrato con impareggiabile maestria dal Peter Hopkirk.

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July 24, 2025

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