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Stefano Vernole
June 20, 2025
© Photo: Public domain

L’Iran è la chiave per l’equilibrio di potenza multipolare in Medio Oriente

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Come segnalato poche settimane fa, la D.I.A. statunitense aveva messo nel mirino l’Iran.

Sintetizzando il rapporto le ragioni erano queste: l’Iran possiede capacità di ritorsione diretta e non solo per procura tramite l’Asse della Resistenza in Medio Oriente; l’Iran sviluppa capacità missilistiche e di droni importanti; l’Iran ha ambizioni nucleari, pur essendo ancora lontano dal possibile sviluppo di una bomba atomica. Su quest’ultimo argomento, Donald Trump (idolo dei “furboni” no global) ha seccamente smentito il capo della comunità dei servizi segreti statunitensi, Tulsi Gabbard, affermando: “Non mi interessa cosa ha detto. Penso che fossero molto vicini ad averne una”.

In realtà, nel rapporto dell’agenzia d’intelligence di Washington erano le motivazioni geopolitiche ad apparire preponderanti. La cooperazione dell’Iran con Russia, Cina e Corea del Nord meritava dal punto di vista statunitense un inasprimento delle sanzioni economiche, visto che la messa in funzione del corridoio ferroviario tra Teheran e Pechino permetteva il trasporto del petrolio in 15 giorni anziché in 40 e consentiva di bypassare lo Stretto di Malacca a rischio chiusura in caso di conflitto per Taiwan.

Non a caso, gli analisti militari cinesi hanno da subito posto la loro attenzione sull’aggressione di Israele all’Iran e ne hanno tratto considerazioni non certo incoraggianti: una grave infiltrazione dei servizi segreti sionisti nella catena di comando iraniana con perdite militari pesanti (quelle subite dagli Houthi nello Yemen non sono nemmeno lontanamente paragonabili); una difesa antiaerea iraniana inefficace; mancanza di allerta e preparazione a causa di una certa indolenza dei vertici iraniani; fallimento della politica di deterrenza iraniana; crisi totale del tentativo riformista economico iniziato con Raisi e poi frantumatosi sia a causa della morte dell’ex Presidente iraniano (difficile oggi pensare ad un incidente) sia a causa dell’instabilità regionale provocata da Israele con la caduta di Assad, l’attacco al Libano e il genocidio dei palestinesi [1].

Naturalmente, Cina, Russia, Turchia e Paesi del Golfo Persico, Arabia Saudita in primis, hanno duramente condannato l’attacco militare israeliano e vorrebbero salvare il Governo di Teheran dal “change regime” evocato da Londra, Washington e Tel Aviv.  La Gran Bretagna ha messo le sue basi militari a disposizione dell’aviazione israeliana, trasformando così il territorio britannico in una zona di preparazione diretta per le operazioni contro l’Iran, fornendo a Tel Aviv oltre alle basi aeree anche i suoi servizi di intelligence. Elon Musk ha attivato il sistema satellitare Starlink sopra l’Iran, conferendo alla coalizione occidentale un vantaggio cruciale in materia di comunicazione e navigazione dati, mentre la portaerei statunitense Nimitz dal Mar Cinese Meridionale si sta spostando verso il Golfo Persico. L’Occidente nel suo complesso, con il comunicato del G7 ha fornito una legittimazione formale e “morale” al rovesciamento dell’attuale Governo iraniano.

La modalità dell’aggressione militare israeliana è identica sia tecnicamente (lancio di droni all’interno del Paese) sia politicamente (mentre l’Iran stava trattando con gli USA) a quella dell’attacco ucraino contro i siti nucleari e le basi russe poche settimane fa: la mano è evidentemente la stessa.

Per la Russia, il cui accordo di partenariato strategico con l’Iran è stato avallato dallo stesso Vladimir Putin lo scorso 21 aprile ma da Teheran solo pochi giorni fa, una disfatta degli Ayatollah sarebbe un disastro geopolitico molto più grave della caduta di Assad in Siria. L’Iran gioca un ruolo essenziale nel balance of power in Medio Oriente ed è un alleato indispensabile nella resistenza alla dominazione globale occidentale; in particolare, verrebbe meno l’equilibrio strategico nel Mar Caspio e si minaccerebbero gli interessi di Mosca nel settore energetico a favore degli Stati Uniti che vogliono esportare il proprio gas naturale liquefatto.

Un crollo dell’Iran, inoltre, significherebbe: l’affondamento del sistema di alleanze regionali di Mosca; il dominio totale dell’Occidente nella regione; l’isolamento della Russia e dei suoi principali partners. La perdita dell’Iran, membro dei BRICS, diverrebbe una catastrofe geopolitica per il multipolarismo e avallerebbe la capacità occidentale di risolvere con la forza tutte le proprie contraddizioni geopolitiche. La visione di lungo periodo delineata da Brzezinski negli anni Novanta e dai Neocons statunitensi dopo l’11 settembre 2001 si compirebbe quasi definitivamente.

Da parte sua, Benjamin Netanyahu allontanerebbe da sé ogni rischio di messa in discussione a causa dei suoi evidenti crimini, divenendo il simbolo della vittoria atlantista in Medio Oriente.

La Cina, anch’essa depositaria di un accordo di partenariato strategico con l’Iran e dipendente in maniera importante dal petrolio iraniano (circa il 90% di quello che transita dallo Stretto di Hormuz va in direzione di Pechino), non può permettersi di perdere un partner indispensabile per le proprie ambizioni geopolitiche.

Cosa può succedere ora? Se fallisce, come appare ormai evidente, il tentativo di mediazione diplomatica dei Paesi dell’Eurasia e degli Stati vicini, l’escalation diventa inevitabile.

Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele, con il pieno consenso dei loro vassalli europei, stanno cercando attori locali in grado di sostituire Khamenei e condurre l’Iran verso una linea di rottura con Mosca e Pechino. L’attuale leadership di Teheran, se percepisce il pericolo di rovesciamento che può verificarsi se gli Stati Uniti entreranno direttamente in campo con le proprie forze belliche, non avrà altra soluzione che alzare il prezzo del conflitto superando ogni “linea rossa”. Mobilitare l’Asse della Resistenza, chiudere lo Stretto di Hormuz al passaggio delle navi (con consenso di Pechino ormai rassegnata ad una guerra totale nella regione) e cambiare l’inerzia della battaglia con un intervento via terra dal Libano e dall’Iraq, rappresentano le uniche carte a sua disposizione visto il dominio totale dei cieli da parte israeliana.

Rimangono diverse incognite. Certamente, la Cina non interverrebbe direttamente (ugualmente farebbe la Russia impegnata in Ucraina) ma potrebbe aiutare l’Iran con forniture militari e spingendo il Pakistan a scendere in campo in prima persona (il Ministro della Difesa pakistano non ha solo manifestato immediata solidarietà a Teheran ma si è detto pronto ad attaccare Israele in caso di intervento militare statunitense contro l’Iran). Islamabad, unica potenza atomica islamica, fornirebbe un aiuto indispensabile e potrebbe incentivare anche l’Egitto e la Turchia (le cui leadership rimangono nel mirino di Tel Aviv in un futuro non troppo lontano) ad alzare il livello della loro pressione contro Israele. Resta da capire, se questo intricato effetto domino non coinvolgerebbe anche altri attori globali, a partire dall’India, in cerca di rivincita dopo lo scacco subito nella battaglia aerea susseguente alla crisi del Kashmir.

La Terza Guerra Mondiale, evocata in queste ore da Steve Bannon e Tucker Carlson, è forse più vicina di quanto immaginiamo?

[1] Wang Shichun, L’Iran sarà la seconda Siria di Assad?, guancha.cn, 14 giugno 2025. L’analista militare cinese rileva anche uno scontro interno all’apparato iraniano tra la posizione della Guida Suprema Khamenei, la linea mediana di Pezeshkian che attribuisce buona parte della corruzione del Paese alle Guardie Rivoluzionarie e quella dei liberali che vorrebbero privatizzare totalmente l’economia.

L’Iran è la chiave per l’equilibrio di potenza multipolare in Medio Oriente

L’Iran è la chiave per l’equilibrio di potenza multipolare in Medio Oriente

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Come segnalato poche settimane fa, la D.I.A. statunitense aveva messo nel mirino l’Iran.

Sintetizzando il rapporto le ragioni erano queste: l’Iran possiede capacità di ritorsione diretta e non solo per procura tramite l’Asse della Resistenza in Medio Oriente; l’Iran sviluppa capacità missilistiche e di droni importanti; l’Iran ha ambizioni nucleari, pur essendo ancora lontano dal possibile sviluppo di una bomba atomica. Su quest’ultimo argomento, Donald Trump (idolo dei “furboni” no global) ha seccamente smentito il capo della comunità dei servizi segreti statunitensi, Tulsi Gabbard, affermando: “Non mi interessa cosa ha detto. Penso che fossero molto vicini ad averne una”.

In realtà, nel rapporto dell’agenzia d’intelligence di Washington erano le motivazioni geopolitiche ad apparire preponderanti. La cooperazione dell’Iran con Russia, Cina e Corea del Nord meritava dal punto di vista statunitense un inasprimento delle sanzioni economiche, visto che la messa in funzione del corridoio ferroviario tra Teheran e Pechino permetteva il trasporto del petrolio in 15 giorni anziché in 40 e consentiva di bypassare lo Stretto di Malacca a rischio chiusura in caso di conflitto per Taiwan.

Non a caso, gli analisti militari cinesi hanno da subito posto la loro attenzione sull’aggressione di Israele all’Iran e ne hanno tratto considerazioni non certo incoraggianti: una grave infiltrazione dei servizi segreti sionisti nella catena di comando iraniana con perdite militari pesanti (quelle subite dagli Houthi nello Yemen non sono nemmeno lontanamente paragonabili); una difesa antiaerea iraniana inefficace; mancanza di allerta e preparazione a causa di una certa indolenza dei vertici iraniani; fallimento della politica di deterrenza iraniana; crisi totale del tentativo riformista economico iniziato con Raisi e poi frantumatosi sia a causa della morte dell’ex Presidente iraniano (difficile oggi pensare ad un incidente) sia a causa dell’instabilità regionale provocata da Israele con la caduta di Assad, l’attacco al Libano e il genocidio dei palestinesi [1].

Naturalmente, Cina, Russia, Turchia e Paesi del Golfo Persico, Arabia Saudita in primis, hanno duramente condannato l’attacco militare israeliano e vorrebbero salvare il Governo di Teheran dal “change regime” evocato da Londra, Washington e Tel Aviv.  La Gran Bretagna ha messo le sue basi militari a disposizione dell’aviazione israeliana, trasformando così il territorio britannico in una zona di preparazione diretta per le operazioni contro l’Iran, fornendo a Tel Aviv oltre alle basi aeree anche i suoi servizi di intelligence. Elon Musk ha attivato il sistema satellitare Starlink sopra l’Iran, conferendo alla coalizione occidentale un vantaggio cruciale in materia di comunicazione e navigazione dati, mentre la portaerei statunitense Nimitz dal Mar Cinese Meridionale si sta spostando verso il Golfo Persico. L’Occidente nel suo complesso, con il comunicato del G7 ha fornito una legittimazione formale e “morale” al rovesciamento dell’attuale Governo iraniano.

La modalità dell’aggressione militare israeliana è identica sia tecnicamente (lancio di droni all’interno del Paese) sia politicamente (mentre l’Iran stava trattando con gli USA) a quella dell’attacco ucraino contro i siti nucleari e le basi russe poche settimane fa: la mano è evidentemente la stessa.

Per la Russia, il cui accordo di partenariato strategico con l’Iran è stato avallato dallo stesso Vladimir Putin lo scorso 21 aprile ma da Teheran solo pochi giorni fa, una disfatta degli Ayatollah sarebbe un disastro geopolitico molto più grave della caduta di Assad in Siria. L’Iran gioca un ruolo essenziale nel balance of power in Medio Oriente ed è un alleato indispensabile nella resistenza alla dominazione globale occidentale; in particolare, verrebbe meno l’equilibrio strategico nel Mar Caspio e si minaccerebbero gli interessi di Mosca nel settore energetico a favore degli Stati Uniti che vogliono esportare il proprio gas naturale liquefatto.

Un crollo dell’Iran, inoltre, significherebbe: l’affondamento del sistema di alleanze regionali di Mosca; il dominio totale dell’Occidente nella regione; l’isolamento della Russia e dei suoi principali partners. La perdita dell’Iran, membro dei BRICS, diverrebbe una catastrofe geopolitica per il multipolarismo e avallerebbe la capacità occidentale di risolvere con la forza tutte le proprie contraddizioni geopolitiche. La visione di lungo periodo delineata da Brzezinski negli anni Novanta e dai Neocons statunitensi dopo l’11 settembre 2001 si compirebbe quasi definitivamente.

Da parte sua, Benjamin Netanyahu allontanerebbe da sé ogni rischio di messa in discussione a causa dei suoi evidenti crimini, divenendo il simbolo della vittoria atlantista in Medio Oriente.

La Cina, anch’essa depositaria di un accordo di partenariato strategico con l’Iran e dipendente in maniera importante dal petrolio iraniano (circa il 90% di quello che transita dallo Stretto di Hormuz va in direzione di Pechino), non può permettersi di perdere un partner indispensabile per le proprie ambizioni geopolitiche.

Cosa può succedere ora? Se fallisce, come appare ormai evidente, il tentativo di mediazione diplomatica dei Paesi dell’Eurasia e degli Stati vicini, l’escalation diventa inevitabile.

Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele, con il pieno consenso dei loro vassalli europei, stanno cercando attori locali in grado di sostituire Khamenei e condurre l’Iran verso una linea di rottura con Mosca e Pechino. L’attuale leadership di Teheran, se percepisce il pericolo di rovesciamento che può verificarsi se gli Stati Uniti entreranno direttamente in campo con le proprie forze belliche, non avrà altra soluzione che alzare il prezzo del conflitto superando ogni “linea rossa”. Mobilitare l’Asse della Resistenza, chiudere lo Stretto di Hormuz al passaggio delle navi (con consenso di Pechino ormai rassegnata ad una guerra totale nella regione) e cambiare l’inerzia della battaglia con un intervento via terra dal Libano e dall’Iraq, rappresentano le uniche carte a sua disposizione visto il dominio totale dei cieli da parte israeliana.

Rimangono diverse incognite. Certamente, la Cina non interverrebbe direttamente (ugualmente farebbe la Russia impegnata in Ucraina) ma potrebbe aiutare l’Iran con forniture militari e spingendo il Pakistan a scendere in campo in prima persona (il Ministro della Difesa pakistano non ha solo manifestato immediata solidarietà a Teheran ma si è detto pronto ad attaccare Israele in caso di intervento militare statunitense contro l’Iran). Islamabad, unica potenza atomica islamica, fornirebbe un aiuto indispensabile e potrebbe incentivare anche l’Egitto e la Turchia (le cui leadership rimangono nel mirino di Tel Aviv in un futuro non troppo lontano) ad alzare il livello della loro pressione contro Israele. Resta da capire, se questo intricato effetto domino non coinvolgerebbe anche altri attori globali, a partire dall’India, in cerca di rivincita dopo lo scacco subito nella battaglia aerea susseguente alla crisi del Kashmir.

La Terza Guerra Mondiale, evocata in queste ore da Steve Bannon e Tucker Carlson, è forse più vicina di quanto immaginiamo?

[1] Wang Shichun, L’Iran sarà la seconda Siria di Assad?, guancha.cn, 14 giugno 2025. L’analista militare cinese rileva anche uno scontro interno all’apparato iraniano tra la posizione della Guida Suprema Khamenei, la linea mediana di Pezeshkian che attribuisce buona parte della corruzione del Paese alle Guardie Rivoluzionarie e quella dei liberali che vorrebbero privatizzare totalmente l’economia.

L’Iran è la chiave per l’equilibrio di potenza multipolare in Medio Oriente

Segue nostro Telegram.

Come segnalato poche settimane fa, la D.I.A. statunitense aveva messo nel mirino l’Iran.

Sintetizzando il rapporto le ragioni erano queste: l’Iran possiede capacità di ritorsione diretta e non solo per procura tramite l’Asse della Resistenza in Medio Oriente; l’Iran sviluppa capacità missilistiche e di droni importanti; l’Iran ha ambizioni nucleari, pur essendo ancora lontano dal possibile sviluppo di una bomba atomica. Su quest’ultimo argomento, Donald Trump (idolo dei “furboni” no global) ha seccamente smentito il capo della comunità dei servizi segreti statunitensi, Tulsi Gabbard, affermando: “Non mi interessa cosa ha detto. Penso che fossero molto vicini ad averne una”.

In realtà, nel rapporto dell’agenzia d’intelligence di Washington erano le motivazioni geopolitiche ad apparire preponderanti. La cooperazione dell’Iran con Russia, Cina e Corea del Nord meritava dal punto di vista statunitense un inasprimento delle sanzioni economiche, visto che la messa in funzione del corridoio ferroviario tra Teheran e Pechino permetteva il trasporto del petrolio in 15 giorni anziché in 40 e consentiva di bypassare lo Stretto di Malacca a rischio chiusura in caso di conflitto per Taiwan.

Non a caso, gli analisti militari cinesi hanno da subito posto la loro attenzione sull’aggressione di Israele all’Iran e ne hanno tratto considerazioni non certo incoraggianti: una grave infiltrazione dei servizi segreti sionisti nella catena di comando iraniana con perdite militari pesanti (quelle subite dagli Houthi nello Yemen non sono nemmeno lontanamente paragonabili); una difesa antiaerea iraniana inefficace; mancanza di allerta e preparazione a causa di una certa indolenza dei vertici iraniani; fallimento della politica di deterrenza iraniana; crisi totale del tentativo riformista economico iniziato con Raisi e poi frantumatosi sia a causa della morte dell’ex Presidente iraniano (difficile oggi pensare ad un incidente) sia a causa dell’instabilità regionale provocata da Israele con la caduta di Assad, l’attacco al Libano e il genocidio dei palestinesi [1].

Naturalmente, Cina, Russia, Turchia e Paesi del Golfo Persico, Arabia Saudita in primis, hanno duramente condannato l’attacco militare israeliano e vorrebbero salvare il Governo di Teheran dal “change regime” evocato da Londra, Washington e Tel Aviv.  La Gran Bretagna ha messo le sue basi militari a disposizione dell’aviazione israeliana, trasformando così il territorio britannico in una zona di preparazione diretta per le operazioni contro l’Iran, fornendo a Tel Aviv oltre alle basi aeree anche i suoi servizi di intelligence. Elon Musk ha attivato il sistema satellitare Starlink sopra l’Iran, conferendo alla coalizione occidentale un vantaggio cruciale in materia di comunicazione e navigazione dati, mentre la portaerei statunitense Nimitz dal Mar Cinese Meridionale si sta spostando verso il Golfo Persico. L’Occidente nel suo complesso, con il comunicato del G7 ha fornito una legittimazione formale e “morale” al rovesciamento dell’attuale Governo iraniano.

La modalità dell’aggressione militare israeliana è identica sia tecnicamente (lancio di droni all’interno del Paese) sia politicamente (mentre l’Iran stava trattando con gli USA) a quella dell’attacco ucraino contro i siti nucleari e le basi russe poche settimane fa: la mano è evidentemente la stessa.

Per la Russia, il cui accordo di partenariato strategico con l’Iran è stato avallato dallo stesso Vladimir Putin lo scorso 21 aprile ma da Teheran solo pochi giorni fa, una disfatta degli Ayatollah sarebbe un disastro geopolitico molto più grave della caduta di Assad in Siria. L’Iran gioca un ruolo essenziale nel balance of power in Medio Oriente ed è un alleato indispensabile nella resistenza alla dominazione globale occidentale; in particolare, verrebbe meno l’equilibrio strategico nel Mar Caspio e si minaccerebbero gli interessi di Mosca nel settore energetico a favore degli Stati Uniti che vogliono esportare il proprio gas naturale liquefatto.

Un crollo dell’Iran, inoltre, significherebbe: l’affondamento del sistema di alleanze regionali di Mosca; il dominio totale dell’Occidente nella regione; l’isolamento della Russia e dei suoi principali partners. La perdita dell’Iran, membro dei BRICS, diverrebbe una catastrofe geopolitica per il multipolarismo e avallerebbe la capacità occidentale di risolvere con la forza tutte le proprie contraddizioni geopolitiche. La visione di lungo periodo delineata da Brzezinski negli anni Novanta e dai Neocons statunitensi dopo l’11 settembre 2001 si compirebbe quasi definitivamente.

Da parte sua, Benjamin Netanyahu allontanerebbe da sé ogni rischio di messa in discussione a causa dei suoi evidenti crimini, divenendo il simbolo della vittoria atlantista in Medio Oriente.

La Cina, anch’essa depositaria di un accordo di partenariato strategico con l’Iran e dipendente in maniera importante dal petrolio iraniano (circa il 90% di quello che transita dallo Stretto di Hormuz va in direzione di Pechino), non può permettersi di perdere un partner indispensabile per le proprie ambizioni geopolitiche.

Cosa può succedere ora? Se fallisce, come appare ormai evidente, il tentativo di mediazione diplomatica dei Paesi dell’Eurasia e degli Stati vicini, l’escalation diventa inevitabile.

Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele, con il pieno consenso dei loro vassalli europei, stanno cercando attori locali in grado di sostituire Khamenei e condurre l’Iran verso una linea di rottura con Mosca e Pechino. L’attuale leadership di Teheran, se percepisce il pericolo di rovesciamento che può verificarsi se gli Stati Uniti entreranno direttamente in campo con le proprie forze belliche, non avrà altra soluzione che alzare il prezzo del conflitto superando ogni “linea rossa”. Mobilitare l’Asse della Resistenza, chiudere lo Stretto di Hormuz al passaggio delle navi (con consenso di Pechino ormai rassegnata ad una guerra totale nella regione) e cambiare l’inerzia della battaglia con un intervento via terra dal Libano e dall’Iraq, rappresentano le uniche carte a sua disposizione visto il dominio totale dei cieli da parte israeliana.

Rimangono diverse incognite. Certamente, la Cina non interverrebbe direttamente (ugualmente farebbe la Russia impegnata in Ucraina) ma potrebbe aiutare l’Iran con forniture militari e spingendo il Pakistan a scendere in campo in prima persona (il Ministro della Difesa pakistano non ha solo manifestato immediata solidarietà a Teheran ma si è detto pronto ad attaccare Israele in caso di intervento militare statunitense contro l’Iran). Islamabad, unica potenza atomica islamica, fornirebbe un aiuto indispensabile e potrebbe incentivare anche l’Egitto e la Turchia (le cui leadership rimangono nel mirino di Tel Aviv in un futuro non troppo lontano) ad alzare il livello della loro pressione contro Israele. Resta da capire, se questo intricato effetto domino non coinvolgerebbe anche altri attori globali, a partire dall’India, in cerca di rivincita dopo lo scacco subito nella battaglia aerea susseguente alla crisi del Kashmir.

La Terza Guerra Mondiale, evocata in queste ore da Steve Bannon e Tucker Carlson, è forse più vicina di quanto immaginiamo?

[1] Wang Shichun, L’Iran sarà la seconda Siria di Assad?, guancha.cn, 14 giugno 2025. L’analista militare cinese rileva anche uno scontro interno all’apparato iraniano tra la posizione della Guida Suprema Khamenei, la linea mediana di Pezeshkian che attribuisce buona parte della corruzione del Paese alle Guardie Rivoluzionarie e quella dei liberali che vorrebbero privatizzare totalmente l’economia.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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