Non importa quale amministrazione sia al governo, la cosa certa è che il “mondo libero americano” sarà sempre pronto a scatenare un conflitto con “l’Iran tirannico e oppressore”.
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Ci risiamo, di nuovo
Era solo questione di tempo: gli Stati Uniti d’America hanno rilanciato la loro retorica aggressiva contro l’Iran, rilanciando le provocazioni belliche.
Le pretese per rilanciare il fronte sono già note. A creare problemi agli USA che si trovano a 12’000 chilometri di distanza dall’Iran questa volta è la questione delle armi nucleari. I cani da guardia del mondo intero si sentono in dovere di abbaiare ogni volta che qualcuno fa qualcosa di diverso da quello che vogliono loro.
La provocazioni americane sono state fatte alla luce degli sviluppi nello Yemen, dove la Resistenza continua, seppur faticosamente, a infliggere duri colpi alle mire egemoniche americane, creando difficoltà anche ad Israele. Perché, non dimentichiamocelo, le rotte commerciali che passano per il Golfo di Aden e il Mar Rosso sono soprattutto utili a Israele, anzi sono fondamentali per il sostentamento interno e per la gestione dei traffici nel Mediterraneo verso l’intera Europa.
“L’Iran non ha nessuna intenzione di costruire armi atomiche, a meno che gli Stati Uniti non ci obblighino a farlo”. Questo è il messaggio recapitato da Teheran a Donald Trump, che negli ultimi giorni ha minacciato di bombardare la Repubblica Islamica nel caso in cui non si raggiunga un accordo sul suo programma nucleare. L’inviato speciale di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, si è offerto di visitare Teheran o di incontrare funzionari del governo iraniano in un paese neutrale; l’Iran ha respinto la proposta, affermando che Witkoff è una “persona irrilevante” e che l’Iran “non è interessato” a incontrare direttamente gli americani.
Si tenga presente che il costo totale dell’operazione militare statunitense contro gli Houthi sostenuti dall’Iran nello Yemen, si sta avvicinando a 1 miliardo di dollari in poco meno di tre settimane, e non c’è stato nemmeno un significativo danno. La resistenza yemenita è forte e inarrestabile.
Nel frattempo, Netanyahu è pronto a incontrare Trump per discutere sul da farsi, anche sul problema dei nuovi dazi che al 17% colpiscono anche i prodotti israeliani. Come ha commentato l’ex operativo CIA Philip Giraldi, « È difficile da credere, ma in base alle prime dieci settimane al potere, l’amministrazione Trump ha in realtà peggiorato la situazione per gli americani rispetto a quella di Biden, a causa delle continue minacce di occupare altri paesi, di imporre pesanti dazi sulle merci importate e di punire nazioni come la Russia e l’Iran se non accettano le condizioni stabilite dal nuovo presidente».
Pare però che si stia aprendo un qualche spiraglio di trattativa, mossa saggia per esplorare le reazioni degli altri Stati che stanno osservando. Come riporta Reuters, « L’Iran sta respingendo l’aut aut degli Stati Uniti, negoziati diretti sul suo programma nucleare o essere bombardato, avvertendo i vicini che ospitano basi statunitensi che potrebbero essere sulla linea di fuoco se coinvolti, ha detto un alto funzionario iraniano. Sebbene l’Iran abbia respinto la richiesta del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di colloqui diretti, vuole continuare i negoziati indiretti attraverso l’Oman, un canale di lunga data per i messaggi tra gli stati rivali […] L’Iran ha emesso avvisi a Iraq, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Turchia e Bahrein che qualsiasi sostegno a un attacco degli Stati Uniti contro l’Iran, incluso l’uso del loro spazio aereo o del loro territorio da parte dell’esercito statunitense durante un attacco, sarebbe considerato un atto di ostilità».
Le richieste iraniane per un nuovo accordo nucleare con gli Stati Uniti sono fondamentalmente le seguenti:
- L’accordo deve essere un trattato ufficiale, ratificato dal Congresso degli Stati Uniti, in modo che un futuro presidente americano non possa ritirarsi unilateralmente (come ha fatto Trump).
- Prima che inizino i negoziati, gli USA devono rimuovere le sanzioni al settore medico iraniano e ad altri. Dopo la firma dell’accordo, ci deve essere una TOTALE riduzione delle sanzioni, il che significa che tutte le sanzioni devono essere rimosse, non solo alcune.
- In caso di ritiro degli Stati Uniti dall’accordo, l’Iran ha il diritto di applicare immediatamente una clausola di “snap-back”: installare centrifughe avanzate, iniziare l’arricchimento rapido dell’uranio e aumentare le scorte.
- All’Iran deve essere consentito di riconnettersi al sistema di pagamento SWIFT per poter effettuare transazioni internazionali.
- All’Iran sarà consentito di mantenere il suo programma nucleare, compreso l’arricchimento avanzato per “scopi di ricerca”.
- Non ci saranno negoziati né limitazioni al programma missilistico balistico dell’Iran né al sostegno ai gruppi regionali.
- I beni finanziari iraniani congelati all’estero devono essere sbloccati.
Se uno qualsiasi di questi punti non viene concordato, la probabilità di un nuovo accordo nucleare è estremamente improbabile. Molte di queste clausole sono il risultato della sfiducia dovuta al precedente tradimento degli Stati Uniti.
Un’incessante urgenza geopolitica
La questione richiede di essere compresa anche da un punto di vista più dottrinale. Per gli USA, ma più in generale per tutte le talassocrazie, conquistare e controllare il Rimland è la condizione indispensabile per sconfiggere le tellurocrazie, in questo tutto il continente eurasiatico. L’Iran rappresenta il centro dell’Asse della Resistenza, il cuore di quell’Islam che non scende a compromessi. Tutto ciò che limita la possibilità di dominare i mari e accerchiare l’Heartland, deve essere neutralizzato. Ciò rappresenta un’incessante urgenza geopolitica per gli USA.
L’effettivo ridimensionamento del potere americano nel mondo sta costringendo Washington a ridefinire le strategie di controllo nella regione, impiegando la cooperazione a basso profilo degli altri attori locali. Non solo Israele con la sua influenza, ma anche i Paesi arabi della penisola che sono legati al traffico del greggio con gli americani.
La Marina degli Stati Uniti ha 295 navi e, secondo l’USNI, 96 di esse sono schierate in Medio Oriente e nell’Oceano Indiano contro l’Iran e lo Yemen. Il 25% della Marina degli Stati Uniti è stato mobilitato e sono state identificate 26 navi.
La portaerei CVN-70 Carl Vinson ha completato il transito attraverso lo Stretto di Malacca e procede, secondo quanto pianificato, verso la zona operativa compresa tra Diego Garcia e le acque prospicienti l’Iran. Nel frattempo, la CVN-75 Harry S. Truman, con il relativo gruppo di attacco, mantiene la propria operatività nel Mar Rosso. A supporto delle operazioni nell’area, il cacciatorpediniere classe Arleigh Burke USS Wayne E. Meyer (DDG-108) è stato schierato al largo di Diego Garcia, rafforzando le capacità di difesa aerea dell’isola.
Un movimento su così vasta scala non è associato a semplici tensioni o a conflitti limitati. Stati Uniti e Israele si stanno preparando a una guerra su vasta scala e i primi passi e test di questo processo si stanno verificando durante gli attuali attacchi in Yemen.
La solita strana modalità americana di avviare le trattative di pace: con le armi, le minacce e i missili puntati. Una curiosa interpretazione della diplomazia, che ci auguriamo fallisca definitivamente presto.
Non è però da escludere che si tratti in verità di un enorme inganno mediaticamente voluto per distrarre dal cuore del problema. Per gli USA si tratterebbe di una mossa estremamente svantaggiosa, che li esporrebbe ad una grande quantità di rischi. Lo stile di negoziazione “a caldo” funziona sempre, anche in questi casi, perciò le rispettive parti del contenzioso cercheranno di provocare fino alla verifica del massimo stress reciproco. D’altronde, come sottolineato da alcuni media yemeniti, gli Stati Uniti sono concentrati su una guerra contro gli arabi a favore di Israele. Seminano discordia, guerra, caos e conflitto in tutto il mondo arabo per frammentarlo e indebolirlo, prendendo di mira i suoi eserciti e gli stati nazionali per imporre un nuovo piano per il Medio Oriente sotto il controllo israeliano per conto degli Stati Uniti. L’obiettivo è quello di stabilire un “Grande Israele” che si estenda dall’Eufrate al Nilo in Egitto.
Siamo al cospetto di una nuova e aggressiva fase coloniale e di insediamento guidata dall’America per eliminare l’identità nazionale araba, in particolare quella palestinese, e sostituirla con una nuova geografia politica denominata Grande Medio Oriente sionista, che ruota intorno agli interessi americani e dei suoi alleati.
La domanda rimane: i leader arabi riconoscono questa realtà e si preparano ad affrontarla prima che loro e i loro paesi vengano consumati? E l’Iran, sarà pronto a reagire in tempo?