Italiano
Lorenzo Maria Pacini
February 16, 2025
© Photo: Public domain

La settimana della più intensa propaganda in Italia è ormai al suo compimento. E, anche quest’anno, l’Italia ha dimostrato di amare i propri aguzzini.

Segue nostro Telegram.

Ogni anno la stessa storia

Diciamoci la verità: Sanremo è Sanremo, il che vuol dire che sappiamo tutti come funziona e cosa implica, ma ci va bene così, perché in fin dei conti è uno spettacolo che si riesce a mandar giù, anche se non si è d’accordo con quello che trasmette.

Qui sta il problema, l’enorme problema del Festival della Propaganda, ops, della Musica italiana: c’ un pubblico che, bene o male, lo guarda. Senza quel pubblico, smetterebbe di esistere subito, come avviene per tutti i programmi televisivi. Sanremo, anzi, è forse LO spettacolo televisivo rimasto che riesce ad accumunar grandi e piccini davanti alla TV, uno strumento ormai in disuso generazionale.

Sanremo è sia una sineddoche che una metonimia. Per dirla in modo semplice, sono quei meccanismi – linguistici e psicologici – attraverso cui, dopo aver stabilito un legame tra due concetti distinti ma interconnessi, il nome di uno viene usato al posto dell’altro (sineddoche). Così, Sanremo non è più semplicemente una città, ma è diventato sinonimo di un evento popolare per eccellenza: il Festival della Canzone Italiana. Si tratta di un vero e proprio slittamento di significato (metonimia), il procedimento per cui un termine viene trasferito da un ambito all’altro, come nel caso della città che finisce per identificarsi con la manifestazione musicale.

Per una settimana, il palco dell’Ariston – un normale cinema-teatro di provincia per il resto dell’anno – si trasforma nella vetrina dell’intero Paese, una sorta di specchio di ciò che siamo diventati e di quello in cui ci stanno trasformando. Le canzoni? Poco più di un pretesto per la macchina televisiva. Al Festival partecipa praticamente chiunque: opinionisti, esperti tuttologi, influencer, personaggi in cerca di visibilità, nani e ballerine, tutti parte di questo grande spettacolo che riflette la confusione della nostra epoca. Immancabile la solita patina di correttezza politica, il progressismo da salotto, l’occhiolino compiaciuto ai luoghi comuni del presente: una spruzzata di retorica LGBTQ+, una dichiarazione rigorosamente “di sinistra”, tutto condito da conferenze stampa, pre-festival, post-festival, eventi collaterali e una parata di stranezze spacciate per innovazione o addirittura arte. La musica è solo la colonna sonora di uno show che sta a metà tra il situazionismo e una fiera postmoderna. Più il pubblico si lascia coinvolgere, più assurdità vengono proposte.

All’italiano medio, nutrito al banco della mediocrità in saldo, questo va più che bene per soddisfare la dose giornaliera di dopamina.

A dominare tutto questo circo c’è la Rai, che gioca il ruolo di padrona di casa, finanziatrice, mentore e cerimoniere. Conta poco chi vincerà la competizione canora: l’importante è esserci, farsi vedere. Non importa se da protagonisti, ospiti, sosia di celebrità o semplici spettatori: ciò che conta è l’evento in sé. Le conferenze stampa diventano più rilevanti delle esibizioni musicali. E così accade che Elodie dichiari che non voterebbe mai Fratelli d’Italia nemmeno sotto minaccia: e a chi importa? Nel frattempo, Carlo Conti, il presentatore di turno, si trova a dover rispondere in conferenza stampa alla domanda epocale: “Sei antifascista?”. Ovviamente risponde di sì, perché la carriera viene prima di tutto. Anche se, con un minimo di onestà intellettuale, ammette che la questione è anacronistica e fuori luogo.

Propaganda da collezione

La quantità di propaganda che viene elargita non si fa mancare niente. C’è davvero di tutto nel mezzo. Della musica importa poco, il Festival è un gigantesco strumento di propaganda, pensato per intrattenere e distrarre il pubblico, alimentando le fragili certezze di un’Italia sempre più simile a una community televisiva, un gregge a cui viene somministrata una dose di autoindulgenza travestita da gara musicale. Il meccanismo funziona: forse proprio grazie alla sua mediocrità artistica, e nonostante la natura evidentemente faziosa dei messaggi che diffonde.

Per una settimana, la concorrenza tra le reti televisive viene sospesa. Le altre emittenti si adeguano, quasi svuotando i loro palinsesti o, nel migliore dei casi, parlando del Festival tanto quanto la Rai. Sfuggire a Sanremo diventa impossibile. È la nuova capitale italiana, soprattutto ideologicamente.

Fateci caso, per puro interesse di ricerca personale: avete mai sentito a Sanremo negli ultimi anni dei cantanti “di destra”? O avete mai sentito qualcuno spendere parole a favore della Palestina, o chiesti di rimediare al problema dell’immigrazione clandestina, o detto qualcosa contro i movimenti LGBT, ecc…?

Il pubblico sembra soddisfatto, o almeno addomesticato. E così il Festival giustifica le sue spese e il suo battage mediatico.

Persino chi non lo sopporta finisce per parlarne. Questa è la vera vittoria, il vero successo. Missione compita. Per un latro anno, la dose di propaganda è stata iniettata.

Sanremo fune da altare di opposizione ai governi, pertanto tutto ciò che viene detto in quei giorni riceve un’eco per mesi e mesi, dettando in un certo senso l’agenda politica dell’opinione pubblica.

Delle canzoni uscite se ne parlerà fino all’estate, dopodiché verranno obliterate a favore dell’evento successivo. Intanto l’italiano medio si ingurgita ore e ore di contenuti pregni di grasso propagandistico, come sarà certo di aver qualcosa di cui parlare il giorno successivo.

Nel frattempo, la settimana della distrazione di massa italiana lascia il via libera al Parlamento per approvare leggi nefaste e per inchiodare alla croce del sacrificio del proprio popolo. Tranquilli, vivi o morti passa tutto.

L’importante è guardare Sanremo.

Sanremo Propaganda Live

La settimana della più intensa propaganda in Italia è ormai al suo compimento. E, anche quest’anno, l’Italia ha dimostrato di amare i propri aguzzini.

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Ogni anno la stessa storia

Diciamoci la verità: Sanremo è Sanremo, il che vuol dire che sappiamo tutti come funziona e cosa implica, ma ci va bene così, perché in fin dei conti è uno spettacolo che si riesce a mandar giù, anche se non si è d’accordo con quello che trasmette.

Qui sta il problema, l’enorme problema del Festival della Propaganda, ops, della Musica italiana: c’ un pubblico che, bene o male, lo guarda. Senza quel pubblico, smetterebbe di esistere subito, come avviene per tutti i programmi televisivi. Sanremo, anzi, è forse LO spettacolo televisivo rimasto che riesce ad accumunar grandi e piccini davanti alla TV, uno strumento ormai in disuso generazionale.

Sanremo è sia una sineddoche che una metonimia. Per dirla in modo semplice, sono quei meccanismi – linguistici e psicologici – attraverso cui, dopo aver stabilito un legame tra due concetti distinti ma interconnessi, il nome di uno viene usato al posto dell’altro (sineddoche). Così, Sanremo non è più semplicemente una città, ma è diventato sinonimo di un evento popolare per eccellenza: il Festival della Canzone Italiana. Si tratta di un vero e proprio slittamento di significato (metonimia), il procedimento per cui un termine viene trasferito da un ambito all’altro, come nel caso della città che finisce per identificarsi con la manifestazione musicale.

Per una settimana, il palco dell’Ariston – un normale cinema-teatro di provincia per il resto dell’anno – si trasforma nella vetrina dell’intero Paese, una sorta di specchio di ciò che siamo diventati e di quello in cui ci stanno trasformando. Le canzoni? Poco più di un pretesto per la macchina televisiva. Al Festival partecipa praticamente chiunque: opinionisti, esperti tuttologi, influencer, personaggi in cerca di visibilità, nani e ballerine, tutti parte di questo grande spettacolo che riflette la confusione della nostra epoca. Immancabile la solita patina di correttezza politica, il progressismo da salotto, l’occhiolino compiaciuto ai luoghi comuni del presente: una spruzzata di retorica LGBTQ+, una dichiarazione rigorosamente “di sinistra”, tutto condito da conferenze stampa, pre-festival, post-festival, eventi collaterali e una parata di stranezze spacciate per innovazione o addirittura arte. La musica è solo la colonna sonora di uno show che sta a metà tra il situazionismo e una fiera postmoderna. Più il pubblico si lascia coinvolgere, più assurdità vengono proposte.

All’italiano medio, nutrito al banco della mediocrità in saldo, questo va più che bene per soddisfare la dose giornaliera di dopamina.

A dominare tutto questo circo c’è la Rai, che gioca il ruolo di padrona di casa, finanziatrice, mentore e cerimoniere. Conta poco chi vincerà la competizione canora: l’importante è esserci, farsi vedere. Non importa se da protagonisti, ospiti, sosia di celebrità o semplici spettatori: ciò che conta è l’evento in sé. Le conferenze stampa diventano più rilevanti delle esibizioni musicali. E così accade che Elodie dichiari che non voterebbe mai Fratelli d’Italia nemmeno sotto minaccia: e a chi importa? Nel frattempo, Carlo Conti, il presentatore di turno, si trova a dover rispondere in conferenza stampa alla domanda epocale: “Sei antifascista?”. Ovviamente risponde di sì, perché la carriera viene prima di tutto. Anche se, con un minimo di onestà intellettuale, ammette che la questione è anacronistica e fuori luogo.

Propaganda da collezione

La quantità di propaganda che viene elargita non si fa mancare niente. C’è davvero di tutto nel mezzo. Della musica importa poco, il Festival è un gigantesco strumento di propaganda, pensato per intrattenere e distrarre il pubblico, alimentando le fragili certezze di un’Italia sempre più simile a una community televisiva, un gregge a cui viene somministrata una dose di autoindulgenza travestita da gara musicale. Il meccanismo funziona: forse proprio grazie alla sua mediocrità artistica, e nonostante la natura evidentemente faziosa dei messaggi che diffonde.

Per una settimana, la concorrenza tra le reti televisive viene sospesa. Le altre emittenti si adeguano, quasi svuotando i loro palinsesti o, nel migliore dei casi, parlando del Festival tanto quanto la Rai. Sfuggire a Sanremo diventa impossibile. È la nuova capitale italiana, soprattutto ideologicamente.

Fateci caso, per puro interesse di ricerca personale: avete mai sentito a Sanremo negli ultimi anni dei cantanti “di destra”? O avete mai sentito qualcuno spendere parole a favore della Palestina, o chiesti di rimediare al problema dell’immigrazione clandestina, o detto qualcosa contro i movimenti LGBT, ecc…?

Il pubblico sembra soddisfatto, o almeno addomesticato. E così il Festival giustifica le sue spese e il suo battage mediatico.

Persino chi non lo sopporta finisce per parlarne. Questa è la vera vittoria, il vero successo. Missione compita. Per un latro anno, la dose di propaganda è stata iniettata.

Sanremo fune da altare di opposizione ai governi, pertanto tutto ciò che viene detto in quei giorni riceve un’eco per mesi e mesi, dettando in un certo senso l’agenda politica dell’opinione pubblica.

Delle canzoni uscite se ne parlerà fino all’estate, dopodiché verranno obliterate a favore dell’evento successivo. Intanto l’italiano medio si ingurgita ore e ore di contenuti pregni di grasso propagandistico, come sarà certo di aver qualcosa di cui parlare il giorno successivo.

Nel frattempo, la settimana della distrazione di massa italiana lascia il via libera al Parlamento per approvare leggi nefaste e per inchiodare alla croce del sacrificio del proprio popolo. Tranquilli, vivi o morti passa tutto.

L’importante è guardare Sanremo.

La settimana della più intensa propaganda in Italia è ormai al suo compimento. E, anche quest’anno, l’Italia ha dimostrato di amare i propri aguzzini.

Segue nostro Telegram.

Ogni anno la stessa storia

Diciamoci la verità: Sanremo è Sanremo, il che vuol dire che sappiamo tutti come funziona e cosa implica, ma ci va bene così, perché in fin dei conti è uno spettacolo che si riesce a mandar giù, anche se non si è d’accordo con quello che trasmette.

Qui sta il problema, l’enorme problema del Festival della Propaganda, ops, della Musica italiana: c’ un pubblico che, bene o male, lo guarda. Senza quel pubblico, smetterebbe di esistere subito, come avviene per tutti i programmi televisivi. Sanremo, anzi, è forse LO spettacolo televisivo rimasto che riesce ad accumunar grandi e piccini davanti alla TV, uno strumento ormai in disuso generazionale.

Sanremo è sia una sineddoche che una metonimia. Per dirla in modo semplice, sono quei meccanismi – linguistici e psicologici – attraverso cui, dopo aver stabilito un legame tra due concetti distinti ma interconnessi, il nome di uno viene usato al posto dell’altro (sineddoche). Così, Sanremo non è più semplicemente una città, ma è diventato sinonimo di un evento popolare per eccellenza: il Festival della Canzone Italiana. Si tratta di un vero e proprio slittamento di significato (metonimia), il procedimento per cui un termine viene trasferito da un ambito all’altro, come nel caso della città che finisce per identificarsi con la manifestazione musicale.

Per una settimana, il palco dell’Ariston – un normale cinema-teatro di provincia per il resto dell’anno – si trasforma nella vetrina dell’intero Paese, una sorta di specchio di ciò che siamo diventati e di quello in cui ci stanno trasformando. Le canzoni? Poco più di un pretesto per la macchina televisiva. Al Festival partecipa praticamente chiunque: opinionisti, esperti tuttologi, influencer, personaggi in cerca di visibilità, nani e ballerine, tutti parte di questo grande spettacolo che riflette la confusione della nostra epoca. Immancabile la solita patina di correttezza politica, il progressismo da salotto, l’occhiolino compiaciuto ai luoghi comuni del presente: una spruzzata di retorica LGBTQ+, una dichiarazione rigorosamente “di sinistra”, tutto condito da conferenze stampa, pre-festival, post-festival, eventi collaterali e una parata di stranezze spacciate per innovazione o addirittura arte. La musica è solo la colonna sonora di uno show che sta a metà tra il situazionismo e una fiera postmoderna. Più il pubblico si lascia coinvolgere, più assurdità vengono proposte.

All’italiano medio, nutrito al banco della mediocrità in saldo, questo va più che bene per soddisfare la dose giornaliera di dopamina.

A dominare tutto questo circo c’è la Rai, che gioca il ruolo di padrona di casa, finanziatrice, mentore e cerimoniere. Conta poco chi vincerà la competizione canora: l’importante è esserci, farsi vedere. Non importa se da protagonisti, ospiti, sosia di celebrità o semplici spettatori: ciò che conta è l’evento in sé. Le conferenze stampa diventano più rilevanti delle esibizioni musicali. E così accade che Elodie dichiari che non voterebbe mai Fratelli d’Italia nemmeno sotto minaccia: e a chi importa? Nel frattempo, Carlo Conti, il presentatore di turno, si trova a dover rispondere in conferenza stampa alla domanda epocale: “Sei antifascista?”. Ovviamente risponde di sì, perché la carriera viene prima di tutto. Anche se, con un minimo di onestà intellettuale, ammette che la questione è anacronistica e fuori luogo.

Propaganda da collezione

La quantità di propaganda che viene elargita non si fa mancare niente. C’è davvero di tutto nel mezzo. Della musica importa poco, il Festival è un gigantesco strumento di propaganda, pensato per intrattenere e distrarre il pubblico, alimentando le fragili certezze di un’Italia sempre più simile a una community televisiva, un gregge a cui viene somministrata una dose di autoindulgenza travestita da gara musicale. Il meccanismo funziona: forse proprio grazie alla sua mediocrità artistica, e nonostante la natura evidentemente faziosa dei messaggi che diffonde.

Per una settimana, la concorrenza tra le reti televisive viene sospesa. Le altre emittenti si adeguano, quasi svuotando i loro palinsesti o, nel migliore dei casi, parlando del Festival tanto quanto la Rai. Sfuggire a Sanremo diventa impossibile. È la nuova capitale italiana, soprattutto ideologicamente.

Fateci caso, per puro interesse di ricerca personale: avete mai sentito a Sanremo negli ultimi anni dei cantanti “di destra”? O avete mai sentito qualcuno spendere parole a favore della Palestina, o chiesti di rimediare al problema dell’immigrazione clandestina, o detto qualcosa contro i movimenti LGBT, ecc…?

Il pubblico sembra soddisfatto, o almeno addomesticato. E così il Festival giustifica le sue spese e il suo battage mediatico.

Persino chi non lo sopporta finisce per parlarne. Questa è la vera vittoria, il vero successo. Missione compita. Per un latro anno, la dose di propaganda è stata iniettata.

Sanremo fune da altare di opposizione ai governi, pertanto tutto ciò che viene detto in quei giorni riceve un’eco per mesi e mesi, dettando in un certo senso l’agenda politica dell’opinione pubblica.

Delle canzoni uscite se ne parlerà fino all’estate, dopodiché verranno obliterate a favore dell’evento successivo. Intanto l’italiano medio si ingurgita ore e ore di contenuti pregni di grasso propagandistico, come sarà certo di aver qualcosa di cui parlare il giorno successivo.

Nel frattempo, la settimana della distrazione di massa italiana lascia il via libera al Parlamento per approvare leggi nefaste e per inchiodare alla croce del sacrificio del proprio popolo. Tranquilli, vivi o morti passa tutto.

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The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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