Qual è il legame tra l’organizzazione per la liberazione della Palestina e la Chiesa cattolica?
Leggendo i romanzi del betlemita Jabra Ibrahim Jabra, in particolare “I pozzi di Betlemme” si scopre una Terra Santa d’inizio Novecento in cui gli arabo – cristiani, massimamente dei riti orientali, dai greco – ortodossi, ai copti, ai siro – giacobiti, sono la stragrande maggioranza degli abitanti della regione, come ad essi si associ la presenza di arabo – musulmani e di ridotte e piccole comunità ebraiche. Tutti accomunati da una vita fraterna, dialogante, con molti luoghi di culto in comune, con un sentimento unitario di appartenenza a quel territorio tra il Mediterraneo e il Giordano, con le sue colline, i suoi campi coltivati, i suoi deserti, condiviso e non vissuto in esclusiva da qualche comunità contro le altre, con la possibilità, oggi impossibile per muri di separazione e feroci controlli sionisti lungo il tragitto, di percorrere comodamente a piedi tra gli uliveti e gli agrumeti i sette chilometri che separano Betlemme da Al Quds, ovvero la Santa, Gerusalemme.
Nel secolo trascorso da allora ad oggi i mutamenti sociali, politici, militari, ma anche culturali, demografici, economici e statuali sono stati di tale dirompenza da travolgere, o meglio stravolgere, quella società, allora appena uscita da secoli di tollerante presenza ottomana e incamminatasi dentro il XX secolo a divenire del tutto inaspettatamente il crocevia drammatico di molti conflitti non solo mediorientali, ma anche di più vasta portata.
Due fenomeni devastanti e tragicamente contemporanei aprono la stagione della violenza e del sangue, del disconoscimento della complessa e plurale realtà palestinese, da un lato l’occupazione britannica odiosamente sprezzante delle donne e degli uomini di Palestina e delle loro religioni e culture, iniziata con il mandato coloniale nel 1919 e ufficialmente ratificato l’anno seguente per volontà della Società delle Nazioni, dall’altro l’avvento di un sionismo ben differente da quello del mezzo secolo precedente, che aveva portato all’insediamento di piccoli gruppi di kibbutzim, plurale della parola kibbutz, gruppi comunitari di ebrei locali insieme ad altri provenienti dall’Europa, generalmente di orientamento marxista e socialista, aperti alla cooperazione con le altre comunità della Palestina. Il nuovo sionismo è aggressivo, violento, deciso a “liberare” la Terra Santa da altre presenze, per costruire lo stato del “Grande Israele”, ovvero “Erez Israel”, nei primi fanatici progetti volto ad abbracciare una porzione rilevante del Medioriente, dall’attuale Libano all’intera odierna Giordania. Primo strumento di questa devastante svolta ideologica del sionismo è l’Haganah, ovvero letteralmente “Difesa”, in realtà un gruppo terroristico dedito a spaventare e scacciare dalla loro terra molti arabi, da allora infatti numerosi membri, in particolare delle comunità cristiane palestinesi, iniziano ad abbandonare le loro case e la loro terra, un esodo che ancora oggi prosegue impoverendo drammaticamente la Palestina. Le azioni omicide dell’Haganah si dipanano dal 1920 al 1948, con la costituzione dello stato israeliano i suoi militanti verranno integrati nello Tsahal, ovvero l’esercito sionista. Di questi gruppi hanno fatto parte molti futuri politici israeliani di rilievo, da Yitzhak Rabin, l’uomo degli accordi di Oslo del 1993, ad Ariel Sharon, il criminale co – responsabile della strage di Sabra e Shatila a Beirut nel settembre 1982.
Dopo l’Haganah nel 1931 nasce l’Irgun, “Irgun Tzvai Leumi”, ovvero l’ “Organizzazione Militare Nazionale”, un gruppo di terroristi inventori della destra sionista, con palesi simpatie fascisteggianti, ispirato dall’ucraino di Odessa Vladimir Žabotinskij, gruppo all’origine del successivo partito del Likud e in cui ha militato il futuro primo ministro israeliano Menachem Begin. Ancora peggio, giovani scalmanati e pronti a perpetrare senza esitazione morte e crudeltà escono dall’Irgun per formare nel 1940 la famigerata “Banda Stern”, ufficialmente “Lohamei Herut Israel”, ovvero i “Combattenti per la Libertà d’Israele”, di cui farà parte un altro futuro primo ministro Yitzhak Shamir.
Il solo quadro demografico al termine della Seconda Guerra Mondiale rende per intero i cambiamenti intercorsi in mezzo secolo, nel 1945 gli abitanti della Palestina sono un milione e ottocentoquarantacinquemila, così suddivisi arabi musulmani, 1.076.780, ovvero il 58%, arabi cristiani 145.060, ovvero solo il 9%, ebrei 608.230, quindi il 33%.
I mesi che trascorrono dalla Vittoria contro il nazifascismo con lo sventolio della bandiera sovietica sul Reichstag di Berlino nel 1945 e la dichiarazione di David Ben Gurion per la nascita il 14 maggio 1948 presso l’insediamento sionista del “Giardino Primavera”, ovvero “Tel Aviv”, fondato da alcuni ebrei nel 1909 in prossimità della città di Jaffa, sarebbero complessi da riepilogare, da un lato una parte della comunità ebraica europea sopravvissuta allo sterminio nazista decide di orientarsi verso un trasferimento in Palestina, dall’altro l’Unione Sovietica supporta questi gruppi in ragione di un loro prevalente orientamento marxista, con l’auspicio che possa nascere una nazione al suo interno plurale e internazionalmente amica del campo socialista in via di formazione nell’Europa Orientale, purtroppo non sarà così.
Per le comunità arabe, cristiane e musulmane, è il tempo della Nakba, ovvero della Catastrofe, i gruppi terroristici sionisti da Jaffa ad Haifa cacciano gli arabi dalle loro case, le occupano, rubano o distruggono i campi coltivati, le colline di aranceti, limoneti e uliveti. Le neonate Nazioni Unite inventano un inaccettabile piano di spartizione della Palestina in due stati, arabo ed israeliano, è la risoluzione 181, ma non avrà mai seguito, non riconosciuta dai palestinesi, mai rispettata dagli israeliani, i quali nel frattempo scatenano una violenza senza precedenti, occupano le città mediterranee e distruggono oltre cinquecento villaggi arabi, trasformando in profughi, diretti in Libano, in Egitto e in Giordania i due terzi dei residenti in Palestina, ben ottocentomila donne e uomini, costretti a vivere in esilio nelle tendopoli predisposte dalle Nazioni Unite.
La risoluzione 194 del dicembre 1948 dell’ONU all’articolo 11 obbliga gli israeliani a consentire il ritorno a casa dei palestinesi, i sionisti non la rispetteranno mai, ancora oggi i palestinesi manifestano con delle grandi chiavi di cartone in Terra Santa e in ogni parte del globo per ricordare il loro diritto al ritorno alle case e alla terra dei padri, allora sancito e da allora rimasto tristemente inapplicato.
A memoria delle migliaia di morti palestinesi, di cui ancora oggi è ignoto il numero preciso, valga il ricordo della strage di Deir Yassin, quando la “Banda Stern” entra nel villaggio il 9 aprile 1948 e uccide impunemente tutte e tutti coloro che trova, donne e bambini compresi.
Con gli anni ‘50 la Giordania prende ad amministrare la Cisgiordania, da Gerusalemme Est a Gerico, da Nablus a Betlemme ed Hebron, l’Egitto la striscia di Gaza, visitata alla fine del decennio anche da Ernesto “Che” Guevara giunto al Cairo dal presidente egiziano Gamal Abd al Nasser, guidando una delegazione cubana nel quadro del Movimento dei Non Allineati.
Proprio l’avvento a metà degli anni ‘50 di Nasser in Egitto, dopo aver chiuso insieme a Muhammad Nagib nel 1953 la miserevole parentesi della monarchia egiziana, una trentennale stagione di neocolonialismo, porta a un radicale cambiamento della storia di tutto il Medioriente. Nasser infatti promette e procede con la nazionalizzazione del canale di Suez. Britannici e francesi ferocemente indispettiti gli muovono guerra, con l’aiuto degli israeliani che abbandonano ogni residua relazione con Mosca, mettendo in campo una radicale scelta per il campo occidentale. Nasser si trova isolato e non più spalleggiato da Washington, chiede aiuto a Josip Broz Tito, presidente della Jugoslavia socialista e questi, mediando con i sovietici, porta il campo socialista al fianco della legittima lotta anti – coloniale egiziana. Avviene così in quell’autunno del 1956 il più clamoroso e repentino ribaltamento di alleanze di tutto il Novecento, da quel momento gli israeliani diventano i massimi difensori degli interessi dell’imperialismo statunitense nella regione e i loro più stretti e conseguenti alleati, dall’altro lato le nazioni arabe, sulla spinta panarabista di Nasser, passano convintamente a fianco del campo sovietico e diventano promotrici e sostenitrici della lotta di Africa, Asia e America Latina contro il colonialismo e l’imperialismo.
In tutti gli anni ‘60 Gamal Abd al-Nasser sarà uno dei grandi protagonisti della lotta di liberazione dei popoli, si pensi al sostegno offerto all’Algeria in guerra contro i colonizzatori francesi, fino alla solidarietà con il Congo di Patrice Lumumba, di cui, dopo il brutale martirio dello statista africano, ospiterà dal 1961 al Cairo i figli e la vedova.
In questo contesto il vescovo di Milano Giovanni Battista Montini, uomo straordinario, diventa pontefice, per molti aspetti il più grande del Novecento, capace nell’enciclica “Populorum Progressio” del marzo 1967 di scrivere parole oggi inarrivabili sul tema della giustizia sociale, contro i profitti del liberismo e per l’uguaglianza e la fraternità di tutta l’umanità. Il cardinale ambrosiano viene eletto come Paolo VI in un conclave, quello del giugno 1963, dai contorni incredibili, l’ultimo in cui la politica tenta di condizionare pesantemente il corso degli eventi, contro Montini si schierano infatti esplicitamente e formalmente il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, il dittatore spagnolo Francisco Franco, il presidente della Repubblica italiana Antonio Segni, i quali trasmettono ai cardinali note di totale dissenso nei suoi riguardi, al pari di quelle dirette contro il patriarca armeno – cattolico Krikor Bedros XV Aghagianian, colpevoli entrambi di eccessive aperture verso i marxisti, verso Mosca e verso i sovietici, Aghagianian anche con una sorella Elizabeta Papikova cittadina russa e sostenitrice dello stato sovietico, dunque reputato egli stesso prossimo al Cremlino.
Proprio Paolo VI, a sei mesi dalla sua elezione e nel bel mezzo del Concilio Vaticano II, nei primi giorni di gennaio 1964, lascia il Vaticano per recarsi in Terra Santa, un pellegrinaggio oggi trascurato dagli storici e spesso purtroppo mal riportato nella sua formidabile valenza storico – politica, prima ancora che ecumenico – religiosa.
Paolo VI atterra ad Amman in Giordania, non a Tel Aviv, si reca sul fiume Giordano, a Betlemme e a Gerusalemme Est, qui visita i luoghi santi e pronuncia parole durissime contro l’occupazione israeliana e a favore dei diritti nazionali del popolo palestinese. Solo il 5 gennaio, per recarsi a Nazareth, Cafarnao e Tiberiade, per poche ore prima di tornare la sera stessa nella parte di Gerusalemme sotto controllo giordano, entra nello stato sionista, una nazione che lo Stato del Vaticano allora non riconosceva. A riceverlo alla porta ierosolimitana di Mandelbaum è il presidente israeliano Zalman Shazar, poeta di origini bielorusse, omonimo del fondatore e parte lui stesso del movimento Chabad Lubavitch. A lui Paolo VI si rivolge con l’espressione “gentile signore”, mai userà alcuna formula che riconosca il suo ruolo politico e lo stato che rappresenta. Certamente Paolo VI userà parole mai ascoltate prima, chiedendo perdono per quanto gli ebrei hanno subito nei secoli per colpa della chiesa cattolica e per gli orrori della Seconda Guerra Mondiale, ma proprio Paolo VI con questo esemplare comportamento compie una distinzione netta e non revocabile tra gli ebrei e l’entità statuale sionista, riconoscendo nei primi dei fratelli in Abramo e nella seconda un avversario politico non meritevole di riconoscimento. Il nefasto abbraccio della chiesa cattolica con il sionismo sarà del polacco Wojtyla, tutto iscritto nella lotta antirussa e antisovietica di quel pontificato.
Le immagini dei palestinesi con la kefiah che si assiepano attorno a Paolo VI lungo il suo cammino in Terra Santa restano indelebili e convincono i partiti palestinesi a riunirsi a fine maggio di quello stesso 1964 ad Al Quds – Gerusalemme per fondare l’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, dunque concretamente e a tutti gli effetti il viaggio di Paolo VI è stato un fattore di straordinario impulso, di fatto determinante, per spingere all’azione tutto il movimento di resistenza nazionale palestinese.
Gli oltre quattrocento delegati ierosolimitani eleggono Ahmad Shuqayri il 28 maggio 1964 primo presidente dell’OLP, nel 1967 apre nella Belgrado socialista di Tito la prima ambasciata palestinese nel mondo, la tragica guerra dei Sei giorni del giugno 1967 estende a Gaza e alla Cisgiordania l’occupazione sionista sempre più violenta e coloniale, nel 1969 Yasser Arafat diventa presidente dell’OLP, nella sessione plenaria del 1974 tiene alle Nazioni Unite di New York uno dei più straordinari discorsi ascoltati in quell’assise, spiega come per oltre mezzo secolo la violenza sionista abbia negato la vita e la dignità al popolo palestinese e chiude le sue parole con il celebre richiamo: “in una mano ho un fucile per difendere la libertà del mio popolo, nell’altra un ramo d’ulivo, non lasciate che il ramo di ulivo cada dalla mia mano.”
Seguiranno altri anni turbolenti, nel 1988 i palestinesi riconosceranno l’entità statuale israeliana e nel 1993 Arafat sottoscriverà gli accordi di Oslo per la creazione di uno stato nazionale palestinese, i politici sionisti purtroppo faranno naufragare ogni tentativo di convivenza pacifica, la tragedia del popolo palestinese ancora oggi appare lontana dal trovare una soluzione dopo un secolo di sofferenza.


