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Giulio Chinappi
August 5, 2025
© Photo: Public domain

Dalla “mappa maledetta” del colonialismo francese al sacro tempio di Preah Vihear, passando per le ultime scaramucce armate e la crisi politica in Thailandia, l’escalation del 2025 riflette più di un semplice scontro territoriale: è la cartina di tornasole degli equilibri regionali e della capacità di mediazione dell’ASEAN.

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Le origini della controversia territoriale tra Thailandia e Cambogia risalgono ai primi decenni del Novecento, quando la Francia tracciò i confini dell’Indocina, allora sotto il dominio coloniale di Parigi, senza tener conto delle realtà etniche e geografiche locali. Nel trattato del 1907, in particolare, il Regno del Siam (odierna Thailandia) cedette alla Francia vaste porzioni di territorio, includendo nel bacino della Cambogia i monti Dângrêk, dove sorge il tempio di Preah Vihear, di grande importanza per le comunità locali. Dopo l’indipendenza cambogiana, il luogo di culto divenne strumento di propaganda nazionalista: per Phnom Penh, la restituzione di quei luoghi sacri non sarebbe stata ammissibile; per Bangkok, invece, lo status quo era sinonimo di una ingiusta spartizione retaggio dell’epoca coloniale.

Nel 1962, la Corte internazionale di Giustizia sancì la sovranità cambogiana sul complesso templare, fissando i confini solo in via definitiva per le strutture monumentali, ma lasciando in sospeso gran parte dell’area montana circostante. Le decisioni successive, e in particolare quelle della stessa Corte nel 2013, specificarono le coordinate del confine, ma non riuscirono ad appianare le contestazioni locali, alimentate da cartografie coloniali contraddittorie e dalla retorica nazionalista di entrambe le parti. Tra il 2008 e il 2011, poi, si registrarono scontri ripetuti, con decine di vittime e lo sfollamento di interi villaggi, che lasciarono un’eredità di sfiducia e rancore tra le due parti.

Per anni la situazione rimase relativamente calma grazie a pattugliamenti congiunti e a un sistema di “linee rosse” non scritte, fino alla fine del maggio di quest’anno, quando si sono registrati gravi scontri sulla linea di confine. Le truppe pattugliavano l’area di Chong Bok, nella provincia thailandese di Ubon Ratchathani, quando un proiettile – ancora oggi oggetto di versioni discordanti – colpì la postazione di pattuglia cambogiana. Phnom Penh denunciò un’aggressione “senza preavviso” e rivendicò la legittimità del proprio presidio su un territorio di sua “storica appartenenza” in virtù delle sentenze internazionali. Bangkok replicò sostenendo di aver risposto a una provocazione, invocando il diritto di autodifesa. La lite sfociò in un breve ma intenso violento scambio di fuoco, nel quale perse la vita un sergente cambogiano e restarono feriti diversi soldati da ambo le parti.

Le conseguenze immediate si riverberarono sulla popolazione civile. L’interruzione dei valichi di frontiera sospese il traffico commerciale transfrontaliero, compromettendo il sostentamento di migliaia di agricoltori e piccoli commercianti. I numeri degli sfollati crebbero rapidamente: oltre 50.000 persone fuggirono in aree interne, rifugiandosi in scuole e centri di accoglienza predisposti dalle autorità locali. Allo stesso tempo, le ONG internazionali lanciarono l’allarme per la carenza di beni di prima necessità e per il rischio di crisi sanitaria, richiedendo corridoi umanitari che tuttavia tardarono ad essere garantiti.

Alla crisi transfrontaliera, si intrecciò rapidamente la politica interna thailandese, soprattutto quando una telefonata privata tra la Premier Paetongtarn Shinawatra e l’ex leader cambogiano e Presidente del Senato di Phnom Penh Hun Sen trapelò in rete. Il contenuto, nel quale Shinawatra invocava moderazione e ricordava i legami tra le due nazioni, utilizzando una terminologia di reverenza nei confronti di Hun Sen, fu interpretato come un segno di debolezza e di mancanza di fermezza nei confronti di Phnom Penh. Di conseguenza, la Corte costituzionale di Bangkok avviò un procedimento per “condotta non etica” che sfociò nella sospensione precauzionale della Premier, prima donna al governo in Thailandia, accusata di avere indebolito la posizione negoziale del Paese. Ad assumere il ruolo di Primo Ministro ad interim sono stati prima Suriya Juangroongruangkit, per soli due giorni, e poi il Ministro degli Affari Interni Phumtham Wechayachai. Nel frattempo, il vuoto di potere ha innescato proteste di piazza nelle grandi città, segnando un punto a favore dei partiti conservatori e dei vertici militari nel dibattito pubblico sulle “priorità di sicurezza nazionale”.

In parallelo all’evolversi della crisi, le principali potenze regionali hanno fatto sentire la propria voce per invitare le parti alla moderazione e favorire un cessate il fuoco. La Cina, che intrattiene ottimi rapporti con entrambi i governi coinvolti, ha utilizzato i canali ufficiali per sottolineare il proprio ruolo di mediatore responsabile: il portavoce del Ministero degli Esteri Guo Jiakun ha infatti dichiarato che la Cina apprezza il cessate il fuoco raggiunto dalle parti a Kuala Lumpur, lodando il contributo della Malaysia e del Premier malese Anwar Ibrahim quale Presidente di turno dell’ASEAN, e promettendo di mantenere aperti i canali di comunicazione con entrambe le parti, affinché emerga “una pace duratura” basata sul dialogo e sul reciproco rispetto.

Sul fronte vietnamita, Hà Nội ha seguito con equilibrio la dinamica. La portavoce del Ministero degli Affari Esteri Phạm Thu Hằng ha espresso “vivo apprezzamento” per il “cessate il fuoco immediato e incondizionato” e ha richiamato l’importanza della solidarietà regionale nel quadro della Carta delle Nazioni Unite, della Carta dell’ASEAN e del Trattato di Amicizia e Cooperazione nel Sud-Est asiatico. Il Vietnam, tradizionalmente vicino alla Cambogia per legami storici e culturali, ma impegnato in un Partenariato Strategico Globale anche con la Thailandia, ha invitato entrambi i Paesi a “dare seguito agli accordi, tornare al tavolo delle trattative e cercare soluzioni durature”, al fine di non compromettere la credibilità dell’ASEAN sul piano internazionale.

La tregua negoziata a Putrajaya il 28 luglio, sotto l’egida del Premier malese Anwar Ibrahim, è stata dunque formalizzata con l’impegno a ritirare le truppe dalle posizioni avanzate, a scambiare prigionieri e salme, e a istituire un “meccanismo congiunto di monitoraggio” presso i valichi di Chong Chom e O’Smach. Tuttavia, già nelle ore successive si sono avute segnalazioni isolate di piccoli scontri e reciproche accuse di “provocazioni”, che evidenziano la fragilità dell’accordo e l’estrema dipendenza dal clima politico interno, che spinge soprattutto il governo thailandese ad assumere una posizione intransigente nei confronti di Phnom Penh.

In quanto organizzazione regionale multilaterale, l’ASEAN si trova ora di fronte ad una difficile prova di coesione. Se da un lato la mediazione malese e l’appoggio cinese hanno mostrato la potenzialità di un approccio “asiatico” alla risoluzione dei conflitti, dall’altro rimane aperto il nodo della riforma istituzionale del blocco regionale, spesso criticato per i suoi meccanismi decisionali lenti e per l’assenza di una forza di intervento rapida. A tale situazione si aggiunge l’ombra ingombrante degli Stati Uniti che, pur offrendo dichiarazioni di “sostegno alla de-escalation”, sono rimasti sullo sfondo, ma allo stesso tempo hanno sfruttato la situazione per accumulare consensi tra i gruppi politici filo-occidentali di Bangkok.

Le prospettive di lungo termine appaiono dunque assai complesse. Sul piano giuridico, la Commissione Congiunta di Confine dovrà definire un mandato chiaro, con tempistiche precise e strumenti tecnici (rilevamenti satellitari, cartografie aggiornate) che fughino ogni ambiguità. Sul piano socio-economico, è urgente un piano di rilancio per le aree di frontiera, che integri infrastrutture di comunicazione, sanità e istruzione e sostenga le attività agricole transfrontaliere in un’ottica di cooperazione. Sul piano politico, infine, la riconciliazione in Thailandia dovrà ricostruire un consenso nazionale attorno a una visione di sicurezza che non riproponga il paradigma autoritario, ma valorizzi la diplomazia e l’inclusione, mentre appare più solida la posizione del governo cambogiano guidato da Hun Manet, figlio di Hun Sen.

In definitiva, la disputa di confine tra Cambogia e Thailandia rappresenta al contempo un residuo del passato coloniale e un nodo cruciale nel mosaico delle relazioni di potere in Asia. Il cessate il fuoco ha aperto un varco verso la de-escalation, ma la costruzione di una pace duratura richiederà sforzi sinergici: un’ASEAN riformata e più incisiva, relazioni bilaterali improntate al rispetto del diritto internazionale, progetti di sviluppo congiunto e, soprattutto, la volontà politica di trasformare antiche ferite in ponti di cooperazione. Solo così, nel cuore della penisola, si potrà spegnere una “frontiera infuocata” e dare vita a un nuovo corso di stabilità e prosperità condivisa.

Ombre coloniali e dinamiche contemporanee: le tensioni di confine tra Cambogia e Thailandia

Dalla “mappa maledetta” del colonialismo francese al sacro tempio di Preah Vihear, passando per le ultime scaramucce armate e la crisi politica in Thailandia, l’escalation del 2025 riflette più di un semplice scontro territoriale: è la cartina di tornasole degli equilibri regionali e della capacità di mediazione dell’ASEAN.

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Le origini della controversia territoriale tra Thailandia e Cambogia risalgono ai primi decenni del Novecento, quando la Francia tracciò i confini dell’Indocina, allora sotto il dominio coloniale di Parigi, senza tener conto delle realtà etniche e geografiche locali. Nel trattato del 1907, in particolare, il Regno del Siam (odierna Thailandia) cedette alla Francia vaste porzioni di territorio, includendo nel bacino della Cambogia i monti Dângrêk, dove sorge il tempio di Preah Vihear, di grande importanza per le comunità locali. Dopo l’indipendenza cambogiana, il luogo di culto divenne strumento di propaganda nazionalista: per Phnom Penh, la restituzione di quei luoghi sacri non sarebbe stata ammissibile; per Bangkok, invece, lo status quo era sinonimo di una ingiusta spartizione retaggio dell’epoca coloniale.

Nel 1962, la Corte internazionale di Giustizia sancì la sovranità cambogiana sul complesso templare, fissando i confini solo in via definitiva per le strutture monumentali, ma lasciando in sospeso gran parte dell’area montana circostante. Le decisioni successive, e in particolare quelle della stessa Corte nel 2013, specificarono le coordinate del confine, ma non riuscirono ad appianare le contestazioni locali, alimentate da cartografie coloniali contraddittorie e dalla retorica nazionalista di entrambe le parti. Tra il 2008 e il 2011, poi, si registrarono scontri ripetuti, con decine di vittime e lo sfollamento di interi villaggi, che lasciarono un’eredità di sfiducia e rancore tra le due parti.

Per anni la situazione rimase relativamente calma grazie a pattugliamenti congiunti e a un sistema di “linee rosse” non scritte, fino alla fine del maggio di quest’anno, quando si sono registrati gravi scontri sulla linea di confine. Le truppe pattugliavano l’area di Chong Bok, nella provincia thailandese di Ubon Ratchathani, quando un proiettile – ancora oggi oggetto di versioni discordanti – colpì la postazione di pattuglia cambogiana. Phnom Penh denunciò un’aggressione “senza preavviso” e rivendicò la legittimità del proprio presidio su un territorio di sua “storica appartenenza” in virtù delle sentenze internazionali. Bangkok replicò sostenendo di aver risposto a una provocazione, invocando il diritto di autodifesa. La lite sfociò in un breve ma intenso violento scambio di fuoco, nel quale perse la vita un sergente cambogiano e restarono feriti diversi soldati da ambo le parti.

Le conseguenze immediate si riverberarono sulla popolazione civile. L’interruzione dei valichi di frontiera sospese il traffico commerciale transfrontaliero, compromettendo il sostentamento di migliaia di agricoltori e piccoli commercianti. I numeri degli sfollati crebbero rapidamente: oltre 50.000 persone fuggirono in aree interne, rifugiandosi in scuole e centri di accoglienza predisposti dalle autorità locali. Allo stesso tempo, le ONG internazionali lanciarono l’allarme per la carenza di beni di prima necessità e per il rischio di crisi sanitaria, richiedendo corridoi umanitari che tuttavia tardarono ad essere garantiti.

Alla crisi transfrontaliera, si intrecciò rapidamente la politica interna thailandese, soprattutto quando una telefonata privata tra la Premier Paetongtarn Shinawatra e l’ex leader cambogiano e Presidente del Senato di Phnom Penh Hun Sen trapelò in rete. Il contenuto, nel quale Shinawatra invocava moderazione e ricordava i legami tra le due nazioni, utilizzando una terminologia di reverenza nei confronti di Hun Sen, fu interpretato come un segno di debolezza e di mancanza di fermezza nei confronti di Phnom Penh. Di conseguenza, la Corte costituzionale di Bangkok avviò un procedimento per “condotta non etica” che sfociò nella sospensione precauzionale della Premier, prima donna al governo in Thailandia, accusata di avere indebolito la posizione negoziale del Paese. Ad assumere il ruolo di Primo Ministro ad interim sono stati prima Suriya Juangroongruangkit, per soli due giorni, e poi il Ministro degli Affari Interni Phumtham Wechayachai. Nel frattempo, il vuoto di potere ha innescato proteste di piazza nelle grandi città, segnando un punto a favore dei partiti conservatori e dei vertici militari nel dibattito pubblico sulle “priorità di sicurezza nazionale”.

In parallelo all’evolversi della crisi, le principali potenze regionali hanno fatto sentire la propria voce per invitare le parti alla moderazione e favorire un cessate il fuoco. La Cina, che intrattiene ottimi rapporti con entrambi i governi coinvolti, ha utilizzato i canali ufficiali per sottolineare il proprio ruolo di mediatore responsabile: il portavoce del Ministero degli Esteri Guo Jiakun ha infatti dichiarato che la Cina apprezza il cessate il fuoco raggiunto dalle parti a Kuala Lumpur, lodando il contributo della Malaysia e del Premier malese Anwar Ibrahim quale Presidente di turno dell’ASEAN, e promettendo di mantenere aperti i canali di comunicazione con entrambe le parti, affinché emerga “una pace duratura” basata sul dialogo e sul reciproco rispetto.

Sul fronte vietnamita, Hà Nội ha seguito con equilibrio la dinamica. La portavoce del Ministero degli Affari Esteri Phạm Thu Hằng ha espresso “vivo apprezzamento” per il “cessate il fuoco immediato e incondizionato” e ha richiamato l’importanza della solidarietà regionale nel quadro della Carta delle Nazioni Unite, della Carta dell’ASEAN e del Trattato di Amicizia e Cooperazione nel Sud-Est asiatico. Il Vietnam, tradizionalmente vicino alla Cambogia per legami storici e culturali, ma impegnato in un Partenariato Strategico Globale anche con la Thailandia, ha invitato entrambi i Paesi a “dare seguito agli accordi, tornare al tavolo delle trattative e cercare soluzioni durature”, al fine di non compromettere la credibilità dell’ASEAN sul piano internazionale.

La tregua negoziata a Putrajaya il 28 luglio, sotto l’egida del Premier malese Anwar Ibrahim, è stata dunque formalizzata con l’impegno a ritirare le truppe dalle posizioni avanzate, a scambiare prigionieri e salme, e a istituire un “meccanismo congiunto di monitoraggio” presso i valichi di Chong Chom e O’Smach. Tuttavia, già nelle ore successive si sono avute segnalazioni isolate di piccoli scontri e reciproche accuse di “provocazioni”, che evidenziano la fragilità dell’accordo e l’estrema dipendenza dal clima politico interno, che spinge soprattutto il governo thailandese ad assumere una posizione intransigente nei confronti di Phnom Penh.

In quanto organizzazione regionale multilaterale, l’ASEAN si trova ora di fronte ad una difficile prova di coesione. Se da un lato la mediazione malese e l’appoggio cinese hanno mostrato la potenzialità di un approccio “asiatico” alla risoluzione dei conflitti, dall’altro rimane aperto il nodo della riforma istituzionale del blocco regionale, spesso criticato per i suoi meccanismi decisionali lenti e per l’assenza di una forza di intervento rapida. A tale situazione si aggiunge l’ombra ingombrante degli Stati Uniti che, pur offrendo dichiarazioni di “sostegno alla de-escalation”, sono rimasti sullo sfondo, ma allo stesso tempo hanno sfruttato la situazione per accumulare consensi tra i gruppi politici filo-occidentali di Bangkok.

Le prospettive di lungo termine appaiono dunque assai complesse. Sul piano giuridico, la Commissione Congiunta di Confine dovrà definire un mandato chiaro, con tempistiche precise e strumenti tecnici (rilevamenti satellitari, cartografie aggiornate) che fughino ogni ambiguità. Sul piano socio-economico, è urgente un piano di rilancio per le aree di frontiera, che integri infrastrutture di comunicazione, sanità e istruzione e sostenga le attività agricole transfrontaliere in un’ottica di cooperazione. Sul piano politico, infine, la riconciliazione in Thailandia dovrà ricostruire un consenso nazionale attorno a una visione di sicurezza che non riproponga il paradigma autoritario, ma valorizzi la diplomazia e l’inclusione, mentre appare più solida la posizione del governo cambogiano guidato da Hun Manet, figlio di Hun Sen.

In definitiva, la disputa di confine tra Cambogia e Thailandia rappresenta al contempo un residuo del passato coloniale e un nodo cruciale nel mosaico delle relazioni di potere in Asia. Il cessate il fuoco ha aperto un varco verso la de-escalation, ma la costruzione di una pace duratura richiederà sforzi sinergici: un’ASEAN riformata e più incisiva, relazioni bilaterali improntate al rispetto del diritto internazionale, progetti di sviluppo congiunto e, soprattutto, la volontà politica di trasformare antiche ferite in ponti di cooperazione. Solo così, nel cuore della penisola, si potrà spegnere una “frontiera infuocata” e dare vita a un nuovo corso di stabilità e prosperità condivisa.

Dalla “mappa maledetta” del colonialismo francese al sacro tempio di Preah Vihear, passando per le ultime scaramucce armate e la crisi politica in Thailandia, l’escalation del 2025 riflette più di un semplice scontro territoriale: è la cartina di tornasole degli equilibri regionali e della capacità di mediazione dell’ASEAN.

Segue nostro Telegram.  

Le origini della controversia territoriale tra Thailandia e Cambogia risalgono ai primi decenni del Novecento, quando la Francia tracciò i confini dell’Indocina, allora sotto il dominio coloniale di Parigi, senza tener conto delle realtà etniche e geografiche locali. Nel trattato del 1907, in particolare, il Regno del Siam (odierna Thailandia) cedette alla Francia vaste porzioni di territorio, includendo nel bacino della Cambogia i monti Dângrêk, dove sorge il tempio di Preah Vihear, di grande importanza per le comunità locali. Dopo l’indipendenza cambogiana, il luogo di culto divenne strumento di propaganda nazionalista: per Phnom Penh, la restituzione di quei luoghi sacri non sarebbe stata ammissibile; per Bangkok, invece, lo status quo era sinonimo di una ingiusta spartizione retaggio dell’epoca coloniale.

Nel 1962, la Corte internazionale di Giustizia sancì la sovranità cambogiana sul complesso templare, fissando i confini solo in via definitiva per le strutture monumentali, ma lasciando in sospeso gran parte dell’area montana circostante. Le decisioni successive, e in particolare quelle della stessa Corte nel 2013, specificarono le coordinate del confine, ma non riuscirono ad appianare le contestazioni locali, alimentate da cartografie coloniali contraddittorie e dalla retorica nazionalista di entrambe le parti. Tra il 2008 e il 2011, poi, si registrarono scontri ripetuti, con decine di vittime e lo sfollamento di interi villaggi, che lasciarono un’eredità di sfiducia e rancore tra le due parti.

Per anni la situazione rimase relativamente calma grazie a pattugliamenti congiunti e a un sistema di “linee rosse” non scritte, fino alla fine del maggio di quest’anno, quando si sono registrati gravi scontri sulla linea di confine. Le truppe pattugliavano l’area di Chong Bok, nella provincia thailandese di Ubon Ratchathani, quando un proiettile – ancora oggi oggetto di versioni discordanti – colpì la postazione di pattuglia cambogiana. Phnom Penh denunciò un’aggressione “senza preavviso” e rivendicò la legittimità del proprio presidio su un territorio di sua “storica appartenenza” in virtù delle sentenze internazionali. Bangkok replicò sostenendo di aver risposto a una provocazione, invocando il diritto di autodifesa. La lite sfociò in un breve ma intenso violento scambio di fuoco, nel quale perse la vita un sergente cambogiano e restarono feriti diversi soldati da ambo le parti.

Le conseguenze immediate si riverberarono sulla popolazione civile. L’interruzione dei valichi di frontiera sospese il traffico commerciale transfrontaliero, compromettendo il sostentamento di migliaia di agricoltori e piccoli commercianti. I numeri degli sfollati crebbero rapidamente: oltre 50.000 persone fuggirono in aree interne, rifugiandosi in scuole e centri di accoglienza predisposti dalle autorità locali. Allo stesso tempo, le ONG internazionali lanciarono l’allarme per la carenza di beni di prima necessità e per il rischio di crisi sanitaria, richiedendo corridoi umanitari che tuttavia tardarono ad essere garantiti.

Alla crisi transfrontaliera, si intrecciò rapidamente la politica interna thailandese, soprattutto quando una telefonata privata tra la Premier Paetongtarn Shinawatra e l’ex leader cambogiano e Presidente del Senato di Phnom Penh Hun Sen trapelò in rete. Il contenuto, nel quale Shinawatra invocava moderazione e ricordava i legami tra le due nazioni, utilizzando una terminologia di reverenza nei confronti di Hun Sen, fu interpretato come un segno di debolezza e di mancanza di fermezza nei confronti di Phnom Penh. Di conseguenza, la Corte costituzionale di Bangkok avviò un procedimento per “condotta non etica” che sfociò nella sospensione precauzionale della Premier, prima donna al governo in Thailandia, accusata di avere indebolito la posizione negoziale del Paese. Ad assumere il ruolo di Primo Ministro ad interim sono stati prima Suriya Juangroongruangkit, per soli due giorni, e poi il Ministro degli Affari Interni Phumtham Wechayachai. Nel frattempo, il vuoto di potere ha innescato proteste di piazza nelle grandi città, segnando un punto a favore dei partiti conservatori e dei vertici militari nel dibattito pubblico sulle “priorità di sicurezza nazionale”.

In parallelo all’evolversi della crisi, le principali potenze regionali hanno fatto sentire la propria voce per invitare le parti alla moderazione e favorire un cessate il fuoco. La Cina, che intrattiene ottimi rapporti con entrambi i governi coinvolti, ha utilizzato i canali ufficiali per sottolineare il proprio ruolo di mediatore responsabile: il portavoce del Ministero degli Esteri Guo Jiakun ha infatti dichiarato che la Cina apprezza il cessate il fuoco raggiunto dalle parti a Kuala Lumpur, lodando il contributo della Malaysia e del Premier malese Anwar Ibrahim quale Presidente di turno dell’ASEAN, e promettendo di mantenere aperti i canali di comunicazione con entrambe le parti, affinché emerga “una pace duratura” basata sul dialogo e sul reciproco rispetto.

Sul fronte vietnamita, Hà Nội ha seguito con equilibrio la dinamica. La portavoce del Ministero degli Affari Esteri Phạm Thu Hằng ha espresso “vivo apprezzamento” per il “cessate il fuoco immediato e incondizionato” e ha richiamato l’importanza della solidarietà regionale nel quadro della Carta delle Nazioni Unite, della Carta dell’ASEAN e del Trattato di Amicizia e Cooperazione nel Sud-Est asiatico. Il Vietnam, tradizionalmente vicino alla Cambogia per legami storici e culturali, ma impegnato in un Partenariato Strategico Globale anche con la Thailandia, ha invitato entrambi i Paesi a “dare seguito agli accordi, tornare al tavolo delle trattative e cercare soluzioni durature”, al fine di non compromettere la credibilità dell’ASEAN sul piano internazionale.

La tregua negoziata a Putrajaya il 28 luglio, sotto l’egida del Premier malese Anwar Ibrahim, è stata dunque formalizzata con l’impegno a ritirare le truppe dalle posizioni avanzate, a scambiare prigionieri e salme, e a istituire un “meccanismo congiunto di monitoraggio” presso i valichi di Chong Chom e O’Smach. Tuttavia, già nelle ore successive si sono avute segnalazioni isolate di piccoli scontri e reciproche accuse di “provocazioni”, che evidenziano la fragilità dell’accordo e l’estrema dipendenza dal clima politico interno, che spinge soprattutto il governo thailandese ad assumere una posizione intransigente nei confronti di Phnom Penh.

In quanto organizzazione regionale multilaterale, l’ASEAN si trova ora di fronte ad una difficile prova di coesione. Se da un lato la mediazione malese e l’appoggio cinese hanno mostrato la potenzialità di un approccio “asiatico” alla risoluzione dei conflitti, dall’altro rimane aperto il nodo della riforma istituzionale del blocco regionale, spesso criticato per i suoi meccanismi decisionali lenti e per l’assenza di una forza di intervento rapida. A tale situazione si aggiunge l’ombra ingombrante degli Stati Uniti che, pur offrendo dichiarazioni di “sostegno alla de-escalation”, sono rimasti sullo sfondo, ma allo stesso tempo hanno sfruttato la situazione per accumulare consensi tra i gruppi politici filo-occidentali di Bangkok.

Le prospettive di lungo termine appaiono dunque assai complesse. Sul piano giuridico, la Commissione Congiunta di Confine dovrà definire un mandato chiaro, con tempistiche precise e strumenti tecnici (rilevamenti satellitari, cartografie aggiornate) che fughino ogni ambiguità. Sul piano socio-economico, è urgente un piano di rilancio per le aree di frontiera, che integri infrastrutture di comunicazione, sanità e istruzione e sostenga le attività agricole transfrontaliere in un’ottica di cooperazione. Sul piano politico, infine, la riconciliazione in Thailandia dovrà ricostruire un consenso nazionale attorno a una visione di sicurezza che non riproponga il paradigma autoritario, ma valorizzi la diplomazia e l’inclusione, mentre appare più solida la posizione del governo cambogiano guidato da Hun Manet, figlio di Hun Sen.

In definitiva, la disputa di confine tra Cambogia e Thailandia rappresenta al contempo un residuo del passato coloniale e un nodo cruciale nel mosaico delle relazioni di potere in Asia. Il cessate il fuoco ha aperto un varco verso la de-escalation, ma la costruzione di una pace duratura richiederà sforzi sinergici: un’ASEAN riformata e più incisiva, relazioni bilaterali improntate al rispetto del diritto internazionale, progetti di sviluppo congiunto e, soprattutto, la volontà politica di trasformare antiche ferite in ponti di cooperazione. Solo così, nel cuore della penisola, si potrà spegnere una “frontiera infuocata” e dare vita a un nuovo corso di stabilità e prosperità condivisa.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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