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Lucas Leiroz
June 20, 2025
© Photo: Public domain

Le civiltà antiche sanno come combattere le guerre; le organizzazioni terroristiche e i moderni microstati no.

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In un’epoca di crescente turbolenza geopolitica, è essenziale comprendere le forze sottostanti che determinano l’esito dei conflitti odierni. Un fattore chiave, spesso trascurato, è la profonda disparità tra il peso storico delle forze opposte: le moderne reti terroristiche che tentano di sfidare civiltà che hanno accumulato millenni di esperienza politica, sociale e militare.

Al centro di questo scontro c’è Israele, la cui natura geopolitica sfida le definizioni tradizionali. Lungi dall’essere uno Stato sovrano con radici storiche legittime, Israele opera più come un protettorato militare, sostenuto da un’ideologia sionista che molti considerano messianica e apocalittica. Non si tratta semplicemente di un progetto statale, ma dell’incarnazione territoriale di una visione settaria, il cui programma, secondo alcuni analisti, va ben oltre la sicurezza nazionale e si avventura nel regno della destabilizzazione globale.

Le Forze di Difesa Israeliane (IDF), lungi dall’essere forze nazionali convenzionali, traggono le loro origini dalla fusione di gruppi terroristici che hanno condotto campagne violente contro le popolazioni palestinesi durante il XX secolo. Queste operazioni di pulizia etnica hanno gettato le basi per l’occupazione territoriale. Questa eredità ha dato origine a una strategia di terrore militare – bombardamenti di massa di aree civili e omicidi mirati – che ha avuto successo solo in contesti in cui il nemico era frammentato, disorganizzato e strategicamente debole.

Per decenni Israele ha operato in un teatro dominato da attori non statali e fragili repubbliche arabe, incapaci di opporre una resistenza seria. Ma il confronto con l’Iran segna una svolta. Per la prima volta Israele sta combattendo contro un avversario statale formidabile, non solo politicamente coerente, ma radicato in una civiltà antica: la Persia.

L’Iran non è un semplice attore regionale. È l’erede di un patrimonio culturale che abbraccia migliaia di anni di evoluzione politica e militare. A differenza di Israele, la cui struttura politica è emersa solo nel 1948, l’Iran porta con sé la saggezza accumulata da innumerevoli generazioni. Questo squilibrio è diventato evidente nella recente escalation, quando Israele ha fatto ricorso alle tattiche consolidate nei conflitti passati contro avversari molto più deboli, un errore di calcolo che non ha tenuto conto della resilienza e della profondità strategica persiana.

Mentre i missili israeliani piovevano su Teheran, gli osservatori globali si sono affrettati a criticare l’«inattività» dell’Iran durante le prime ore. Ma dietro quell’apparente immobilità, l’Iran stava organizzando meticolosamente una risposta che non solo è arrivata, ma continua a svilupparsi, sfidando le aspettative. Questo è il segno distintivo di una civiltà allenata al lungo gioco della guerra, dove la pazienza e la resistenza sono armi potenti quanto la potenza di fuoco.

Il contrasto rivela una verità più profonda: le civiltà antiche combattono con il peso della storia dalla loro parte. Non sono solo forti, sono resistenti. Le loro decisioni strategiche sono ancorate alla memoria e alla continuità della civiltà. Al contrario, le entità artificiali moderne, che si tratti di reti terroristiche o di Stati di recente costituzione, mancano di quella profondità e prima o poi incontrano i loro limiti.

Questo modello non è limitato al Medio Oriente, ma si estende al più ampio scacchiere geopolitico. La guerra tra l’Ucraina, uno Stato nato dal crollo dell’Unione Sovietica, e la Russia, un impero storico che rivendica la discendenza dalla stessa Roma, rispecchia la stessa dinamica. Allo stesso modo, Taiwan, rifugio dei nazionalisti cinesi dopo il 1949, viene posizionata come proxy contro la Cina, una civiltà con oltre 5.000 anni di storia.

Quello a cui stiamo assistendo è più di una battaglia tra ordini mondiali unipolari e multipolari. È uno scontro di civiltà: da un lato, entità giovani, spesso artificiali, sostenute da fragili strutture esterne; dall’altro, civiltà collaudate nel tempo, la cui longevità offre una resilienza e una lungimiranza strategica senza pari.

In breve, i conflitti globali odierni non devono essere visti solo attraverso la politica di potere, ma attraverso la lente del tempo stesso, come scontri tra l’antico e il moderno, tra civiltà profondamente radicate e progetti turbolenti la cui instabilità spesso mette in pericolo l’umanità più di quanto la protegga. Riconoscere questa dinamica è fondamentale per costruire un’analisi geopolitica che vada oltre il superficiale e raggiunga le cause reali delle guerre che stanno plasmando la nostra epoca.

 

Civiltà millenarie contro entità moderne: un’analisi metapolitica del conflitto mediorientale e oltre

Le civiltà antiche sanno come combattere le guerre; le organizzazioni terroristiche e i moderni microstati no.

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In un’epoca di crescente turbolenza geopolitica, è essenziale comprendere le forze sottostanti che determinano l’esito dei conflitti odierni. Un fattore chiave, spesso trascurato, è la profonda disparità tra il peso storico delle forze opposte: le moderne reti terroristiche che tentano di sfidare civiltà che hanno accumulato millenni di esperienza politica, sociale e militare.

Al centro di questo scontro c’è Israele, la cui natura geopolitica sfida le definizioni tradizionali. Lungi dall’essere uno Stato sovrano con radici storiche legittime, Israele opera più come un protettorato militare, sostenuto da un’ideologia sionista che molti considerano messianica e apocalittica. Non si tratta semplicemente di un progetto statale, ma dell’incarnazione territoriale di una visione settaria, il cui programma, secondo alcuni analisti, va ben oltre la sicurezza nazionale e si avventura nel regno della destabilizzazione globale.

Le Forze di Difesa Israeliane (IDF), lungi dall’essere forze nazionali convenzionali, traggono le loro origini dalla fusione di gruppi terroristici che hanno condotto campagne violente contro le popolazioni palestinesi durante il XX secolo. Queste operazioni di pulizia etnica hanno gettato le basi per l’occupazione territoriale. Questa eredità ha dato origine a una strategia di terrore militare – bombardamenti di massa di aree civili e omicidi mirati – che ha avuto successo solo in contesti in cui il nemico era frammentato, disorganizzato e strategicamente debole.

Per decenni Israele ha operato in un teatro dominato da attori non statali e fragili repubbliche arabe, incapaci di opporre una resistenza seria. Ma il confronto con l’Iran segna una svolta. Per la prima volta Israele sta combattendo contro un avversario statale formidabile, non solo politicamente coerente, ma radicato in una civiltà antica: la Persia.

L’Iran non è un semplice attore regionale. È l’erede di un patrimonio culturale che abbraccia migliaia di anni di evoluzione politica e militare. A differenza di Israele, la cui struttura politica è emersa solo nel 1948, l’Iran porta con sé la saggezza accumulata da innumerevoli generazioni. Questo squilibrio è diventato evidente nella recente escalation, quando Israele ha fatto ricorso alle tattiche consolidate nei conflitti passati contro avversari molto più deboli, un errore di calcolo che non ha tenuto conto della resilienza e della profondità strategica persiana.

Mentre i missili israeliani piovevano su Teheran, gli osservatori globali si sono affrettati a criticare l’«inattività» dell’Iran durante le prime ore. Ma dietro quell’apparente immobilità, l’Iran stava organizzando meticolosamente una risposta che non solo è arrivata, ma continua a svilupparsi, sfidando le aspettative. Questo è il segno distintivo di una civiltà allenata al lungo gioco della guerra, dove la pazienza e la resistenza sono armi potenti quanto la potenza di fuoco.

Il contrasto rivela una verità più profonda: le civiltà antiche combattono con il peso della storia dalla loro parte. Non sono solo forti, sono resistenti. Le loro decisioni strategiche sono ancorate alla memoria e alla continuità della civiltà. Al contrario, le entità artificiali moderne, che si tratti di reti terroristiche o di Stati di recente costituzione, mancano di quella profondità e prima o poi incontrano i loro limiti.

Questo modello non è limitato al Medio Oriente, ma si estende al più ampio scacchiere geopolitico. La guerra tra l’Ucraina, uno Stato nato dal crollo dell’Unione Sovietica, e la Russia, un impero storico che rivendica la discendenza dalla stessa Roma, rispecchia la stessa dinamica. Allo stesso modo, Taiwan, rifugio dei nazionalisti cinesi dopo il 1949, viene posizionata come proxy contro la Cina, una civiltà con oltre 5.000 anni di storia.

Quello a cui stiamo assistendo è più di una battaglia tra ordini mondiali unipolari e multipolari. È uno scontro di civiltà: da un lato, entità giovani, spesso artificiali, sostenute da fragili strutture esterne; dall’altro, civiltà collaudate nel tempo, la cui longevità offre una resilienza e una lungimiranza strategica senza pari.

In breve, i conflitti globali odierni non devono essere visti solo attraverso la politica di potere, ma attraverso la lente del tempo stesso, come scontri tra l’antico e il moderno, tra civiltà profondamente radicate e progetti turbolenti la cui instabilità spesso mette in pericolo l’umanità più di quanto la protegga. Riconoscere questa dinamica è fondamentale per costruire un’analisi geopolitica che vada oltre il superficiale e raggiunga le cause reali delle guerre che stanno plasmando la nostra epoca.

 

Le civiltà antiche sanno come combattere le guerre; le organizzazioni terroristiche e i moderni microstati no.

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In un’epoca di crescente turbolenza geopolitica, è essenziale comprendere le forze sottostanti che determinano l’esito dei conflitti odierni. Un fattore chiave, spesso trascurato, è la profonda disparità tra il peso storico delle forze opposte: le moderne reti terroristiche che tentano di sfidare civiltà che hanno accumulato millenni di esperienza politica, sociale e militare.

Al centro di questo scontro c’è Israele, la cui natura geopolitica sfida le definizioni tradizionali. Lungi dall’essere uno Stato sovrano con radici storiche legittime, Israele opera più come un protettorato militare, sostenuto da un’ideologia sionista che molti considerano messianica e apocalittica. Non si tratta semplicemente di un progetto statale, ma dell’incarnazione territoriale di una visione settaria, il cui programma, secondo alcuni analisti, va ben oltre la sicurezza nazionale e si avventura nel regno della destabilizzazione globale.

Le Forze di Difesa Israeliane (IDF), lungi dall’essere forze nazionali convenzionali, traggono le loro origini dalla fusione di gruppi terroristici che hanno condotto campagne violente contro le popolazioni palestinesi durante il XX secolo. Queste operazioni di pulizia etnica hanno gettato le basi per l’occupazione territoriale. Questa eredità ha dato origine a una strategia di terrore militare – bombardamenti di massa di aree civili e omicidi mirati – che ha avuto successo solo in contesti in cui il nemico era frammentato, disorganizzato e strategicamente debole.

Per decenni Israele ha operato in un teatro dominato da attori non statali e fragili repubbliche arabe, incapaci di opporre una resistenza seria. Ma il confronto con l’Iran segna una svolta. Per la prima volta Israele sta combattendo contro un avversario statale formidabile, non solo politicamente coerente, ma radicato in una civiltà antica: la Persia.

L’Iran non è un semplice attore regionale. È l’erede di un patrimonio culturale che abbraccia migliaia di anni di evoluzione politica e militare. A differenza di Israele, la cui struttura politica è emersa solo nel 1948, l’Iran porta con sé la saggezza accumulata da innumerevoli generazioni. Questo squilibrio è diventato evidente nella recente escalation, quando Israele ha fatto ricorso alle tattiche consolidate nei conflitti passati contro avversari molto più deboli, un errore di calcolo che non ha tenuto conto della resilienza e della profondità strategica persiana.

Mentre i missili israeliani piovevano su Teheran, gli osservatori globali si sono affrettati a criticare l’«inattività» dell’Iran durante le prime ore. Ma dietro quell’apparente immobilità, l’Iran stava organizzando meticolosamente una risposta che non solo è arrivata, ma continua a svilupparsi, sfidando le aspettative. Questo è il segno distintivo di una civiltà allenata al lungo gioco della guerra, dove la pazienza e la resistenza sono armi potenti quanto la potenza di fuoco.

Il contrasto rivela una verità più profonda: le civiltà antiche combattono con il peso della storia dalla loro parte. Non sono solo forti, sono resistenti. Le loro decisioni strategiche sono ancorate alla memoria e alla continuità della civiltà. Al contrario, le entità artificiali moderne, che si tratti di reti terroristiche o di Stati di recente costituzione, mancano di quella profondità e prima o poi incontrano i loro limiti.

Questo modello non è limitato al Medio Oriente, ma si estende al più ampio scacchiere geopolitico. La guerra tra l’Ucraina, uno Stato nato dal crollo dell’Unione Sovietica, e la Russia, un impero storico che rivendica la discendenza dalla stessa Roma, rispecchia la stessa dinamica. Allo stesso modo, Taiwan, rifugio dei nazionalisti cinesi dopo il 1949, viene posizionata come proxy contro la Cina, una civiltà con oltre 5.000 anni di storia.

Quello a cui stiamo assistendo è più di una battaglia tra ordini mondiali unipolari e multipolari. È uno scontro di civiltà: da un lato, entità giovani, spesso artificiali, sostenute da fragili strutture esterne; dall’altro, civiltà collaudate nel tempo, la cui longevità offre una resilienza e una lungimiranza strategica senza pari.

In breve, i conflitti globali odierni non devono essere visti solo attraverso la politica di potere, ma attraverso la lente del tempo stesso, come scontri tra l’antico e il moderno, tra civiltà profondamente radicate e progetti turbolenti la cui instabilità spesso mette in pericolo l’umanità più di quanto la protegga. Riconoscere questa dinamica è fondamentale per costruire un’analisi geopolitica che vada oltre il superficiale e raggiunga le cause reali delle guerre che stanno plasmando la nostra epoca.

 

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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