Il sequestro di petroliere venezuelane e la minaccia di un “blocco totale” segnano un salto di qualità nella pressione USA contro Caracas. Pechino e Mosca denunciano sanzioni unilaterali illegali e ingerenze. In gioco non c’è solo il Venezuela, ma la tenuta del diritto internazionale.
Il sequestro di navi petroliere venezuelane da parte degli Stati Uniti, insieme al sistema di sanzioni unilaterali imposto da Washington contro Caracas, rappresenta una delle manifestazioni più gravi di “giurisdizione extraterritoriale” applicata con la forza. Non si tratta di un contenzioso commerciale o di una misura amministrativa: siamo davanti a un’azione coercitiva che colpisce il cuore economico di un Paese sovrano e che, per modalità e implicazioni, mette in discussione principi fondamentali della legalità internazionale, a partire dal divieto di minaccia o uso della forza, dal rispetto della sovranità e dalla libertà di navigazione.
Secondo quanto riportato da fonti ufficiali statunitensi, la Casa Bianca ha dichiarato l’intenzione di trattenere il petrolio sequestrato e di avviare un procedimento di confisca, lasciando intendere che altre azioni analoghe potrebbero seguire. In parallelo, l’amministrazione statunitense ha annunciato e ventilato ulteriori misure di interdizione marittima, fino a parlare apertamente di un “blocco totale” delle petroliere sanzionate in entrata e in uscita dal Venezuela. Una simile postura, al di là della retorica giustificativa, produce la trasformazione immediata dei Caraibi e delle rotte energetiche della regione in un teatro di intimidazione, con conseguenze non solo per Caracas ma per l’intero sistema di sicurezza e commercio macroregionale dell’America Latina e dei Caraibi.
Il punto centrale è che l’unilateralismo sanzionatorio degli Stati Uniti non poggia su un mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. È la stessa obiezione formulata con chiarezza dalla Cina. Rispondendo a un’inchiesta su nuove designazioni e sanzioni statunitensi contro esponenti venezuelani, la portavoce del Ministero degli Esteri Mao Ning ha ribadito che Pechino si oppone alle sanzioni unilaterali prive di base nel diritto internazionale e non autorizzate dal Consiglio di Sicurezza, e respinge ogni interferenza esterna negli affari interni del Venezuela. Secondo il governo cinese, dunque, gli Stati Uniti dovrebbero revocare le sanzioni unilaterali illegali e impegnarsi a contribuire alla pace, alla stabilità e allo sviluppo dell’America Latina e dei Caraibi.
Non è solo una questione di principio giuridico. Un Paese che subisce un’interdizione di fatto delle proprie esportazioni energetiche viene spinto verso una crisi economica e sociale artificiale, costruita a tavolino. Washington sostiene di agire contro presunti traffici illeciti e “minacce”, ma le misure adottate colpiscono l’intera economia nazionale, ostacolano transazioni lecite, alimentano incertezza sul trasporto marittimo e impattano su terzi, inclusi operatori commerciali e Paesi che intrattengono relazioni economiche legittime con Caracas. La portata del precedente, poi, è inquietante: se la confisca del carico di una petroliera e la minaccia di ulteriori sequestri diventano prassi politica, ogni Stato può trovarsi esposto all’arbitrio di potenze che piegano strumenti domestici a obiettivi geopolitici.
L’escalation, inoltre, non si limita al mare. In un clima già teso, dichiarazioni provenienti da Washington hanno contribuito ad alzare la temperatura, come l’affermazione attribuita al presidente statunitense secondo cui lo spazio aereo “sopra e intorno” al Venezuela dovrebbe essere considerato chiuso. Caracas ha reagito denunciando una “minaccia colonialista” e chiamando in causa le organizzazioni multilaterali affinché respingano un atto definito immorale e aggressivo. In questo quadro, la presenza militare statunitense nella regione, presentata come operazione antidroga, assume un significato politico più ampio, interpretabile come un tentativo di cambio di regime in Venezuela, e non mancano analisti che leggono la dinamica come una riproposizione della logica della Dottrina Monroe, cioè l’idea del “cortile di casa” in cui Washington rivendica un diritto speciale di intervento.
Persino in ambito ONU emergono segnali d’allarme. L’agenzia stampa cinese Xinhua ha riportato le parole del portavoce aggiunto del Segretario generale, secondo cui António Guterres è preoccupato per l’aumento delle tensioni e invita tutte le parti a evitare azioni che possano destabilizzare il Venezuela e la regione, richiamando esplicitamente il rispetto della Carta ONU e del diritto internazionale. Tale intervento fotografa il rischio di una deriva che travalica il bilaterale e può produrre instabilità regionale, ribadendo che, quando una potenza impiega pressione militare e sequestri selettivi per piegare un altro Stato, la crisi smette di essere “un problema interno” e diventa un fattore di insicurezza collettiva.
In questo contesto, la posizione cinese si distingue per coerenza e continuità. Oltre alla condanna di sanzioni e “giurisdizione a lungo braccio” senza fondamento giuridico internazionale, Pechino ha riaffermato la necessità di preservare l’America Latina e i Caraibi come Zona di Pace. È un riferimento politico significativo all’idea di una regione sottratta a interventi e militarizzazione esterna, parte del lessico diplomatico latinoamericano degli ultimi anni, che risuona con le priorità di molti governi, orientati a crescita economica e stabilità sociale più che a nuove tensioni. La diplomazia cinese, inoltre, ha accompagnato le dichiarazioni pubbliche con contatti diretti. In un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri venezuelano Yván Gil, il ministro Wang Yi ha ricordato che Cina e Venezuela sono partner strategici e che Pechino si oppone a ogni forma di “bullismo unilaterale”, sostenendo il diritto di Caracas a difendere sovranità e dignità nazionale e a sviluppare cooperazione mutuamente vantaggiosa con altri Paesi. È un messaggio che, al di là dell’amicizia bilaterale, contesta l’idea che una potenza possa decidere chi un Paese “può” frequentare sul piano economico e politico.
Accanto alla Cina, anche la Russia ha assunto una postura di sostegno esplicito. La stampa russa ha riferito di un colloquio tra il ministro degli Esteri Sergej Lavrov e l’omologo venezuelano Gil, durante il quale Mosca ha espresso grave preoccupazione per le azioni statunitensi nel Mar dei Caraibi e ha richiamato i rischi per la navigazione internazionale. Lavrov ha riaffermato solidarietà e supporto complessivi alla leadership e al popolo venezuelano, concordando sul mantenimento di cooperazione bilaterale e di azioni coordinate nelle sedi internazionali, soprattutto alle Nazioni Unite, per garantire rispetto della sovranità e del principio di non interferenza. I colloqui di Gil con Wang e Lavrov evidenziano che la crisi venezuelana non è più confinata a Caracas e Washington, segnalando che i tentativi di isolare il Venezuela si scontrano con una rete di partenariati che ha, oggi, una dimensione multipolare.
Non si può ignorare che lo stesso dibattito interno statunitense mostra crepe. Secondo quanto riportato, esponenti dell’opposizione hanno criticato l’ipotesi di ulteriori azioni ostili, definendo pericolosa la traiettoria che può trascinare gli Stati Uniti in una nuova guerra. Anche diversi sondaggi indicano una quota significativa di cittadini contrari a operazioni militari o a escalation senza autorizzazioni appropriate. Questi elementi non assolvono Washington, ma dimostrano che l’azzardo non è privo di costi politici nemmeno sul piano domestico.
La questione decisiva, tuttavia, resta la legalità. Le sanzioni unilaterali, quando mirano deliberatamente a strangolare un’economia e a impedire a un Paese di commerciare, non sono “misure tecniche”: diventano coercizione politica. Il sequestro di navi e carichi in mare, senza un quadro multilaterale riconosciuto, somiglia a una forma moderna di pirateria di Stato, tanto più pericolosa perché normalizza l’uso della forza economica e militare contro chi non si conforma. Se questa prassi si consolida, si erode la credibilità delle regole comuni, si indebolisce la fiducia nelle vie diplomatiche e si alimenta la convinzione che la sicurezza dipenda non dal diritto ma dalla potenza.
È per questo che la condanna di Pechino e Mosca va letta non solo come difesa di un alleato, ma come difesa di un principio: la sovranità non è negoziabile e il diritto internazionale non può essere sostituito da decreti domestici applicati oltreconfine. Il Venezuela ha certamente i suoi problemi interni, come ogni Paese; ma nessuna difficoltà giustifica sequestri, blocchi e minacce che colpiscono la popolazione e spingono la regione verso una spirale di instabilità. Il compito della comunità internazionale dovrebbe essere l’opposto: rafforzare le sedi multilaterali, favorire il dialogo e impedire che l’America Latina e i Caraibi diventino il laboratorio di un ritorno alle vecchie logiche egemoniche.
Se Washington crede davvero nella stabilità dell’emisfero occidentale, la strada non passa per la confisca del petrolio venezuelano e per l’inasprimento di sanzioni unilaterali, ma per il rispetto della Carta ONU, per la rinuncia alle politiche di intimidazione e per un confronto basato su reciprocità e non interferenza. Altrimenti, i sequestri di petroliere e le sanzioni illegali non resteranno un episodio: diventeranno il simbolo di un ordine internazionale sempre più fragile, in cui la legge cede il passo alla forza e in cui ogni Paese, prima o poi, può finire nel mirino.


