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Daniele Perra
December 17, 2025
© Photo: Public domain

Il documento sulla sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump dedica poco spazio al Medio Oriente, concentrandosi principalmente sull’emisfero occidentale e sul suo totale controllo da parte della potenza egemone americana. Tuttavia, non mancano alcuni spunti interessanti, sebbene già messi in evidenza dalle precedenti amministrazioni.

Segue nostro Telegram.

Prima di analizzare ciò che la nuova strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti dice sul Medio Oriente (poco più di una pagina), si rende necessario delineare una storia di quella che è stata la geopolitica nordamericana in questa parte di mondo.

Se si volesse individuare una data d’inizio precisa dell’interesse nordamericano per il Medio Oriente, questa è sicuramente il 1945. Nel febbraio del 1945, infatti, il presidente statunitense Franklin D. Roosevelt ed il sovrano saudita Abdulaziz bin Saud si incontrano sull’incrociatore statunitense USS Quincy, stazionato nel Mar Rosso in prossimità del Canale di Suez. Roosevelt si reca lì dopo la conferenza di Yalta, e qui viene stipulato un accordo di massima sulla sicurezza del Regno, sulla cooperazione petrolifera tra i due paesi e sul futuro dell’intera regione alla luce della crescente presenza sionista.

Il Regno saudita, è bene ricordarlo, nasce dalla particolare alleanza tra il clan tribale dei Saud ed il riformatore religioso Muhammad ibn Abd al-Wahhab (padre teorico del wahhabismo, corrente eterodossa e radicale dell’Islam ispirata alla scuola giuridica hanbalita). Un’alleanza che nasce nell’oasi di Dariya nel deserto del Najd, intorno alla metà del XVIII secolo. I sauditi tentano numerose volte di espandersi oltre i confini dello stesso Najd durante l’intero corso XIX secolo. Tuttavia, riescono nel loro intento solo con l’aiuto britannico, in chiave anti-ottomana, nel corso dei primi ’20 anni del XX secolo (si pensi al ruolo di sir John Philby, ufficiale dell’esercito britannico che fece per i sauditi ciò che fece il più noto Lawrence d’Arabia per gli hashemiti meccani). Questo fatto è curioso visto che i britannici riuscirono nell’impresa di tradire proprio gli hashemiti ben tre volte: con gli accordi segreti Sykes-Picot, con la dichiarazione Balfour e poi sostenendo segretamente l’offensiva saudita verso la Mecca negli anni ’20. Ad ogni modo, non è errato affermare che il Regno saudita, come tante altre costruzione statali nell’area, sia nato grazie alla protezione britannica.

Con la fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti accompagnano al declino la potenza britannica insieme all’URSS (l’altra potenza uscita vittoriosa dal conflitto). Di fatto, si sostituiscono a questa, sebbene i britannici mantengano alcune posizioni all’interno del Golfo Persico dalle quali poi vedranno la luce Paesi come Emirati Arabi Uniti e Qatar in una seconda fase del processo di decolonizzazione. L’Arabia Saudita diviene a tutti gli effetti dipendente dagli USA per la sua sicurezza. Tuttavia, è bene ricordare che inizialmente la strategia USA sul Vicino e Medio Oriente era concentrata essenzialmente sulla Turchia. La Turchia, almeno fino al 1967, è rimasta il principale alleato americano nella regione; il perno della geopolitica USA, centrale anche nella creazione del cosiddetto “patto di Baghdad” che avrebbe dovuto dare vita ad una sorta di NATO mediorientale (un sogno che rimane tuttora al centro della geopolitica statunitense nell’area). Una NATO mediorientale il cui obiettivo era contrastare la potenziale proiezione di influenza sovietica attraverso il Caucaso. Da non dimenticare che, a questo scopo, i marines statunitensi sbarcano in libano nel 1958 per evitare la creazione di un governo panarabista in stile nasseriano nel Paese dei Cedri.

Dopo il colpo di Stato (Operazione Ajax) che rovescia il governo nazionalista di Mossadeq in Iran, inoltre, anche questo diviene un pilastro della strategia regionale USA (Turchia e Iran, Stati non arabi, erano infatti destinati a fare da cani da guardia sui due lati del Medio Oriente). In aggiunta, a partire degli anni ’50, entrambi divengono stretti alleati di Israele in virtù della “dottrina periferica” di Ben Gurion, volta a ricercare alleati oltre la prima fascia di Stati arabi confinanti e ostili con il cosiddetto “Stato ebraico”. Da non sottovalutare, altresì, che anche in Iran gli Stati Uniti agiscono in teoria per aiutare i britannici a mantenere il controllo sull’industria petrolifera iraniana. Mentre, nella pratica, ancora una volta, prendono il posto di Londra.

Dal 1967 in poi, qualcosa cambia. Israele, a seguito della “guerra dei sei giorni”, diviene il primo recipiente degli aiuti militari statunitensi. Gli USA (soprattutto il binomio Nixon-Kissinger) lo trasformano nel nuovo punto fermo della geopolitica regionale di Washington per contrastare l’influenza sovietica, anche sotto notevole pressione della sempre più potente lobby sionista. Cosa ancora una volta curiosa se si pensa al fatto che, nel corso della “guerra dei sei giorni”, Israele attacca “accidentalmente” la USS Liberty (nave spia nordamericana stazionata nel Mar Rosso) uccidendo 34 marinai statunitensi. Ma questo aspetto rientra tra gli innumerevoli casi, citati dai politologi John Mearsheimer e Stephen Walt nel loro libro sull’influenza della lobby sionista nella politica estera degli Stati Uniti, in cui Israele ha agito a tutti gli effetti in modo ostile o contro gli interessi nazionali degli Stati Uniti. Da tenere a mente, a questo proposito, che il presidente Eisenhower, nel corso degli anni ’50, criticò a più riprese proprio il crescente ruolo della lobby sionista nel Congresso USA. Senza considerare la successiva opposizione di John F. Kennedy (sul cui omicidio permangono notevoli ombre di un possibile coinvolgimento israeliano) al programma nucleare segreto di Tel Aviv.

Ad ogni modo, Israele, grazie al ponte aereo americano nel 1973, riesce a superare indenne la cosiddetta “Guerra del Kippur” (o “Guerra del Ramadan”) e, addirittura, a passare all’offensiva, arrivando a quasi 100 km dal Cairo. Tra l’altro, in quella occasione, l’embargo petrolifero imposto dai Paesi arabi all’Occidente fu assai meno drammatico di come storicamente viene descritto. Il re saudita Faysal lo operò quasi controvoglia e rimanendo in stretto contatto con Washington. Cosa che non gli impedì comunque di venire assassinato qualche anno dopo, ancora una volta in circostanze più che misteriose.

Con l’approssimarsi del declino sovietico, la strategia regionale degli USA inizia a concentrarsi  su una sorta di “bilanciamento dei poteri”. Washington non voleva in alcun modo che nessuno Stato regionale si ergesse come potenza in grado di minacciare sia i suoi interessi che la “sicurezza” di Israele. Per questo motivo, durante la sanguinosa guerra Iran-Iraq, sostengono alternativamente le due parti in conflitto: ovvero, quando l’Iraq era sull’offensiva sostengono l’Iran (il celebre scandalo Iran-Contras); e quando l’Iran passa all’offensiva sostengono l’Iraq (ed alla fine del conflitto la bilancia degli aiuti pende nettamente a favore di Baghdad, anche a seguito dell’operazione Prayer Mantis che, nello specifico, contrasta le azioni iraniane nel Golfo Persico mentre lascia sostanziale libertà d’azione all’Iraq). Per il medesimo presupposto del bilanciamento dei poteri, arriva l’attacco all’Iraq del 1991. Questo, infatti, occupando il Kuwait come una sorta di “ricompensa” per il mancato sostegno arabo alla ricostruzione dopo il conflitto avrebbe enormemente aumentato le sue riserve petrolifere ed ottenuto un ben più ampio sbocco sul Golfo Persico che lo avrebbe reso capace di proiettare una ben più vasta influenza sull’intera regione.

A questo proposito, inoltre, bisogna considerare che se si dovesse applicare la teoria del geografo britannico Halford Mackinder dell’Heartland sul piano esclusivamente regionale, allora sarà facile individuare l’Heartland mediorientale in quello che è l’arco settentrionale del golfo persico: Arabia Saudita nord-orientale, Kuwait ed Iraq meridionale, Iran sud-occidentale. In altre parole, l’area più ricca di petrolio ed in cui la maggioranza della popolazione è sciita. Da qui derivano i timori generati dalla Rivoluzione Islamica a Teheran e dal sogno khomeinista di esportarla all’infuori dei confini iraniani. E da qui l’enfasi dei teorici neocon sul diretto controllo USA di questa particolare regione, ritenuta fondamentale per il pieno controllo dei flussi energetici globali e per costruire un vero e proprio “impero globale nordamericano” (come appare negli scritti prodotti dai Think Tank legati a questa particolare corrente di pensiero nata nei circoli ebraici nordamericani negli anni ’60 del secolo scorso). Nel 2003 arriva una nuova aggressione all’Iraq, il cui motivo reale non era di certo il rischio della fabbricazione di armi di distruzione di massa da parte di Baghdad, ma semplicemente il fatto che compagnie europee (soprattutto francesi e tedesche) stavano assumendo un ruolo egemonico all’interno dell’industria petrolifera irachena.

Ora, bisogna tenere a mente che i progetti neocon (il caos creativo, il piano sionista Yinon di parcellizzazione della regione lungo linee etno-settarie che risale addirittura agli anni ’80, le rivolte arabe indotte, le cosiddette “primavere” con le aggressioni contro Libia e Siria, e pure gli accordi di Abramo trumpisti) hanno in comune il medesimo obiettivo: creare un’area in cui l’egemonia USA non sia in alcun modo messa in discussione. Nonostante ciò, è necessario riconoscere che gli Stati Uniti, in Iraq come in Afghanistan d’altronde, hanno operato in modo geopoliticamente insensato (forse dettato anche dalla sostanziale ignoranza della realtà locale), favorendo inoltre in tutto e per tutto (paradossalmente) quello che è di gran lunga il principale rivale regionale: la Repubblica Islamica dell’Iran che, dopo il 2003, è riuscita ad acquisire un’influenza sull’Iraq che con Saddam al potere sarebbe stata impossibile. Dopo il 1991, gli USA (ed i britannici, che ogni qual volta hanno a che fare con il Vicino Oriente producono disastri immani) avevano pure favorito le ribellioni sciite nel sud dell’Iraq e quelle dei curdi nel nord, salvo poi abbandonare entrambi a se stessi ed alla feroce repressione del regime baathista.

Dunque non è errato affermare che l’Iran, grazie a loro (alla loro incapacità di comprendere la regione), è divenuto per lungo tempo il principale attore nell’area, grazie all’affermazione di Hezbollah in Libano, alle vittorie degli Houthi nello Yemen ed al contrasto all’azione terroristica dei movimenti legati ad al-Qaeda o al sedicente Stato Islamico in Siria e Iraq. Tuttavia, con l’assassinio del generale Soleimani (il vero e proprio deus ex machina di quello che è stato chiamato come “Asse della Resistenza”, sebbene in molti cerchino di sminuirlo indicandovi una mera ispirazione iraniana neosafavide), inizia quella che in altre occasioni è stata definita come “controffensiva occidentale”, culminata con la caduta di Damasco (con il tentativo di costituire il cosiddetto “corridoio di David”, che dovrebbe proiettare l’influenza israeliana sino ai confini con l’Iran) e la piena realizzazione del genocidio sionista in Palestina. Ancora oggi si assiste a nuovi tentativi di destabilizzare il Libano con le continue violazioni israeliane del cessate il fuoco (va da sé che il Libano può comunque essere considerato già di suo alla stregua di Stato semifallito), ed alle pressioni sul governo iracheno per limitare l’influenza iraniana al suo interno (vi sono ancora numerosi gruppi delle Forze di Mobilitazione Popolare, costituite per combattere l’ISIS, che fanno diretto riferimento a Teheran). Senza considerare che l’Iraq, in piena esplosione demografica ed in crescita economica spaventa nuovamente non poco Israele.

Anche in questo caso, però, vi sono stati dei riflessi negativi per l’“Occidente” e gli USA in particolare. Basti pensare alla crescente insofferenza dell’opinione pubblica nordamericana nei confronti di Israele. Una vera e propria “novità”, anche in ambienti conservatori legati all’evangelismo cristiano, da Tucker Carlson a Charlie Kirk (anch’esso assassinato in circostanze poco chiare, che pure aveva lungamente sostenuto Israele, salvo poi riconoscere la brutalità della pulizia etnica sionista poco prima di venire ucciso). E nel nuovo documento sulla strategia di sicurezza nazionale, per la prima volta, si parla apertamente di contrastare l’azione delle lobby che cercano di influenzare la politica estera USA e che vorrebbero trascinare gli stessi in guerre che poco hanno a che fare con i loro interessi diretti. Ovviamente, non vi è un riferimento diretto alla lobby sionista (lo stesso Donald J. Trump è stato eletto con il pieno sostegno di questa, mentre il Congresso USA rimane in larga parte sotto il pieno controllo dell’AIPAC). E ciò trasforma quanto scritto nel documento in una mera dichiarazione di intenti dal valore piuttosto cosmetico e propagandistico (come da tradizione trumpista) per tenere buona quella parte di elettorato che segue gli “influencer” conservatori critici nei confronti delle azioni dello “Stato ebraico”.

Infine, è tempo di analizzare ciò che sul Vicino Oriente viene detto nella nuova strategia di sicurezza nazionale. Innanzitutto, si legge nell’introduzione che l’amministrazione Trump avrebbe posto fine a otto conflitti, incluso quello di Gaza ovviamente. Sorvolando sul fatto che il ruolo USA nella risoluzione di alcuni di questi conflitti è stato del tutto marginale (per non di re nullo), bisogna considerare che (soprattutto per ciò che concerne il Medio Oriente, Hezbollah-Israele, Hamas-Israele, Iran-Israele, senza considerare i conflitti tra Congo e Ruanda e tra Cambogia e Thailandia) non vi è stata alcuna risoluzione, né tanto meno un congelamento degli stessi. A Gaza si continua a morire sotto le bombe ed un nuovo conflitto nel Libano meridionale è ormai alle porte. Ancora, in riferimento al conflitto Iran-Israele, si intravedono parecchie contraddizioni con la retorica ufficiale trumpista. Il presidente USA, a questo proposito, parlò di vittoria eclatante e totale contro Teheran dopo l’operazione che di fatto pose fine a quella che è stata definita come la “Guerra dei 12 giorni”. Nel documento, invece, si legge che il programma nucleare iraniano è stato sì compromesso ma niente affatto distrutto. Questo, paradossalmente, tiene spazi aperti a nuovi interventi futuri, auspicati da Israele ovviamente. E questo, ancora una volta, contrasta con quanto scritto nel documento a proposito dell’influenza negativa delle lobby straniere. Di fatto, tutto quanto fatto dagli USA negli ultimi anni nella regione è stato rivolto a “salvare” Israele dalle sue guerre infinite. E l’insofferenza delle monarchie del Golfo comincia ad essere rumorosa. Addirittura, al recente forum di Doha, Ahmed al-Shara, leader della Siria che piace all’Occidente (o meglio, sarebbe il caso di dire “ex-Siria”), è arrivato pure a condannare Israele come “esportatore di crisi”, visti anche i rinnovati tentativi di mantenere la Siria frammentata spingendo per l’autonomia delle aree controllate dai curdi o dalle milizie druse.

In generale, la nuova strategia di sicurezza “snobba” il Medio Oriente, sottolineando semplicemente l’interesse USA a garantire i flussi energetici e commerciali regionali verso l’esterno. Gli USA sembrano più intenzionati a concentrarsi sul loro emisfero, o sul sud-est asiatico (altro paradosso: viene fatto divieto a potenze esterne di interferire nell’emisfero occidentale, me gli Stati Uniti si riservano pieni diritti di pattugliare le rotte commerciali marittime in Asia). Nonostante ciò, le mire statunitensi su Gaza dicono qualcosa di ben diverso. E spiace dire che le astensioni di Cina e Russia sull’argomento al Consiglio di Sicurezza ONU (variamente motivate e motivabili) non aiutano di certo il popolo palestinese che, senza troppi giri di parole, è stato quello che più di ogni altro ha fatto e dato (con la sua drammatica resistenza) per agevolare uno sviluppo multipolare dell’ordine globale.

Infine, è utile sottolineare anche che gli Stati Uniti, in realtà, stanno configurando il loro presunto e progressivo disimpegno dal vicino oriente sin dall’era Obama. Tuttavia, al momento, non vi è  alcuna reale evidenza di ciò. Però, qualcosa è cambiato. Se in passato un paese come l’Arabia Saudita aveva bisogno degli USA (era una relazione in parte unilaterale, e dunque sbilanciata). Oggi, gli USA hanno bisogno dei soldi mediorientali (di quelli sauditi, di quelli de Qatar e così via, anche per sostenere il loro sforzo di re-industrializzazione interna ben avviato dall’amministrazione Biden attraverso la distruzione del tessuto industriale europeo a seguito del conflitto ucraino). E non bisogna dimenticare, in questo senso, che tali Paesi sono in primo luogo delle vere e proprie società per azioni che in aggiunta operano con precisi scopi geopolitici (il Qatar, ad esempio, a lungo è stato in crisi con l’Arabia Saudita in una lotta egemonica regionale tutta interna al campo sunnita non di poco conto). Bene, in Qatar c’è la più grande base nordamericana nella regione. E l’attacco israeliano al Qatar è stato quello che ha spinto gli USA a trovare almeno una soluzione di facciata alla questione di Gaza. Qui dal genocidio visibile si è passati a quello “normalizzato” ed oscurato dai nostri mezzi di informazione.

La National Security Strategy ed il Medio Oriente

Il documento sulla sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump dedica poco spazio al Medio Oriente, concentrandosi principalmente sull’emisfero occidentale e sul suo totale controllo da parte della potenza egemone americana. Tuttavia, non mancano alcuni spunti interessanti, sebbene già messi in evidenza dalle precedenti amministrazioni.

Segue nostro Telegram.

Prima di analizzare ciò che la nuova strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti dice sul Medio Oriente (poco più di una pagina), si rende necessario delineare una storia di quella che è stata la geopolitica nordamericana in questa parte di mondo.

Se si volesse individuare una data d’inizio precisa dell’interesse nordamericano per il Medio Oriente, questa è sicuramente il 1945. Nel febbraio del 1945, infatti, il presidente statunitense Franklin D. Roosevelt ed il sovrano saudita Abdulaziz bin Saud si incontrano sull’incrociatore statunitense USS Quincy, stazionato nel Mar Rosso in prossimità del Canale di Suez. Roosevelt si reca lì dopo la conferenza di Yalta, e qui viene stipulato un accordo di massima sulla sicurezza del Regno, sulla cooperazione petrolifera tra i due paesi e sul futuro dell’intera regione alla luce della crescente presenza sionista.

Il Regno saudita, è bene ricordarlo, nasce dalla particolare alleanza tra il clan tribale dei Saud ed il riformatore religioso Muhammad ibn Abd al-Wahhab (padre teorico del wahhabismo, corrente eterodossa e radicale dell’Islam ispirata alla scuola giuridica hanbalita). Un’alleanza che nasce nell’oasi di Dariya nel deserto del Najd, intorno alla metà del XVIII secolo. I sauditi tentano numerose volte di espandersi oltre i confini dello stesso Najd durante l’intero corso XIX secolo. Tuttavia, riescono nel loro intento solo con l’aiuto britannico, in chiave anti-ottomana, nel corso dei primi ’20 anni del XX secolo (si pensi al ruolo di sir John Philby, ufficiale dell’esercito britannico che fece per i sauditi ciò che fece il più noto Lawrence d’Arabia per gli hashemiti meccani). Questo fatto è curioso visto che i britannici riuscirono nell’impresa di tradire proprio gli hashemiti ben tre volte: con gli accordi segreti Sykes-Picot, con la dichiarazione Balfour e poi sostenendo segretamente l’offensiva saudita verso la Mecca negli anni ’20. Ad ogni modo, non è errato affermare che il Regno saudita, come tante altre costruzione statali nell’area, sia nato grazie alla protezione britannica.

Con la fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti accompagnano al declino la potenza britannica insieme all’URSS (l’altra potenza uscita vittoriosa dal conflitto). Di fatto, si sostituiscono a questa, sebbene i britannici mantengano alcune posizioni all’interno del Golfo Persico dalle quali poi vedranno la luce Paesi come Emirati Arabi Uniti e Qatar in una seconda fase del processo di decolonizzazione. L’Arabia Saudita diviene a tutti gli effetti dipendente dagli USA per la sua sicurezza. Tuttavia, è bene ricordare che inizialmente la strategia USA sul Vicino e Medio Oriente era concentrata essenzialmente sulla Turchia. La Turchia, almeno fino al 1967, è rimasta il principale alleato americano nella regione; il perno della geopolitica USA, centrale anche nella creazione del cosiddetto “patto di Baghdad” che avrebbe dovuto dare vita ad una sorta di NATO mediorientale (un sogno che rimane tuttora al centro della geopolitica statunitense nell’area). Una NATO mediorientale il cui obiettivo era contrastare la potenziale proiezione di influenza sovietica attraverso il Caucaso. Da non dimenticare che, a questo scopo, i marines statunitensi sbarcano in libano nel 1958 per evitare la creazione di un governo panarabista in stile nasseriano nel Paese dei Cedri.

Dopo il colpo di Stato (Operazione Ajax) che rovescia il governo nazionalista di Mossadeq in Iran, inoltre, anche questo diviene un pilastro della strategia regionale USA (Turchia e Iran, Stati non arabi, erano infatti destinati a fare da cani da guardia sui due lati del Medio Oriente). In aggiunta, a partire degli anni ’50, entrambi divengono stretti alleati di Israele in virtù della “dottrina periferica” di Ben Gurion, volta a ricercare alleati oltre la prima fascia di Stati arabi confinanti e ostili con il cosiddetto “Stato ebraico”. Da non sottovalutare, altresì, che anche in Iran gli Stati Uniti agiscono in teoria per aiutare i britannici a mantenere il controllo sull’industria petrolifera iraniana. Mentre, nella pratica, ancora una volta, prendono il posto di Londra.

Dal 1967 in poi, qualcosa cambia. Israele, a seguito della “guerra dei sei giorni”, diviene il primo recipiente degli aiuti militari statunitensi. Gli USA (soprattutto il binomio Nixon-Kissinger) lo trasformano nel nuovo punto fermo della geopolitica regionale di Washington per contrastare l’influenza sovietica, anche sotto notevole pressione della sempre più potente lobby sionista. Cosa ancora una volta curiosa se si pensa al fatto che, nel corso della “guerra dei sei giorni”, Israele attacca “accidentalmente” la USS Liberty (nave spia nordamericana stazionata nel Mar Rosso) uccidendo 34 marinai statunitensi. Ma questo aspetto rientra tra gli innumerevoli casi, citati dai politologi John Mearsheimer e Stephen Walt nel loro libro sull’influenza della lobby sionista nella politica estera degli Stati Uniti, in cui Israele ha agito a tutti gli effetti in modo ostile o contro gli interessi nazionali degli Stati Uniti. Da tenere a mente, a questo proposito, che il presidente Eisenhower, nel corso degli anni ’50, criticò a più riprese proprio il crescente ruolo della lobby sionista nel Congresso USA. Senza considerare la successiva opposizione di John F. Kennedy (sul cui omicidio permangono notevoli ombre di un possibile coinvolgimento israeliano) al programma nucleare segreto di Tel Aviv.

Ad ogni modo, Israele, grazie al ponte aereo americano nel 1973, riesce a superare indenne la cosiddetta “Guerra del Kippur” (o “Guerra del Ramadan”) e, addirittura, a passare all’offensiva, arrivando a quasi 100 km dal Cairo. Tra l’altro, in quella occasione, l’embargo petrolifero imposto dai Paesi arabi all’Occidente fu assai meno drammatico di come storicamente viene descritto. Il re saudita Faysal lo operò quasi controvoglia e rimanendo in stretto contatto con Washington. Cosa che non gli impedì comunque di venire assassinato qualche anno dopo, ancora una volta in circostanze più che misteriose.

Con l’approssimarsi del declino sovietico, la strategia regionale degli USA inizia a concentrarsi  su una sorta di “bilanciamento dei poteri”. Washington non voleva in alcun modo che nessuno Stato regionale si ergesse come potenza in grado di minacciare sia i suoi interessi che la “sicurezza” di Israele. Per questo motivo, durante la sanguinosa guerra Iran-Iraq, sostengono alternativamente le due parti in conflitto: ovvero, quando l’Iraq era sull’offensiva sostengono l’Iran (il celebre scandalo Iran-Contras); e quando l’Iran passa all’offensiva sostengono l’Iraq (ed alla fine del conflitto la bilancia degli aiuti pende nettamente a favore di Baghdad, anche a seguito dell’operazione Prayer Mantis che, nello specifico, contrasta le azioni iraniane nel Golfo Persico mentre lascia sostanziale libertà d’azione all’Iraq). Per il medesimo presupposto del bilanciamento dei poteri, arriva l’attacco all’Iraq del 1991. Questo, infatti, occupando il Kuwait come una sorta di “ricompensa” per il mancato sostegno arabo alla ricostruzione dopo il conflitto avrebbe enormemente aumentato le sue riserve petrolifere ed ottenuto un ben più ampio sbocco sul Golfo Persico che lo avrebbe reso capace di proiettare una ben più vasta influenza sull’intera regione.

A questo proposito, inoltre, bisogna considerare che se si dovesse applicare la teoria del geografo britannico Halford Mackinder dell’Heartland sul piano esclusivamente regionale, allora sarà facile individuare l’Heartland mediorientale in quello che è l’arco settentrionale del golfo persico: Arabia Saudita nord-orientale, Kuwait ed Iraq meridionale, Iran sud-occidentale. In altre parole, l’area più ricca di petrolio ed in cui la maggioranza della popolazione è sciita. Da qui derivano i timori generati dalla Rivoluzione Islamica a Teheran e dal sogno khomeinista di esportarla all’infuori dei confini iraniani. E da qui l’enfasi dei teorici neocon sul diretto controllo USA di questa particolare regione, ritenuta fondamentale per il pieno controllo dei flussi energetici globali e per costruire un vero e proprio “impero globale nordamericano” (come appare negli scritti prodotti dai Think Tank legati a questa particolare corrente di pensiero nata nei circoli ebraici nordamericani negli anni ’60 del secolo scorso). Nel 2003 arriva una nuova aggressione all’Iraq, il cui motivo reale non era di certo il rischio della fabbricazione di armi di distruzione di massa da parte di Baghdad, ma semplicemente il fatto che compagnie europee (soprattutto francesi e tedesche) stavano assumendo un ruolo egemonico all’interno dell’industria petrolifera irachena.

Ora, bisogna tenere a mente che i progetti neocon (il caos creativo, il piano sionista Yinon di parcellizzazione della regione lungo linee etno-settarie che risale addirittura agli anni ’80, le rivolte arabe indotte, le cosiddette “primavere” con le aggressioni contro Libia e Siria, e pure gli accordi di Abramo trumpisti) hanno in comune il medesimo obiettivo: creare un’area in cui l’egemonia USA non sia in alcun modo messa in discussione. Nonostante ciò, è necessario riconoscere che gli Stati Uniti, in Iraq come in Afghanistan d’altronde, hanno operato in modo geopoliticamente insensato (forse dettato anche dalla sostanziale ignoranza della realtà locale), favorendo inoltre in tutto e per tutto (paradossalmente) quello che è di gran lunga il principale rivale regionale: la Repubblica Islamica dell’Iran che, dopo il 2003, è riuscita ad acquisire un’influenza sull’Iraq che con Saddam al potere sarebbe stata impossibile. Dopo il 1991, gli USA (ed i britannici, che ogni qual volta hanno a che fare con il Vicino Oriente producono disastri immani) avevano pure favorito le ribellioni sciite nel sud dell’Iraq e quelle dei curdi nel nord, salvo poi abbandonare entrambi a se stessi ed alla feroce repressione del regime baathista.

Dunque non è errato affermare che l’Iran, grazie a loro (alla loro incapacità di comprendere la regione), è divenuto per lungo tempo il principale attore nell’area, grazie all’affermazione di Hezbollah in Libano, alle vittorie degli Houthi nello Yemen ed al contrasto all’azione terroristica dei movimenti legati ad al-Qaeda o al sedicente Stato Islamico in Siria e Iraq. Tuttavia, con l’assassinio del generale Soleimani (il vero e proprio deus ex machina di quello che è stato chiamato come “Asse della Resistenza”, sebbene in molti cerchino di sminuirlo indicandovi una mera ispirazione iraniana neosafavide), inizia quella che in altre occasioni è stata definita come “controffensiva occidentale”, culminata con la caduta di Damasco (con il tentativo di costituire il cosiddetto “corridoio di David”, che dovrebbe proiettare l’influenza israeliana sino ai confini con l’Iran) e la piena realizzazione del genocidio sionista in Palestina. Ancora oggi si assiste a nuovi tentativi di destabilizzare il Libano con le continue violazioni israeliane del cessate il fuoco (va da sé che il Libano può comunque essere considerato già di suo alla stregua di Stato semifallito), ed alle pressioni sul governo iracheno per limitare l’influenza iraniana al suo interno (vi sono ancora numerosi gruppi delle Forze di Mobilitazione Popolare, costituite per combattere l’ISIS, che fanno diretto riferimento a Teheran). Senza considerare che l’Iraq, in piena esplosione demografica ed in crescita economica spaventa nuovamente non poco Israele.

Anche in questo caso, però, vi sono stati dei riflessi negativi per l’“Occidente” e gli USA in particolare. Basti pensare alla crescente insofferenza dell’opinione pubblica nordamericana nei confronti di Israele. Una vera e propria “novità”, anche in ambienti conservatori legati all’evangelismo cristiano, da Tucker Carlson a Charlie Kirk (anch’esso assassinato in circostanze poco chiare, che pure aveva lungamente sostenuto Israele, salvo poi riconoscere la brutalità della pulizia etnica sionista poco prima di venire ucciso). E nel nuovo documento sulla strategia di sicurezza nazionale, per la prima volta, si parla apertamente di contrastare l’azione delle lobby che cercano di influenzare la politica estera USA e che vorrebbero trascinare gli stessi in guerre che poco hanno a che fare con i loro interessi diretti. Ovviamente, non vi è un riferimento diretto alla lobby sionista (lo stesso Donald J. Trump è stato eletto con il pieno sostegno di questa, mentre il Congresso USA rimane in larga parte sotto il pieno controllo dell’AIPAC). E ciò trasforma quanto scritto nel documento in una mera dichiarazione di intenti dal valore piuttosto cosmetico e propagandistico (come da tradizione trumpista) per tenere buona quella parte di elettorato che segue gli “influencer” conservatori critici nei confronti delle azioni dello “Stato ebraico”.

Infine, è tempo di analizzare ciò che sul Vicino Oriente viene detto nella nuova strategia di sicurezza nazionale. Innanzitutto, si legge nell’introduzione che l’amministrazione Trump avrebbe posto fine a otto conflitti, incluso quello di Gaza ovviamente. Sorvolando sul fatto che il ruolo USA nella risoluzione di alcuni di questi conflitti è stato del tutto marginale (per non di re nullo), bisogna considerare che (soprattutto per ciò che concerne il Medio Oriente, Hezbollah-Israele, Hamas-Israele, Iran-Israele, senza considerare i conflitti tra Congo e Ruanda e tra Cambogia e Thailandia) non vi è stata alcuna risoluzione, né tanto meno un congelamento degli stessi. A Gaza si continua a morire sotto le bombe ed un nuovo conflitto nel Libano meridionale è ormai alle porte. Ancora, in riferimento al conflitto Iran-Israele, si intravedono parecchie contraddizioni con la retorica ufficiale trumpista. Il presidente USA, a questo proposito, parlò di vittoria eclatante e totale contro Teheran dopo l’operazione che di fatto pose fine a quella che è stata definita come la “Guerra dei 12 giorni”. Nel documento, invece, si legge che il programma nucleare iraniano è stato sì compromesso ma niente affatto distrutto. Questo, paradossalmente, tiene spazi aperti a nuovi interventi futuri, auspicati da Israele ovviamente. E questo, ancora una volta, contrasta con quanto scritto nel documento a proposito dell’influenza negativa delle lobby straniere. Di fatto, tutto quanto fatto dagli USA negli ultimi anni nella regione è stato rivolto a “salvare” Israele dalle sue guerre infinite. E l’insofferenza delle monarchie del Golfo comincia ad essere rumorosa. Addirittura, al recente forum di Doha, Ahmed al-Shara, leader della Siria che piace all’Occidente (o meglio, sarebbe il caso di dire “ex-Siria”), è arrivato pure a condannare Israele come “esportatore di crisi”, visti anche i rinnovati tentativi di mantenere la Siria frammentata spingendo per l’autonomia delle aree controllate dai curdi o dalle milizie druse.

In generale, la nuova strategia di sicurezza “snobba” il Medio Oriente, sottolineando semplicemente l’interesse USA a garantire i flussi energetici e commerciali regionali verso l’esterno. Gli USA sembrano più intenzionati a concentrarsi sul loro emisfero, o sul sud-est asiatico (altro paradosso: viene fatto divieto a potenze esterne di interferire nell’emisfero occidentale, me gli Stati Uniti si riservano pieni diritti di pattugliare le rotte commerciali marittime in Asia). Nonostante ciò, le mire statunitensi su Gaza dicono qualcosa di ben diverso. E spiace dire che le astensioni di Cina e Russia sull’argomento al Consiglio di Sicurezza ONU (variamente motivate e motivabili) non aiutano di certo il popolo palestinese che, senza troppi giri di parole, è stato quello che più di ogni altro ha fatto e dato (con la sua drammatica resistenza) per agevolare uno sviluppo multipolare dell’ordine globale.

Infine, è utile sottolineare anche che gli Stati Uniti, in realtà, stanno configurando il loro presunto e progressivo disimpegno dal vicino oriente sin dall’era Obama. Tuttavia, al momento, non vi è  alcuna reale evidenza di ciò. Però, qualcosa è cambiato. Se in passato un paese come l’Arabia Saudita aveva bisogno degli USA (era una relazione in parte unilaterale, e dunque sbilanciata). Oggi, gli USA hanno bisogno dei soldi mediorientali (di quelli sauditi, di quelli de Qatar e così via, anche per sostenere il loro sforzo di re-industrializzazione interna ben avviato dall’amministrazione Biden attraverso la distruzione del tessuto industriale europeo a seguito del conflitto ucraino). E non bisogna dimenticare, in questo senso, che tali Paesi sono in primo luogo delle vere e proprie società per azioni che in aggiunta operano con precisi scopi geopolitici (il Qatar, ad esempio, a lungo è stato in crisi con l’Arabia Saudita in una lotta egemonica regionale tutta interna al campo sunnita non di poco conto). Bene, in Qatar c’è la più grande base nordamericana nella regione. E l’attacco israeliano al Qatar è stato quello che ha spinto gli USA a trovare almeno una soluzione di facciata alla questione di Gaza. Qui dal genocidio visibile si è passati a quello “normalizzato” ed oscurato dai nostri mezzi di informazione.

Il documento sulla sicurezza nazionale dell’amministrazione Trump dedica poco spazio al Medio Oriente, concentrandosi principalmente sull’emisfero occidentale e sul suo totale controllo da parte della potenza egemone americana. Tuttavia, non mancano alcuni spunti interessanti, sebbene già messi in evidenza dalle precedenti amministrazioni.

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Prima di analizzare ciò che la nuova strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti dice sul Medio Oriente (poco più di una pagina), si rende necessario delineare una storia di quella che è stata la geopolitica nordamericana in questa parte di mondo.

Se si volesse individuare una data d’inizio precisa dell’interesse nordamericano per il Medio Oriente, questa è sicuramente il 1945. Nel febbraio del 1945, infatti, il presidente statunitense Franklin D. Roosevelt ed il sovrano saudita Abdulaziz bin Saud si incontrano sull’incrociatore statunitense USS Quincy, stazionato nel Mar Rosso in prossimità del Canale di Suez. Roosevelt si reca lì dopo la conferenza di Yalta, e qui viene stipulato un accordo di massima sulla sicurezza del Regno, sulla cooperazione petrolifera tra i due paesi e sul futuro dell’intera regione alla luce della crescente presenza sionista.

Il Regno saudita, è bene ricordarlo, nasce dalla particolare alleanza tra il clan tribale dei Saud ed il riformatore religioso Muhammad ibn Abd al-Wahhab (padre teorico del wahhabismo, corrente eterodossa e radicale dell’Islam ispirata alla scuola giuridica hanbalita). Un’alleanza che nasce nell’oasi di Dariya nel deserto del Najd, intorno alla metà del XVIII secolo. I sauditi tentano numerose volte di espandersi oltre i confini dello stesso Najd durante l’intero corso XIX secolo. Tuttavia, riescono nel loro intento solo con l’aiuto britannico, in chiave anti-ottomana, nel corso dei primi ’20 anni del XX secolo (si pensi al ruolo di sir John Philby, ufficiale dell’esercito britannico che fece per i sauditi ciò che fece il più noto Lawrence d’Arabia per gli hashemiti meccani). Questo fatto è curioso visto che i britannici riuscirono nell’impresa di tradire proprio gli hashemiti ben tre volte: con gli accordi segreti Sykes-Picot, con la dichiarazione Balfour e poi sostenendo segretamente l’offensiva saudita verso la Mecca negli anni ’20. Ad ogni modo, non è errato affermare che il Regno saudita, come tante altre costruzione statali nell’area, sia nato grazie alla protezione britannica.

Con la fine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti accompagnano al declino la potenza britannica insieme all’URSS (l’altra potenza uscita vittoriosa dal conflitto). Di fatto, si sostituiscono a questa, sebbene i britannici mantengano alcune posizioni all’interno del Golfo Persico dalle quali poi vedranno la luce Paesi come Emirati Arabi Uniti e Qatar in una seconda fase del processo di decolonizzazione. L’Arabia Saudita diviene a tutti gli effetti dipendente dagli USA per la sua sicurezza. Tuttavia, è bene ricordare che inizialmente la strategia USA sul Vicino e Medio Oriente era concentrata essenzialmente sulla Turchia. La Turchia, almeno fino al 1967, è rimasta il principale alleato americano nella regione; il perno della geopolitica USA, centrale anche nella creazione del cosiddetto “patto di Baghdad” che avrebbe dovuto dare vita ad una sorta di NATO mediorientale (un sogno che rimane tuttora al centro della geopolitica statunitense nell’area). Una NATO mediorientale il cui obiettivo era contrastare la potenziale proiezione di influenza sovietica attraverso il Caucaso. Da non dimenticare che, a questo scopo, i marines statunitensi sbarcano in libano nel 1958 per evitare la creazione di un governo panarabista in stile nasseriano nel Paese dei Cedri.

Dopo il colpo di Stato (Operazione Ajax) che rovescia il governo nazionalista di Mossadeq in Iran, inoltre, anche questo diviene un pilastro della strategia regionale USA (Turchia e Iran, Stati non arabi, erano infatti destinati a fare da cani da guardia sui due lati del Medio Oriente). In aggiunta, a partire degli anni ’50, entrambi divengono stretti alleati di Israele in virtù della “dottrina periferica” di Ben Gurion, volta a ricercare alleati oltre la prima fascia di Stati arabi confinanti e ostili con il cosiddetto “Stato ebraico”. Da non sottovalutare, altresì, che anche in Iran gli Stati Uniti agiscono in teoria per aiutare i britannici a mantenere il controllo sull’industria petrolifera iraniana. Mentre, nella pratica, ancora una volta, prendono il posto di Londra.

Dal 1967 in poi, qualcosa cambia. Israele, a seguito della “guerra dei sei giorni”, diviene il primo recipiente degli aiuti militari statunitensi. Gli USA (soprattutto il binomio Nixon-Kissinger) lo trasformano nel nuovo punto fermo della geopolitica regionale di Washington per contrastare l’influenza sovietica, anche sotto notevole pressione della sempre più potente lobby sionista. Cosa ancora una volta curiosa se si pensa al fatto che, nel corso della “guerra dei sei giorni”, Israele attacca “accidentalmente” la USS Liberty (nave spia nordamericana stazionata nel Mar Rosso) uccidendo 34 marinai statunitensi. Ma questo aspetto rientra tra gli innumerevoli casi, citati dai politologi John Mearsheimer e Stephen Walt nel loro libro sull’influenza della lobby sionista nella politica estera degli Stati Uniti, in cui Israele ha agito a tutti gli effetti in modo ostile o contro gli interessi nazionali degli Stati Uniti. Da tenere a mente, a questo proposito, che il presidente Eisenhower, nel corso degli anni ’50, criticò a più riprese proprio il crescente ruolo della lobby sionista nel Congresso USA. Senza considerare la successiva opposizione di John F. Kennedy (sul cui omicidio permangono notevoli ombre di un possibile coinvolgimento israeliano) al programma nucleare segreto di Tel Aviv.

Ad ogni modo, Israele, grazie al ponte aereo americano nel 1973, riesce a superare indenne la cosiddetta “Guerra del Kippur” (o “Guerra del Ramadan”) e, addirittura, a passare all’offensiva, arrivando a quasi 100 km dal Cairo. Tra l’altro, in quella occasione, l’embargo petrolifero imposto dai Paesi arabi all’Occidente fu assai meno drammatico di come storicamente viene descritto. Il re saudita Faysal lo operò quasi controvoglia e rimanendo in stretto contatto con Washington. Cosa che non gli impedì comunque di venire assassinato qualche anno dopo, ancora una volta in circostanze più che misteriose.

Con l’approssimarsi del declino sovietico, la strategia regionale degli USA inizia a concentrarsi  su una sorta di “bilanciamento dei poteri”. Washington non voleva in alcun modo che nessuno Stato regionale si ergesse come potenza in grado di minacciare sia i suoi interessi che la “sicurezza” di Israele. Per questo motivo, durante la sanguinosa guerra Iran-Iraq, sostengono alternativamente le due parti in conflitto: ovvero, quando l’Iraq era sull’offensiva sostengono l’Iran (il celebre scandalo Iran-Contras); e quando l’Iran passa all’offensiva sostengono l’Iraq (ed alla fine del conflitto la bilancia degli aiuti pende nettamente a favore di Baghdad, anche a seguito dell’operazione Prayer Mantis che, nello specifico, contrasta le azioni iraniane nel Golfo Persico mentre lascia sostanziale libertà d’azione all’Iraq). Per il medesimo presupposto del bilanciamento dei poteri, arriva l’attacco all’Iraq del 1991. Questo, infatti, occupando il Kuwait come una sorta di “ricompensa” per il mancato sostegno arabo alla ricostruzione dopo il conflitto avrebbe enormemente aumentato le sue riserve petrolifere ed ottenuto un ben più ampio sbocco sul Golfo Persico che lo avrebbe reso capace di proiettare una ben più vasta influenza sull’intera regione.

A questo proposito, inoltre, bisogna considerare che se si dovesse applicare la teoria del geografo britannico Halford Mackinder dell’Heartland sul piano esclusivamente regionale, allora sarà facile individuare l’Heartland mediorientale in quello che è l’arco settentrionale del golfo persico: Arabia Saudita nord-orientale, Kuwait ed Iraq meridionale, Iran sud-occidentale. In altre parole, l’area più ricca di petrolio ed in cui la maggioranza della popolazione è sciita. Da qui derivano i timori generati dalla Rivoluzione Islamica a Teheran e dal sogno khomeinista di esportarla all’infuori dei confini iraniani. E da qui l’enfasi dei teorici neocon sul diretto controllo USA di questa particolare regione, ritenuta fondamentale per il pieno controllo dei flussi energetici globali e per costruire un vero e proprio “impero globale nordamericano” (come appare negli scritti prodotti dai Think Tank legati a questa particolare corrente di pensiero nata nei circoli ebraici nordamericani negli anni ’60 del secolo scorso). Nel 2003 arriva una nuova aggressione all’Iraq, il cui motivo reale non era di certo il rischio della fabbricazione di armi di distruzione di massa da parte di Baghdad, ma semplicemente il fatto che compagnie europee (soprattutto francesi e tedesche) stavano assumendo un ruolo egemonico all’interno dell’industria petrolifera irachena.

Ora, bisogna tenere a mente che i progetti neocon (il caos creativo, il piano sionista Yinon di parcellizzazione della regione lungo linee etno-settarie che risale addirittura agli anni ’80, le rivolte arabe indotte, le cosiddette “primavere” con le aggressioni contro Libia e Siria, e pure gli accordi di Abramo trumpisti) hanno in comune il medesimo obiettivo: creare un’area in cui l’egemonia USA non sia in alcun modo messa in discussione. Nonostante ciò, è necessario riconoscere che gli Stati Uniti, in Iraq come in Afghanistan d’altronde, hanno operato in modo geopoliticamente insensato (forse dettato anche dalla sostanziale ignoranza della realtà locale), favorendo inoltre in tutto e per tutto (paradossalmente) quello che è di gran lunga il principale rivale regionale: la Repubblica Islamica dell’Iran che, dopo il 2003, è riuscita ad acquisire un’influenza sull’Iraq che con Saddam al potere sarebbe stata impossibile. Dopo il 1991, gli USA (ed i britannici, che ogni qual volta hanno a che fare con il Vicino Oriente producono disastri immani) avevano pure favorito le ribellioni sciite nel sud dell’Iraq e quelle dei curdi nel nord, salvo poi abbandonare entrambi a se stessi ed alla feroce repressione del regime baathista.

Dunque non è errato affermare che l’Iran, grazie a loro (alla loro incapacità di comprendere la regione), è divenuto per lungo tempo il principale attore nell’area, grazie all’affermazione di Hezbollah in Libano, alle vittorie degli Houthi nello Yemen ed al contrasto all’azione terroristica dei movimenti legati ad al-Qaeda o al sedicente Stato Islamico in Siria e Iraq. Tuttavia, con l’assassinio del generale Soleimani (il vero e proprio deus ex machina di quello che è stato chiamato come “Asse della Resistenza”, sebbene in molti cerchino di sminuirlo indicandovi una mera ispirazione iraniana neosafavide), inizia quella che in altre occasioni è stata definita come “controffensiva occidentale”, culminata con la caduta di Damasco (con il tentativo di costituire il cosiddetto “corridoio di David”, che dovrebbe proiettare l’influenza israeliana sino ai confini con l’Iran) e la piena realizzazione del genocidio sionista in Palestina. Ancora oggi si assiste a nuovi tentativi di destabilizzare il Libano con le continue violazioni israeliane del cessate il fuoco (va da sé che il Libano può comunque essere considerato già di suo alla stregua di Stato semifallito), ed alle pressioni sul governo iracheno per limitare l’influenza iraniana al suo interno (vi sono ancora numerosi gruppi delle Forze di Mobilitazione Popolare, costituite per combattere l’ISIS, che fanno diretto riferimento a Teheran). Senza considerare che l’Iraq, in piena esplosione demografica ed in crescita economica spaventa nuovamente non poco Israele.

Anche in questo caso, però, vi sono stati dei riflessi negativi per l’“Occidente” e gli USA in particolare. Basti pensare alla crescente insofferenza dell’opinione pubblica nordamericana nei confronti di Israele. Una vera e propria “novità”, anche in ambienti conservatori legati all’evangelismo cristiano, da Tucker Carlson a Charlie Kirk (anch’esso assassinato in circostanze poco chiare, che pure aveva lungamente sostenuto Israele, salvo poi riconoscere la brutalità della pulizia etnica sionista poco prima di venire ucciso). E nel nuovo documento sulla strategia di sicurezza nazionale, per la prima volta, si parla apertamente di contrastare l’azione delle lobby che cercano di influenzare la politica estera USA e che vorrebbero trascinare gli stessi in guerre che poco hanno a che fare con i loro interessi diretti. Ovviamente, non vi è un riferimento diretto alla lobby sionista (lo stesso Donald J. Trump è stato eletto con il pieno sostegno di questa, mentre il Congresso USA rimane in larga parte sotto il pieno controllo dell’AIPAC). E ciò trasforma quanto scritto nel documento in una mera dichiarazione di intenti dal valore piuttosto cosmetico e propagandistico (come da tradizione trumpista) per tenere buona quella parte di elettorato che segue gli “influencer” conservatori critici nei confronti delle azioni dello “Stato ebraico”.

Infine, è tempo di analizzare ciò che sul Vicino Oriente viene detto nella nuova strategia di sicurezza nazionale. Innanzitutto, si legge nell’introduzione che l’amministrazione Trump avrebbe posto fine a otto conflitti, incluso quello di Gaza ovviamente. Sorvolando sul fatto che il ruolo USA nella risoluzione di alcuni di questi conflitti è stato del tutto marginale (per non di re nullo), bisogna considerare che (soprattutto per ciò che concerne il Medio Oriente, Hezbollah-Israele, Hamas-Israele, Iran-Israele, senza considerare i conflitti tra Congo e Ruanda e tra Cambogia e Thailandia) non vi è stata alcuna risoluzione, né tanto meno un congelamento degli stessi. A Gaza si continua a morire sotto le bombe ed un nuovo conflitto nel Libano meridionale è ormai alle porte. Ancora, in riferimento al conflitto Iran-Israele, si intravedono parecchie contraddizioni con la retorica ufficiale trumpista. Il presidente USA, a questo proposito, parlò di vittoria eclatante e totale contro Teheran dopo l’operazione che di fatto pose fine a quella che è stata definita come la “Guerra dei 12 giorni”. Nel documento, invece, si legge che il programma nucleare iraniano è stato sì compromesso ma niente affatto distrutto. Questo, paradossalmente, tiene spazi aperti a nuovi interventi futuri, auspicati da Israele ovviamente. E questo, ancora una volta, contrasta con quanto scritto nel documento a proposito dell’influenza negativa delle lobby straniere. Di fatto, tutto quanto fatto dagli USA negli ultimi anni nella regione è stato rivolto a “salvare” Israele dalle sue guerre infinite. E l’insofferenza delle monarchie del Golfo comincia ad essere rumorosa. Addirittura, al recente forum di Doha, Ahmed al-Shara, leader della Siria che piace all’Occidente (o meglio, sarebbe il caso di dire “ex-Siria”), è arrivato pure a condannare Israele come “esportatore di crisi”, visti anche i rinnovati tentativi di mantenere la Siria frammentata spingendo per l’autonomia delle aree controllate dai curdi o dalle milizie druse.

In generale, la nuova strategia di sicurezza “snobba” il Medio Oriente, sottolineando semplicemente l’interesse USA a garantire i flussi energetici e commerciali regionali verso l’esterno. Gli USA sembrano più intenzionati a concentrarsi sul loro emisfero, o sul sud-est asiatico (altro paradosso: viene fatto divieto a potenze esterne di interferire nell’emisfero occidentale, me gli Stati Uniti si riservano pieni diritti di pattugliare le rotte commerciali marittime in Asia). Nonostante ciò, le mire statunitensi su Gaza dicono qualcosa di ben diverso. E spiace dire che le astensioni di Cina e Russia sull’argomento al Consiglio di Sicurezza ONU (variamente motivate e motivabili) non aiutano di certo il popolo palestinese che, senza troppi giri di parole, è stato quello che più di ogni altro ha fatto e dato (con la sua drammatica resistenza) per agevolare uno sviluppo multipolare dell’ordine globale.

Infine, è utile sottolineare anche che gli Stati Uniti, in realtà, stanno configurando il loro presunto e progressivo disimpegno dal vicino oriente sin dall’era Obama. Tuttavia, al momento, non vi è  alcuna reale evidenza di ciò. Però, qualcosa è cambiato. Se in passato un paese come l’Arabia Saudita aveva bisogno degli USA (era una relazione in parte unilaterale, e dunque sbilanciata). Oggi, gli USA hanno bisogno dei soldi mediorientali (di quelli sauditi, di quelli de Qatar e così via, anche per sostenere il loro sforzo di re-industrializzazione interna ben avviato dall’amministrazione Biden attraverso la distruzione del tessuto industriale europeo a seguito del conflitto ucraino). E non bisogna dimenticare, in questo senso, che tali Paesi sono in primo luogo delle vere e proprie società per azioni che in aggiunta operano con precisi scopi geopolitici (il Qatar, ad esempio, a lungo è stato in crisi con l’Arabia Saudita in una lotta egemonica regionale tutta interna al campo sunnita non di poco conto). Bene, in Qatar c’è la più grande base nordamericana nella regione. E l’attacco israeliano al Qatar è stato quello che ha spinto gli USA a trovare almeno una soluzione di facciata alla questione di Gaza. Qui dal genocidio visibile si è passati a quello “normalizzato” ed oscurato dai nostri mezzi di informazione.

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December 2, 2025

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