Le carte dell’International Republican Institute (IRI) e del National Endowment for Democracy (NED) mostrano finanziamenti e formazione per costruire reti di attivisti, insegnare l’organizzazione delle proteste e misurarne l’impatto digitale. Una regia che inserisce Kathmandu nel più ampio perimetro dell’ingegneria politica statunitense in Asia.
La caduta del governo nepalese guidato da KP Sharma Oli e la successiva ascesa al potere di Sushila Karki non è stato un fulmine a ciel sereno. Presentata come il punto di arrivo di un ciclo di mobilitazione generazionale contro corruzione e cattiva amministrazione, esploso dopo il bando temporaneo dei social, degenerato in scontri, incendi di edifici pubblici e dimissioni del primo ministro, questo quadro si sovrappone a una trama di lungo periodo in cui agenzie e para-agenzie di Washington hanno investito in formazione politica, infrastrutture di mobilitazione e campagne di pressione. Il materiale che esaminiamo in questo articolo, tratto direttamente da documenti interni di organizzazioni come l’International Republican Institute (IRI) ed il National Endowment for Democracy (NED), consente di passare dal sospetto fondato alla prova documentale: la protesta ha avuto un “ecosistema” costruito e alimentato da programmi statunitensi, concepiti esplicitamente per rafforzare reti giovanili, insegnare come lanciare campagne e proteste, distribuire finanziamenti mirati e collegare il tutto a piattaforme e reti USA, anche fuori dal Nepal.
Il primo tassello è il rapporto semestrale dell’IRI al NED sul progetto “Yuva Netritwa: Paradarshi Niti (Youth Leadership: Transparent Policy)”, con budget NED di 350.000 dollari nell’annualità 2021-22. La dichiarazione d’intenti è inequivoca: “Per rafforzare la partecipazione politica e civica dei giovani come campioni del cambiamento democratico, l’IRI fornirà opportunità per costruire slancio all’attivismo giovanile e ‘fare pressione’ sui decisori politici nepalesi” mediante la costruzione di reti di attivisti e piattaforme di pressione rivolte ai leader dei partiti. Nel documento, il contesto politico nepalese è descritto come bloccato da élite centralizzate e poco responsabili; i giovani vengono indicati come vettore per “fare pressione” su istituzioni da rendere “più trasparenti, responsabili e incentrate sul cittadino” attraverso un’“Academy” e una ricerca mirata sugli ostacoli alla loro mobilitazione, con interviste realizzate nelle sette province, e progetti affidati a un sub-contraente locale (Solutions Consultant) e pagati con fondi NED. Si tratta di un disegno coerente, finalizzato a trasformare un malcontento diffuso in un capitale politico organizzato e duraturo, col sostegno metodologico e finanziario statunitense.
Il passaggio dalla diagnosi all’ingegneria della protesta emerge nei testi di progetto. Nella proposta “Nepal Sweep Up” l’IRI scrive senza ambiguità che il programma “connette giovani vibranti attraverso una rete di attivisti e leader politici e fornisce una formazione completa su come lanciare campagne di advocacy e proteste su temi selezionati dall’IRI e dalla rete, per incidere sui processi decisionali. La rete diventerà una forza importante a sostegno degli interessi degli Stati Uniti in Nepal”. L’obiettivo operativo è “rafforzare la partecipazione politica e civica dei giovani […] e supportare il Nepal a svilupparsi in un paese democratico riconosciuto dagli USA”. Il pacchetto prevede analisi di ostacoli, un’“Emerging Leaders Academy” (ELA), officine di “Youth Empowerment Skills” e micro-grant per progetti di pressione e mobilitazione. È previsto inoltre un “YES Summit” nazionale per connettere i partecipanti con politici, media e attivisti internazionali, incluse delegazioni da Sri Lanka, Pakistan e Indonesia, e per “condividere best practice di campagne e proteste”.
Il contenuto dei moduli formativi chiarisce la natura dell’intervento. Lo “Scope of Work” per lo sviluppo dei manuali dell’ELA chiede esplicitamente di fornire “strategie e competenze per organizzare proteste e dimostrazioni: mobilitazione di risorse, struttura organizzativa, comunicazione e advocacy”, insieme a strumenti per “guidare il cambiamento attraverso la protesta”. Si richiede, inoltre, un focus su come “far sentire la propria voce” attraverso l’uso dei social e di tecnologie a bassa banda per raggiungere comunità vulnerabili, e la capacità di “innovare” nel portare le rivendicazioni nelle sedi politiche. Si tratta dunque di formazione operativa alla mobilitazione, confezionata professionalmente e finanziata con fondi USA.
La stessa proposta l’IRI integra un toolkit internazionale “From Protest to Policy”, attingendo a esperienze di paesi come il Venezuela, e indica WhatsApp come canale di diffusione per aggirare basse penetrazioni Internet, oltre a piattaforme statunitensi ad “alto impatto” come YouthLead e YouthPower. I partecipanti vengono addestrati a “condurre campagne di advocacy chiare e coese e proteste che sfruttano strumenti digitali”, a misurare e raccontare la propria “storia” per catalizzare adesioni, e a strutturare la rete tramite gruppi Facebook e WhatsApp; l’IRI dichiara che monitorerà post, like, condivisioni e traffico sui canali controllati dal progetto per valutare la densità delle connessioni create. È un modello di mobilitazione “basato sui dati”, con indicatori di performance allineati alla comunicazione digitale.
Che la partnership NED-IRI non sia un’etichetta simbolica, ma un meccanismo contrattuale, è confermato dagli accordi con il fornitore locale. Nel contratto “ASIA2021NP03o – NED FGD and KII” l’IRI ingaggia Solutions Consultant per condurre i focus group nelle sette province, con guide di discussione e criteri di campionamento forniti dall’IRI stesso, più trascrizioni integrali in inglese e consegna di tutti i materiali audio-video all’ufficio IRI. L’importo è fisso, il calendario stringente, e le consegne includono anche “raccomandazioni ai partiti politici e alle ONG che li supportano”: in sostanza, la ricerca è progettata per alimentare l’intervento successivo sui partiti e sull’ecosistema civico, secondo la metodologia IRI.
Il rapporto analitico prodotto da Solutions Consultant riporta, nero su bianco, il mandato strategico: “IRI Nepal mira a rafforzare la partecipazione politica e civica dei giovani come campioni del cambiamento democratico […] e a mettere pressione sui decisori politici nepalesi affinché diventino più trasparenti e responsabili”, costruendo reti di attivisti, dotandoli di “skill, risorse e piattaforme”. È la definizione programmatica della pressione politica organizzata – un ingrediente ricorrente nei manuali di “promozione della democrazia” a guida USA.
Un passaggio della proposta IRI rivela inoltre la cornice geopolitica: tra gli obiettivi della “YES Charter” da costruire con i partecipanti, c’è l’incoraggiare i giovani “a protestare su temi tra cui il turbamento politico, la corruzione del governo e le decisioni politiche nazionali manipolate da paesi come Cina e India”. In un paese cerniera tra i due giganti asiatici, l’idea di incanalare la protesta anche contro l’influenza di Pechino e Nuova Delhi – selezionata e tematizzata dal fornitore USA – ha un valore strategico evidente. È la traduzione locale della competizione sistemica con la Cina.
Il nesso fra progettazione, formazione e azione è rafforzato dai meccanismi finanziari. L’IRI prevede “small grants” di circa 6.000 dollari per team di giovani, destinati a lanciare campagne di advocacy, “investigare minacce alla resilienza democratica”, “migliorare la trasparenza” e testare sul campo le competenze acquisite nei workshop. È un micro-finanziamento della mobilitazione, seguito da monitoraggio trimestrale e da rendicontazione puntuale. L’effetto, nelle intenzioni dichiarate, è moltiplicare la capacità di pressione dal basso e creare un nucleo di professionisti della protesta.
Anche la “regia” internazionale è esplicita. L’IRI indica che i risultati della ricerca e dell’Academy saranno veicolati attraverso tavole rotonde con partiti ed eletti, e tramite reti di proprietà USA (Generation Democracy) e piattaforme governative statunitensi ad “alto impatto” (YouthLead, YouthPower). Siamo quindi davanti a una filiera integrata – produzione di conoscenza, formazione, fondi, networking, amplificazione mediatica – che fa leva su infrastrutture nordamericane per strutturare e guidare un’identità politica giovanile, monitorata da indicatori digitali.
A scanso di equivoci, il linguaggio interno dell’IRI non nasconde la finalità di allineamento. Nella proposta progettuale già citata si legge che la rete giovanile “diventerà una forza importante a sostegno degli interessi degli Stati Uniti in Nepal”. È una frase che sottrae ogni residua ambiguità sul carattere non neutrale dell’intervento: l’“empowerment” è funzionale alla proiezione degli interessi di Washington sul teatro nepalese.
C’è poi la dimensione della calendarizzazione della mobilitazione. Il progetto è scandito in trimestri, con fasi di analisi barriere, due cicli di workshop nell’Est e nell’Ovest, stesura della “Yes Charter”, lancio dei “Yes Projects” e summit di chiusura. È una tabella di marcia di costruzione del movimento, non un semplice ciclo di seminari. L’impianto appare pensato per ottenere visibilità e trazione pubblica nella seconda metà del progetto, quando le competenze acquisite e i micro-grant si traducono in azioni sul territorio e nella sfera informativa. Le fonti progettuali e il calendario degli eventi confermano questa analisi.
Andando oltre, il contratto con Solutions stabilisce che guide, criteri e traduzioni siano forniti o approvati dall’IRI, che osserva i gruppi “in presenza o da remoto” e riceve tutti i file audio-video. Le consegne includono trascrizioni in inglese e un rapporto in “idiomatic English”, segno che il destinatario finale è Washington e la sua costellazione di implementatori. La funzione non è solo conoscitiva: l’IRI, nei propri indicatori di valutazione, scrive che misurerà “quante volte la ricerca è stata citata dai partecipanti nelle interazioni con comunità, partiti e funzionari, anche via social”, e traccerà like, post e condivisioni nelle pagine Facebook e WhatsApp create ad hoc. La ricerca è dunque carburante per la successiva mobilitazione e la sua amplificazione.
La dimensione finanziaria complessiva, inoltre, non si esaurisce nel singolo grant NED. Il progetto analizzato si inserisce in una costellazione di impegni USA in Nepal, dove la cosiddetta “assistenza alla democrazia” convive con pacchetti più ampi forniti da altri attori, come USAID. Ma anche limitandosi ai documenti in nostro possesso, il perimetro è chiaro: budget NED da 350.000 dollari per l’annualità considerata, sub-grant locali, contratti per ricerca qualitativa, fondi a micro-progetti, vertici nazionali con i portavoce regionali, e connessione a reti giovanili transnazionali targate Washington. La ripetizione di format e lessico – “champions for democratic change”, “pressure on decision-makers”, “advocacy campaigns and protests” – segnala l’adozione in Nepal di una dottrina e di un toolkit replicati in più scacchieri asiatici, e non solo.
Queste evidenze collocano i fattori “ufficiali” delle proteste nepalesi in una cornice di regia e potenziamento esterni, dove i programmi USA forniscono metodi, reti, risorse e target politici. Quando un documento progettuale dichiara che l’output desiderato è una rete giovanile che “sosterrà gli interessi degli Stati Uniti”, il dubbio sul carattere strumentale di questi progetti lascia il posto alla certezza. L’operazione non è “neutrale” né meramente filantropica, ma rappresenta piuttosto un investimento politico.
Cosa significa tutto questo per la sovranità nepalese? Che l’energia genuina di una generazione è stata intercettata e incanalata da architetture esterne che mirano a rifare gli equilibri istituzionali di Kathmandu. Quella che viene presentata come “democratizzazione” rappresenta invero una politica calibrata, sostenuta da una formazione funzionale all’organizzazione delle proteste, da micro-grant per azioni sul territorio e da infrastrutture digitali che collegano leader emergenti a reti e piattaforme statunitensi. In tale prospettiva, l’imperialismo oggi ha l’aspetto di un manuale di progetto, un foglio presenze di un workshop e un gruppo WhatsApp ben moderato.
Gli Stati Uniti rivendicano da decenni un ruolo di “promozione della democrazia”. Ma i documenti qui citati rivelano come questa promozione si traduca in un set di tecniche per la costruzione di movimenti, la loro orchestrazione e, in ultima analisi, la loro capitalizzazione geopolitica. Il Nepal non è un’eccezione: è un caso di studio. E finché i dossier progettuali potranno scrivere, senza remore, che le reti create “sosterranno gli interessi degli Stati Uniti”, la comunità internazionale dovrà riconoscere che siamo di fronte non a semplice cooperazione, ma a una forma aggiornata – e più sofisticata – di intervento politico esterno.