Pochi mesi e capiremo quanto l’accordo sarà servito ad una realpolitik per la trasformazione regionale.
Un accordo inaspettato, forse
Nella poca attenzione generale, negli scorsi giorni è avvenuto qualcosa di particolarmente rilevante per il futuro delle relazioni fra Arabia e Asia: Pakistan e Arabia Saudita hanno siglato un accordo storico di cooperazione, destinato a cambiare le geometrie delle due regioni. O almeno così sembra.
La firma dell’accordo strategico di mutua difesa (SMDA) tra Arabia Saudita e Pakistan il 17 settembre rappresenta un momento cruciale nella riconfigurazione delle architetture di sicurezza che abbracciano il Golfo e l’Asia meridionale. Sebbene Riyadh e Islamabad mantengano legami di cooperazione militare di lunga data sin dagli anni ’50 – con truppe pakistane di stanza nel Regno per l’addestramento e la protezione di siti sensibili – il nuovo accordo eleva decenni di pratica a trattato formale. Stabilendo che “qualsiasi aggressione contro uno dei due paesi sarà considerata un’aggressione contro entrambi” e comprendendo “tutti i mezzi militari” dalle forze armate alla condivisione di informazioni di intelligence e, potenzialmente, alla cooperazione nucleare, l’accordo traduce un rapporto di patrocinio e pragmatismo in un ombrello difensivo congiunto.
Questo sviluppo deve essere letto in un duplice contesto: la diversificazione dei partenariati di sicurezza da parte dell’Arabia Saudita a seguito del venir meno delle garanzie statunitensi e la ricerca di una rinnovata rilevanza da parte del Pakistan in un contesto di fragilità economica e tensioni regionali. Per Riyadh, il patto rafforza la deterrenza nei confronti dell’Iran e, più recentemente, di Israele, dopo che l’attacco a Doha ha accentuato i timori di una condotta militare incontrollata nella regione. Inoltre, protegge le scommesse del Regno approfondendo i legami con un partner di lunga data di Pechino, mentre segnala a Washington la sua capacità di agire in modo autonomo. Per Islamabad, l’accordo consolida la sua posizione di unica potenza nucleare a maggioranza musulmana con un ruolo credibile nella sicurezza del Golfo, garantendo le fondamentali linee di credito saudite in un momento di riserve precarie e di accresciuta instabilità politica. Tuttavia, questa simbolica elevazione da supplicante a partner strategico comporta il rischio di un’eccessiva espansione e di un potenziale coinvolgimento in conflitti – dallo Yemen all’Iran – che il Pakistan potrebbe non essere in grado di gestire.
Le implicazioni regionali sono molteplici. In primo luogo, l’accordo SMDA lega più strettamente la sicurezza del Golfo e dell’Asia, inserendo il Pakistan come attore formale nell’equazione della sicurezza del Golfo e coinvolgendo Riyadh nelle controversie dell’Asia meridionale, dalle tensioni di confine del Pakistan con l’India e l’Iran all’Afghanistan dei talebani. In secondo luogo, complica la fiorente partnership dell’Arabia Saudita con l’India. Nuova Delhi, che importa circa un quinto del suo greggio da Riyadh e ospita oltre 2,5 milioni di lavoratori indiani nel Regno, ha investito massicciamente nei legami energetici, commerciali e di difesa con l’Arabia Saudita, comprese esercitazioni congiunte e il Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC) lanciato al vertice del G20 del 2023.
Il simbolismo di Riyadh che si lega formalmente a Islamabad smentisce la narrativa di Delhi sul Pakistan come paese isolato, sollevando preoccupazioni che i calcoli strategici sauditi possano indebolire la posizione dell’India come partner asiatico preferito di Riyadh e accelerare indirettamente l’abbraccio strategico dell’India a Israele.
Lo sguardo di Israele
Anche Israele ne prenderà atto. La riaffermazione da parte dell’Arabia Saudita del suo legame con il Pakistan suggerisce che, anche se sta flirtando con la normalizzazione con Tel Aviv sotto l’incoraggiamento degli Stati Uniti, Riyadh non è disposta a rinunciare ai suoi vecchi partner in materia di sicurezza. Il ruolo del Pakistan, sebbene complicato, non è sacrificabile. Al contrario, Teheran continuerà probabilmente i suoi sforzi per ricostruire il dialogo con il Consiglio di cooperazione del Golfo, come dimostrato dalla visita di Ali Larijani a Riyadh il 16 settembre, ma interpreterà il patto saudita-pakistano come un formale schieramento del Regno con un vicino dell’Iran.
Le dinamiche interne del Pakistan aggiungono un ulteriore livello di complessità. Il governo Sharif, reduce da una quasi crisi con l’India nella primavera del 2025 e dopo aver aumentato la spesa per la difesa del 20% nel suo bilancio 2025-26 e aver istituito un nuovo Comando dell’esercito per le forze missilistiche, ha mostrato moderazione all’estero e determinazione in patria. Il capitale diplomatico guadagnato grazie a un’attenta gestione delle crisi è ora alla base dell’abbraccio saudita. Nessun trattato di difesa, però, può compensare le vulnerabilità strutturali del Pakistan: base imponibile ridotta, esportazioni stagnanti, recupero in corso dopo le inondazioni e persistente violenza militante. Senza trasparenza e controllo parlamentare, c’è il rischio che impegni segreti possano minare piuttosto che rafforzare la credibilità pakistana.
Per entrambe le parti sarà essenziale un attento bilanciamento. La politica estera multivettoriale dell’Arabia Saudita – mediazione con l’Iran sotto l’egida cinese, investimenti nel settore tecnologico indiano, mantenimento del coordinamento OPEC+ con la Russia e rassicurazione di Washington sulla sua utilità – lascia poco spazio ad allineamenti esclusivi. Da parte sua, il Pakistan deve tradurre il riconoscimento simbolico in un’influenza duratura senza soccombere a un impegno eccessivo, utilizzando il patto per espandere la cooperazione in materia di difesa, garantire gli investimenti e rafforzare la sua influenza nei forum multilaterali.
In una regione in cui i simboli influenzano le percezioni tanto quanto gli strumenti concreti, i jet sauditi che hanno scortato l’arrivo del primo ministro Shehbaz Sharif a Riyadh sono stati più di una semplice messinscena diplomatica: hanno segnalato all’intera regione che il Pakistan è stato reinserito nell’architettura di sicurezza in evoluzione del Golfo non solo come richiedente, ma come partner la cui posizione geografica e capacità militare continuano ad avere importanza. Che questo simbolismo si concretizzi dipenderà meno dalle manifestazioni cerimoniali che dalle riforme interne e da una politica estera disciplinata. Nella mutevole geometria del Golfo e dell’Asia meridionale, il riconoscimento è importante, ma lo sono anche la capacità e la chiarezza.
Se ne dovrà fare una ragione sia Israele, che ora rischia di veder ridimensionata la propria influenza in tutta la “area sciita”, sia gli Stati Uniti d’America, che potrebbero essere presto costretti a dover fare i conti con pressioni regionali inaspettate, capaci di farlo spostare dalla loro posizione acquisita.
Pochi mesi e capiremo quanto l’accordo sarà servito ad una realpolitik per la trasformazione regionale.