Che legame c’è tra l’omicidio di Charlie Kirk e Israele?
A diversi giorni di distanza, l’onda d’urto generata dall’assassinio di Charlie Kirk, attivista politico conservatore dotato di enorme popolarità soprattutto tra le frange più giovani del movimento Make America Great Again (Maga), non accenna ancora a placarsi.
Lo stesso Benjamin Netanyahu si è sentito in dovere di intervenire ripetutamente sul tema, dapprima dipingendo Kirk come uno strenuo e indefesso sostenitore di Israele, e successivamente sforzandosi di fugare qualsiasi sospetto circa il coinvolgimento dello Stato ebraico nell’omicidio.
Una presa di posizione, quest’ultima, assolutamente irrituale, considerando che non è finora emersa alcuna prova in grado di inchiodare Israele al di là di ogni plausibile dubbio. Sono invece circolate insistenti voci secondo cui il movente dell’assassinio potrebbe vertere sulla mutazione del punto di vista di Kirk riguardo al ruolo di Israele e alla sua influenza sugli Stati Uniti.
In qualità di fondatore del movimento Turning Point Usa, assurto rapidamente a più grande e influente organizzazione giovanile conservatrice della storia, Kirk aveva beneficiato già in giovanissima età sia dei fondi erogati da organismi riconducibili alla Israel Lobby quali il David Horowitz Freedom Center, presenziato a conferenze in Israele finanziate dal movimento sionista Im Tirtzu e sferrato violenti attacchi contro la presunta «conquista islamica dell’Occidente». Durante i suoi interventi, Kirk poneva costantemente l’accento sulle “radici giudaico-cristiane” degli Stati Uniti, e prendeva di mira con altrettanta sistematicità il movimento Boycott, Divestment, Sanctions (Bds), dotato di grande popolarità nei campus universitari.
Senonché, il giovane attivista, destinato secondo molti a una carriera politica di grande spessore, aveva avviato nel corso degli ultimi anni un graduale disallineamento dalle posizioni sposate dal governo di Tel Aviv rispetto a una serie di argomenti cruciali, contestando alcuni punti salienti della versione ufficiale degli eventi del 7 ottobre 2023 fornita da Israele e accostando pubblicamente il famigerato finanziere Jeffrey Epstein al Mossad. La mutazione del punto di vista di Kirk rifletteva i cambiamenti strutturali sollecitati in seno all’elettorato conservatore dai segmenti più giovani, collocati in larghissima parte su posizioni critiche verso Israele. Segno che l’ostilità nei confronti dello Stato ebraico rappresenta ormai un elemento trasversale alla società statunitense, come puntualmente rilevato dal presidente Trump quando, all’inizio di settembre, dichiarò che gli israeliani «potrebbero vincere la guerra [a Gaza], ma non stanno vincendo sul fronte delle pubbliche relazioni».
A luglio, in occasione dello Student Action Summit di Turning Point Usa tenutosi a Tampa Bay (Florida), Kirk invitò come ospiti personaggi iconici del movimento conservatore quali Tucker Carlson e Megyn Kelly, entrambi molto critici nei confronti di Israele e della politica mediorientale portata avanti dagli Stati Uniti. Carlson, in particolare, aveva bollato Epstein come risorsa del Mossad, e invocato la revoca della cittadinanza per gli ebrei statunitensi che si erano arruolati tra le fila dell’Israeli Defense Force anziché delle forze armate Usa. Dal palco di Tampa Bay, l’ex figura di spicco di «Fox News» ha attaccato pesantemente il magnate Bill Ackman, un sionista a 24 carati presentato come truffatore e accusato di aver elargito enormi finanziamenti per indurre l’università di Harvard a estromettere la presidente Claudine Gay con la falsa accusa di antisemitismo. Nel corso dell’evento, Kirk ha intavolato una discussione incentrata sul tema del sionismo mettendo a confronto Joshua Hammer, redattore dei «Newsweek» particolarmente vicino a Israele, e Dave Smith, un notissimo comico ebreo di idee diametralmente opposte capace di demolire con tagliente ironia le argomentazioni del rivale e ingraziarsi il favore del pubblico. Kirk, Carlson, Smith e la Kelly avevano sfruttato il vertice di Tampa Bay in una piattaforma di denuncia delle politiche israeliane e dell’indebita capacità di condizionamento che lo Stato ebraico è in grado di esercitare sugli Stati Uniti per tramite di organismi come l’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), che distribuiscono denaro a pioggia a congressisti di ogni schieramento politico.
Le reazioni non sono tardate a manifestarsi, con il ministro per gli Affari della Diaspora Amichai Chikli che ha duramente stigmatizzato la condotta di Kirk e dei suoi ospiti. Ma c’è molto di più. Una volta concluso lo Student Action Summit, sostiene il sempre lucido Max Blumenthal, «Kirk fu bombardato da messaggi di testo e telefonate infuriate da parte dei ricchi alleati di Netanyahu negli Stati Uniti, compresi molti che avevano finanziato Turning Point Usa. Secondo il suo amico di lunga data, i donatori sionisti trattarono Kirk con assoluto disprezzo, intimandogli di fatto di tornare ai suoi doveri». Secondo Blumenthal, che ha anche avuto modo di confrontarsi con due persone molto vicine a Kirk, quest’ultimo era rimasto profondamente turbato – come emerso plasticamente nel corso di una intervista rilasciata all’inizio di agosto dallo stesso Kirk a Megyn Kelly – dalle sollecitazioni a cui la Israel Lobby lo aveva sottoposto, promettendogli perfino nuove iniezioni di capitale a beneficio di Turning Point Usa come contropartita per un suo ritorno alle posizioni originarie riguardo a Israele. Una proposta avanzatagli su iniziativa di Netanyahu in persona, che Kirk avrebbe rifiutato suscitando grande frustrazione in seno alla Israel Lobby. Lo si ricava dall’intervista rilasciata il 6 settembre al fervente sionista Mark Levin di «Fox News» da Ben Shapiro, il più noto attivista pro-israeliano di tutta la galassia conservatrice profusosi in un duro attacco indiretto palesemente rivolto a Kirk. «Il problema quando costruisci una “grande tenda” – ha dichiarato Shapiro – è che potresti ritrovarti con molti pagliacci al suo interno. Non è sufficiente dichiarare la propria fede repubblicana per imporsi come predicatore della chiesa [conservatrice]. La persona adatta a guidare il movimento non può trascorrere tutto il suo tempo a criticare il presidente degli Stati Uniti, accusandolo di “coprire una rete di stupri del Mossad” o di “essere uno strumento attraverso cui gli israeliani hanno colpito un impianto nucleare iraniano”».
Quattro giorni dopo, Kirk è stato colpito a morte. A poche ore di distanza, lo stesso Shapiro ha annunciato l’intenzione di organizzare un tour di conferenze nei campus universitari, promettendo di «riprendere quel microfono macchiato di sangue dove Charlie lo ha lasciato».
Stando a quanto confidato allo stesso fondatore di «The Grayzone» da alcune fonti di alto livello interne alla Casa Bianca, «il risentimento di Kirk nei confronti di Netanyahu e della lobby israeliana si stava diffondendo all’interno della cerchia ristretta di Trump. In effetti, sostengono le fonti, il presidente stesso era terrorizzato da Netanyahu e temeva le conseguenze di una eventuale presa di distanza dal premier israeliano». Un timore tutt’altro che provo di fondamento, dal momento che, stando a quanto riferito a Blumenthal da un’altra “gola profonda”, i servizi segreti statunitensi avrebbero sorpreso alcuni membri dell’entourage di Netanyahu collocare dispositivi elettronici nelle automobili di pronto intervento in dotazione alle guardie del corpo del presidente. Una rivelazione che Blumenthal non ha avuto la possibilità di riscontrare, ma in linea con quanto riportato nel 2019 da «Politico» sulla base di confidenze rese da tre funzionari statunitensi, a detta dei quali non meglio specificati “agenti israeliani” avevano piazzato già nel primo mandato di Trump cimici «nei pressi della Casa Bianca e in altri luoghi sensibili di Washington». Nelle sue memorie, l’ex primo ministro britannico Boris Johnson ha delineato i contorni di un episodio simile, affermando che la sua squadra di sicurezza aveva trovato un dispositivo di intercettazione nel suo bagno personale pochi minuti dopo che Netanyahu ne aveva fatto uso.
Secondo Blumenthal, Kirk avrebbe raggiunto personalmente Trump per convincerlo a non sostenere la crociata anti-iraniana di Israele, ma sarebbe stato respinto dall’inquilino della Casa Bianca, che a quel punto era «totalmente controllato da Netanyahu». Nell’ottica di quest’ultimo, Kirk stava scarrellando verso posizioni particolarmente insidiose per Israele, perché reputato capace, grazie all’enorme seguito di cui godeva, di spostare la massa critica del conservatorismo statunitense verso posizioni strutturalmente disallineate rispetto agli interessi israeliani. Specialmente alla luce della sua ricerca attiva e – a quanto pare – fruttuosa di sponde interne al Congresso. Lo si ricava dalle rivelazioni formulate da Marjorie Taylor Greene, rappresentante repubblicana della Georgia, esponente di spicco del movimento Maga collocata su posizioni apertamente ostili a Israele e alla sua influenza sugli Usa e primo congressista a definire “genocidio” la campagna militare in corso nella Striscia di Gaza. Nel corso di una intervista rilasciata a Megyn Kelly, la Greene dichiarò che «Israele è l’unico Paese che conosco che abbia un simile livello di influenza e controllo su quasi tutti i miei colleghi», caldeggiò l’iscrizione dell’Aipac come organismo di pressione straniero ai sensi del Foreign Agents Registration Act e denunciò con forza la sudditanza di gran parte del Congresso a questa potente organizzazione. L’Aipac, tuonò la Greene «accompagna in Israele ogni singolo membro del Congresso al suo primo anno di mandato […]. Non so cosa facciano lì, ma vengono portati in tour, come dimostrano le fotografie che abbiamo visto di recente del presidente della Camera (Mike Johnson) e di altri membri del Congresso davanti al Muro del Pianto… Indossano la kippah… Non sono ebrei, ma indossano abiti ebraici e frequentano questi luoghi religiosi ebraici». È il caso del segretario di Stato Marco Rubio, che durante una sua recentissima visita in Israele si è recato presso il Muro del Pianto assieme all’ambasciatore Huckabee, altro esponente di spicco del sionismo statunitense. Lo scorso 27 agosto, la Green era stata invitata da Kirk a presenziare in qualità di oratrice all’AmericaFest 2025, evento annuale di Turning Point Usa previsto per dicembre a Phoenix, proprio sul tema dell’Aipac.
Non desta troppo stupore, alla luce di tali presupposti, che la frange isolazioniste e aderenti al principio “America first” interne al movimento Maga siano insorte in seguito all’assassinio di Kirk, trascinando apertamente Israele sul banco degli imputati e spingendo Netanyahu a recitare un’arringa difensiva dagli effetti altamente controproducenti. Anzitutto perché inscenata in risposta a semplici “voci di corridoio”, e quindi potenziale espressione della classica coda di paglia – excusatio non petita, accusatio manifesta. Allo stesso tempo, il “sermone” recitato dal primo ministro israeliano tradisce un senso di profonda insicurezza e inquietudine, derivante dalla pericolosa sovrapposizione tra la situazione alquanto problematica (sotto il profilo militare, geostrategico, politico, economico e sociale) che il suo Paese sta affrontando, il crescente isolamento diplomatico a cui è sottoposto e i sempre più concreti segnali di insofferenza nei confronti di Israele che si irradiano dalla base conservatrice statunitense.
Negli stessi giorni, Netanyahu denunciava per di più che, «attualmente, diverse entità sia statali che non stanno tentando di imporre un assedio a Israele […]. Un assedio che è anzitutto mediatico, con Paesi come Qatar e Cina che investono ingenti somme di denaro per influenzare i media occidentali e diffondere una narrazione anti-israeliana, utilizzando bot, intelligenza artificiale e altre forme di comunicazione. Apri il telefono e vieni bombardato da tutto questo, soprattutto su TikTok. È molto più potente dei media tradizionali [..]. Sono quindi riusciti a isolarci a livello globale? No. Gli Stati Uniti sono con noi, come molti altri Paesi, ma al momento abbiamo un problema concentrato nell’Europa occidentale, e stiamo agendo e continueremo ad agire per rompere questo assedio. Così come abbiamo fatto con l’assedio militare, allo stesso modo faremo anche con l’assedio diplomatico».
Cioè moltiplicando gli sforzi per marginalizzare le compagini isolazioniste o comunque portatrici di istanze incompatibili con gli interessi israeliani interne alla galassia conservatrice, attraverso una strategia comunicativa decisamente sottile. Netanyahu, dal canto suo, contribuisce alla causa rilasciando interviste sui media cosiddetti “alternativi”, perché correttamente individuati come la chiave d’accesso alle giovani generazioni statunitensi. Se con l’intervista concessa alla piattaforma «Triggernometry» Netanyahu può considerare in una certa misura raggiunte le finalità perseguite in materia di “pubbliche relazioni”, altrettanto non si può certo affermare in relazione alle esternazioni formulate ai microfoni di «Breitbart», consolidata cassa di risonanza delle frange più radicali dell’universo conservatore. Nel momento in cui Netanyahu ha tentato di affermare l’incompatibilità tra la permanenza all’interno del movimento Maga e l’adozione di posizioni critiche nei confronti di Israele e più in generale della politica mediorientale del tutto sbilanciata a favore dello Stato ebraico portata avanti da Washington, Steve Bannon ha risposto che le opinioni del primo ministro israeliano riguardo al movimento Maga non rivestono alcuna rilevanza. Ai cittadini statunitensi, ha tuonato Bannon, interessa piuttosto «smascherare le tue menzogne patologiche, così da tener fuori gli Stati Uniti dalla tua prossima guerra».
La Israel Lobby si muove parallelamente e in stretto coordinamento con Netanyahu, per tramite di figure estremamente influenti come Larry Ellison. Fondatore di Oracle, appaltatore di punta della Cia e del Pentagono, grande finanziatore dell’Israeli Defense Force e amico personale di Netanyahu a cui aveva offerto un posto nel consiglio d’amministrazione della potente azienda hi-tech (a sua volta strettamente collegata al complesso militar-industriale israeliano), Ellison è anche testimone dell’accusa nel processo per corruzione a carico del premier israeliano. Nonché soggetto pienamente coinvolto nel piano elaborato dall’amministrazione Trump per trasferire TikTok sotto controllo statunitense, e architetto di un’operazione concomitante finalizzata all’acquisto di Warner Bros Discovery, di cui «Cnn» e «Hbo» costituiscono parte integrante. Allo stesso tempo, Larry Ellison è azionista di peso del gruppo Paramount/Cbs, recentissimamente acquisito da suo figlio David e affidato in gestione a Bari Weiss, fondatrice di «Free Press» e grande sostenitrice di Israele. Segno che la classe dirigente dello Stato ebraico si appresta, con il supporto determinante della Israel Lobby e in linea con quanto preannunciato esplicitamente da Netanyahu, ad aprire un nono fronte di guerra, supplementare a quelli rappresentati da Striscia di Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Yemen, Iran e Qatar: l’opinione pubblica statunitense, con particolare riferimento a quella di fede conservatrice.
Si va quindi profilando un gigantesco polo mediatico egemonizzato da una figura molto vicina sia a Netanyahu che al presidente Trump, chiamato a barcamenarsi tra le pressioni esercitate dalle Israel Lobby (e dal premier israeliano in persona) e una base di sostegno sempre più ostile a Israele e ai suoi indebiti condizionamenti, alla quale sarà sempre più difficile far digerire iniziative come quella, rivelata recentissimamente dal «Wall Street Journal», consistente nel persuadere il congresso ad autorizzare la vendita di materiale militare a Israele per un controvalore di 6 miliardi di dollari.