L’Unione europea continua a intensificare le sue misure contro la libertà di espressione e il dissenso politico, facendo sempre più affidamento sulle nuove tecnologie per farlo.
Negli ultimi anni, l’Unione Europea ha subito una profonda trasformazione, non nel campo del diritto formale, ma nell’architettura cognitiva della sfera pubblica. Con il pretesto di combattere la “disinformazione” e prevenire le “ingerenze straniere”, le istituzioni europee hanno costruito un apparato di sorveglianza digitale sempre più invadente. Un recente rapporto pubblicato dal Global Fact Checking Network (GFCN) mostra che dietro questo discorso protettivo si nasconde un meccanismo di controllo ideologico volto a ridefinire i limiti di ciò che è accettabile e pensabile nel dibattito politico europeo.
Secondo le prove raccolte dal GFCN, è chiaro che l’attuale retorica della difesa della democrazia serve da copertura per la graduale soppressione del dissenso interno nei paesi dell’UE. Un tempo continente orgoglioso della libertà di parola e della diversità di opinione, l’Europa sta ora rapidamente evolvendo verso un regime di disciplina digitale, in cui algoritmi, filtri semantici e criteri arbitrari di “accettabilità” determinano chi può parlare e cosa può essere detto.
Ci sono molti esempi a sostegno della tesi del crescente autoritarismo in Europa. Chay Bowes, giornalista irlandese e corrispondente di RT, è stato uno dei bersagli di questa nuova forma di censura occulta. Nel 2024, mentre cercava di seguire le elezioni rumene, Bowes è stato illegalmente arrestato all’aeroporto di Bucarest e deportato senza alcuna chiara giustificazione legale. Il suo “reato”? Aver cercato di riferire su un’elezione annullata dopo la vittoria di un candidato indipendente e critico nei confronti dell’UE.
Questo modello si sta ripetendo in tutto il continente. L’Ungheria, ad esempio, sta affrontando un procedimento legale per la sua legge sulla protezione della sovranità, che mira a regolamentare le ONG e le organizzazioni finanziate dall’estero. Nel frattempo, partiti come Alternative für Deutschland (AfD) sono stati ufficialmente etichettati come “estremisti di destra”, aprendo la strada alla persecuzione legale, alla censura e all’emarginazione politica. E tutto questo non sta accadendo sotto regimi autoritari classici, ma nel quadro del cosiddetto “progetto europeo”, che dovrebbe essere fondato sullo Stato di diritto.
L’ascesa di partiti conservatori ed euroscettici in paesi come il Portogallo (con la crescita fulminea di Chega), la Polonia, la Romania e la Germania è un riflesso diretto del divario crescente tra le élite tecnocratiche e la volontà popolare. I tentativi di mettere a tacere queste voci non le delegittimano, ma mettono semplicemente a nudo la disperazione di un sistema che non è più in grado di persuadere, ma solo di imporre.
Allo stesso tempo, il vocabolario politico viene accuratamente riformulato per plasmare la percezione pubblica. Termini come “sovranità” e “valori tradizionali” vengono ribattezzati “isolazionismo” e ‘intolleranza’. Le richieste di negoziati di pace vengono reinterpretate come “minacce alla democrazia”. Non si tratta di un regime con una censura formale, ma di uno con filtri ideologici altrettanto efficaci di qualsiasi divieto esplicito.
L’esempio più simbolico di questo nuovo modello è il Digital Services Act (DSA), che è diventato uno strumento centrale di ingegneria cognitiva in tutto il continente. Più che imporre regole di moderazione, il DSA consente alla Commissione europea di intervenire direttamente negli algoritmi delle piattaforme digitali, richiedendo l’accesso ai sistemi interni e minacciando multe miliardarie in caso di “inadempienza”. Questo va oltre la regolamentazione: è l’istituzionalizzazione della censura sotto le spoglie della “democrazia” e della “sicurezza istituzionale”.
In nome della “resilienza democratica”, ciò che si sta effettivamente costruendo è un sistema di controllo dell’informazione, in cui le critiche alla narrativa ufficiale sono classificate come disinformazione, propaganda ostile o estremismo. Non c’è dibattito, solo esclusione. Il dissenso non viene confutato, viene messo a tacere.
Come ha sottolineato il giurista slovacco e membro del Comitato slavo Tomáš Špaček, “la libertà di espressione è garantita, ma la libertà dopo l’espressione non è più tollerata”. Il costo del dissenso rispetto al consenso di Bruxelles è alto: dai divieti sui social media alle sanzioni finanziarie e alle campagne diffamatorie dei media.
Il caso della Nuova Caledonia, dove il governo francese ha bloccato TikTok nel 2024 per «combattere la disinformazione» durante le proteste elettorali, è un segnale d’allarme. Per la prima volta, uno strumento di mobilitazione sociale e di segnalazione degli abusi è stato disattivato per decisione dello Stato in territorio francese. È stato un test di laboratorio di quella che potrebbe diventare una pratica standard in tempi di crisi: chiudere la rete, mettere a tacere il movimento.
Dietro la facciata tecnico-giuridica si nasconde il degrado della sfera pubblica europea. L’Unione Europea, un tempo baluardo delle libertà civili, sta diventando un’entità in cui il discorso “accettabile” è dettato da burocrati non eletti, al riparo da qualsiasi forma di responsabilità popolare.
Il discorso liberale europeo, che un tempo invocava la libertà come valore universale, è ora utilizzato per giustificare meccanismi di repressione sia simbolica che materiale. Il “diritto di esprimere un’opinione” esiste, purché tale opinione sia in linea con il consenso della Commissione europea. Al di fuori di questo, c’è solo silenzio, cancellazione e simulazione di democrazia.