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Giacomo Gabellini
August 15, 2025
© Photo: Public domain

Storia standard negli Stati Uniti, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sono più poveri

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L’1 gennaio 2018, il presidente Trump firmò il Tax Cuts and Jobs Act (Tcja), la riforma fiscale approvata dal Congresso nel dicembre dell’anno precedente a risicatissima maggioranza repubblicana e paragonabile per radicalità a quella introdotta da Reagan nel 1981. Nello specifico, la nuova legge introduceva sgravi netti per 1.500 miliardi di dollari entro un decennio e riduzioni generalizzate delle imposte sia a carico delle aziende che delle famiglie, sia dei super-ricchi che di quel che resta della middle-class. In concreto, il Tcja ha comportato la riduzione di cinque aliquote fiscali su sette – compresa quella più elevata, passata dal 39,6 al 37% – e limitato considerevolmente la portata dell’Alternative Minimum Tax, l’addizionale che fino al allora si applicava a circa 5 milioni di contribuenti ad alto reddito. Allo stesso tempo, la riforma ha decretato il taglio dell’aliquota sul reddito d’impresa dal 35 al 21%, con un risparmio per le imprese stimato in 1.461 miliardi di dollari nel decennio 2018-2027, e una sostanziale limitazione alle spese deducibili (tranne che per le piccole aziende e le società immobiliari), in specie per quanto riguarda le retribuzioni dei dirigenti superiori al milione di dollari. Per le aziende statunitensi ad alta redditività controllate da società straniere era prevista un’imposta minima del 10%, in conformità a quell’approccio territoriale alla tassazione di cui Trump aveva sottolineato con forza la necessità in campagna elettorale.

La riforma elaborata durante il primo mandato di George W. Bush rendeva i redditi generati all’estero tassabili soltanto a rimpatrio avvenuto, e ciò aveva rappresentato un forte incentivo per le imprese a continuare a parcheggiare i propri utili all’estero. Quella introdotta dall’amministrazione Trump aboliva invece questo sistema (worldwide) rendendo molto meno conveniente per le aziende lasciare i propri utili all’estero, grazie anche a uno scudo fiscale assai blando comprensivo di un’aliquota tra il 15,5 e l’8%.

Grazie al Tcja, la fascia super-élitaria della società statunitense composta da poco più di 400 famiglie ha avuto modo di pagare nel 2018, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un’aliquota fiscale effettiva – calcolata sommando le tasse federali a quelle statali e a quelle locali – inferiore a quella versata dalla categoria dei lavoratori semplici; 23 contro 24,2%. Un risultato dirompente, ma perfettamente coerente con il processo involutivo che, a partire dal secondo dopoguerra, ha visto gli Stati Uniti sprofondare in un aumento costante della disuguaglianza fiscale in conseguenza della progressiva torsione della struttura economica nazionale in funzione degli interessi riconducibili al settore Finance, Insurance and Real Estate. La quale ha comportato il trasferimento del carico fiscale sui consumatori, sul risparmio e sulla previdenza per accumulare un gettito sufficientemente imponente da compensare l’ammanco generato dall’abbassamento delle aliquote per le aziende disposte a mantenere la sede fiscale negli Usa, dall’espatrio dei profitti da parte delle imprese che si spostano verso i paradisi fiscali e dai vigorosi tagli delle tasse attuati nel corso dei decenni nei confronti dei ceti collocati sulla sommità della piramide sociale.

Nel 2018, denunciavano in tempo reale gli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, «ogni gruppo sociale versa nelle casse pubbliche dal 25 al 30% del proprio reddito, a eccezione dei super-ricchi, che versano appena il 20%. Il sistema fiscale americano si è ridotto a una gigantesca flat tax, tranne nella coda alta della distribuzione, dove diventa regressivo […]. Come gruppo sociale, e con tutte le differenze tra gli uni e gli altri, in America i Trump, i Zuckerberg e i Buffett pagano meno tasse di insegnanti e segretarie».

Il cosiddetto “Big, beautiful bill”, approvato dal Congresso all’inizio dell’estate dietro forti sollecitazioni di Trump, ha reso permanenti gli sgravi fiscali provvisori previsti dal Tcja, oltre a ridurre gli oneri fiscali su straordinari e a innalzare il tetto massimo alle detrazioni statali. Il piano prevede inoltre una decurtazione delle spese sanitarie – Medicaid in primis – pari a 1.100 miliardi e una pesante riduzione dei sussidi alle energie rinnovabili introdotti nell’ambito dell’Inflation Reduction Act, promulgato nell’estate del 2022 dal presidente Biden, necessari a finanziare l’espansione del bilancio del Pentagono (150 miliardi in dieci anni) e il potenziamento degli organismi preposti alla tutela della sicurezza dei confini (129 miliardi). Nel complesso, l’iniziativa prevede tagli fiscali per circa 4.500 miliardi di dollari in dieci anni, e appare inesorabilmente destinata a ingigantire il debito federale statunitense. Lo si evince dalle stime formulate dal Committee for a Responsible Federal Budget e dal Penn Wharton Budget Model. Il deputato repubblicano del Kentucky Thomas Massie ha votato contro il provvedimento, definendolo una «bomba debitoria a tempo» perché sprovvista delle necessarie coperture finanziarie. A suo avviso, la sostenibilità del “Big, beautiful bill” risulta eccessivamente dipendente dalle iperboliche previsioni di crescita formulate dall’amministrazione Trump, inclini a minimizzare gli elementi di vulnerabilità che caratterizzano l’economia statunitense.

Valutazioni dello stesso tenore sono state formulate dal budget lab di Yale, secondo cui l’impatto del “Big, beautiful bill” consisterà in una colossale travaso di ricchezza dalla base alla sommità della piramide sociale: in termini di reddito netto medio, si parla di una perdita annua pari a 560 dollari per il 20% più povero, e di un guadagno di 32.000 dollari per l’1% più ricco. Sotto questo aspetto, la nuova riforma fiscale risulta al pari del Tcja perfettamente coerente con la visione sposata dal Donald Trump basata sulla moltiplicazione di incentivi e benefici nei confronti di produttori e investitori, e sullo spostamento strutturale dell’iniziativa governativa dai settori di sanità e previdenza sociale verso sicurezza e difesa.

Quel 20% più ricco della popolazione statunitense preso in esame dal budget lab di Yale, sottolinea Moody’s, copre attualmente oltre la metà della spesa sostenuta complessivamente dai consumatori, a fronte di un appiattimento sostanziale dell’esborso da parte della fascia a medio reddito registrato a partire dall’inizio dell’anno. La decantata “resilienza del consumo interno” degli Stati Uniti, che rappresenta il 65-70% del Pil, è quindi frutto esclusivo di un incremento delle spese da parte dei redditi più alti, sfacciatamente agevolati dalla traiettoria fiscale disegnata dal Paese nel corso degli ultimi tempi. A risentirne è il restante 80% della popolazione, chiamato a sostenere oneri fiscali proporzionalmente superiori in un contesto di alta inflazione ed elevati tassi di interesse. Come scrive «Axios: «non solo i consumatori ricchi se la passano meglio. Anche le aziende più grandi stanno sovraperformando, mentre quelle piccole, maggiori datrici di lavoro, arrancano. Ciò può portare a crepe più grandi in un mercato del lavoro che si trova già in difficoltà. I cittadini statunitensi con meno disponibilità finanziarie hanno anche scarse possibilità di beneficiare dal rally dei prezzi delle azioni, che sono appannaggio in larghissima parte delle fasce ad alto reddito protagoniste dell’aumento dei consumi. Sembra che una manciata di ricchi americani e grandi aziende stiano tenendo a galla l’economia nazionale, mentre la maggior parte della popolazione lotta contro l’inflazione».

Significativamente, questa divaricazione per fasce che scandisce due dinamiche dei consumi distinte e contrapposte ha preso forma ancor prima che l’effetto generato dall’offensiva tariffaria scatenata dall’amministrazione Trump divenisse pienamente avvertibile. Nelle condizioni attuali, la pur necessaria attenuazione del colossale deficit di bilancio statunitense andrà inesorabilmente a colpire proprio quella classe media impoverita dall’inflazione, dagli alti tassi di interesse e da un regime fiscale sempre più regressivo.

Quanto millanta che i dazi starebbero generando un gigantesco flusso di capitali in entrata dal resto del mondo, Trump sta più o meno consapevolmente nascondendo la realtà sotto il tappeto: le tariffe le pagano le aziende importatici, che scaricano il sovraccosto sui consumatori.

La rifeudalizzazione degli Stati Uniti

Storia standard negli Stati Uniti, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sono più poveri

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La riforma elaborata durante il primo mandato di George W. Bush rendeva i redditi generati all’estero tassabili soltanto a rimpatrio avvenuto, e ciò aveva rappresentato un forte incentivo per le imprese a continuare a parcheggiare i propri utili all’estero. Quella introdotta dall’amministrazione Trump aboliva invece questo sistema (worldwide) rendendo molto meno conveniente per le aziende lasciare i propri utili all’estero, grazie anche a uno scudo fiscale assai blando comprensivo di un’aliquota tra il 15,5 e l’8%.

Grazie al Tcja, la fascia super-élitaria della società statunitense composta da poco più di 400 famiglie ha avuto modo di pagare nel 2018, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un’aliquota fiscale effettiva – calcolata sommando le tasse federali a quelle statali e a quelle locali – inferiore a quella versata dalla categoria dei lavoratori semplici; 23 contro 24,2%. Un risultato dirompente, ma perfettamente coerente con il processo involutivo che, a partire dal secondo dopoguerra, ha visto gli Stati Uniti sprofondare in un aumento costante della disuguaglianza fiscale in conseguenza della progressiva torsione della struttura economica nazionale in funzione degli interessi riconducibili al settore Finance, Insurance and Real Estate. La quale ha comportato il trasferimento del carico fiscale sui consumatori, sul risparmio e sulla previdenza per accumulare un gettito sufficientemente imponente da compensare l’ammanco generato dall’abbassamento delle aliquote per le aziende disposte a mantenere la sede fiscale negli Usa, dall’espatrio dei profitti da parte delle imprese che si spostano verso i paradisi fiscali e dai vigorosi tagli delle tasse attuati nel corso dei decenni nei confronti dei ceti collocati sulla sommità della piramide sociale.

Nel 2018, denunciavano in tempo reale gli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, «ogni gruppo sociale versa nelle casse pubbliche dal 25 al 30% del proprio reddito, a eccezione dei super-ricchi, che versano appena il 20%. Il sistema fiscale americano si è ridotto a una gigantesca flat tax, tranne nella coda alta della distribuzione, dove diventa regressivo […]. Come gruppo sociale, e con tutte le differenze tra gli uni e gli altri, in America i Trump, i Zuckerberg e i Buffett pagano meno tasse di insegnanti e segretarie».

Il cosiddetto “Big, beautiful bill”, approvato dal Congresso all’inizio dell’estate dietro forti sollecitazioni di Trump, ha reso permanenti gli sgravi fiscali provvisori previsti dal Tcja, oltre a ridurre gli oneri fiscali su straordinari e a innalzare il tetto massimo alle detrazioni statali. Il piano prevede inoltre una decurtazione delle spese sanitarie – Medicaid in primis – pari a 1.100 miliardi e una pesante riduzione dei sussidi alle energie rinnovabili introdotti nell’ambito dell’Inflation Reduction Act, promulgato nell’estate del 2022 dal presidente Biden, necessari a finanziare l’espansione del bilancio del Pentagono (150 miliardi in dieci anni) e il potenziamento degli organismi preposti alla tutela della sicurezza dei confini (129 miliardi). Nel complesso, l’iniziativa prevede tagli fiscali per circa 4.500 miliardi di dollari in dieci anni, e appare inesorabilmente destinata a ingigantire il debito federale statunitense. Lo si evince dalle stime formulate dal Committee for a Responsible Federal Budget e dal Penn Wharton Budget Model. Il deputato repubblicano del Kentucky Thomas Massie ha votato contro il provvedimento, definendolo una «bomba debitoria a tempo» perché sprovvista delle necessarie coperture finanziarie. A suo avviso, la sostenibilità del “Big, beautiful bill” risulta eccessivamente dipendente dalle iperboliche previsioni di crescita formulate dall’amministrazione Trump, inclini a minimizzare gli elementi di vulnerabilità che caratterizzano l’economia statunitense.

Valutazioni dello stesso tenore sono state formulate dal budget lab di Yale, secondo cui l’impatto del “Big, beautiful bill” consisterà in una colossale travaso di ricchezza dalla base alla sommità della piramide sociale: in termini di reddito netto medio, si parla di una perdita annua pari a 560 dollari per il 20% più povero, e di un guadagno di 32.000 dollari per l’1% più ricco. Sotto questo aspetto, la nuova riforma fiscale risulta al pari del Tcja perfettamente coerente con la visione sposata dal Donald Trump basata sulla moltiplicazione di incentivi e benefici nei confronti di produttori e investitori, e sullo spostamento strutturale dell’iniziativa governativa dai settori di sanità e previdenza sociale verso sicurezza e difesa.

Quel 20% più ricco della popolazione statunitense preso in esame dal budget lab di Yale, sottolinea Moody’s, copre attualmente oltre la metà della spesa sostenuta complessivamente dai consumatori, a fronte di un appiattimento sostanziale dell’esborso da parte della fascia a medio reddito registrato a partire dall’inizio dell’anno. La decantata “resilienza del consumo interno” degli Stati Uniti, che rappresenta il 65-70% del Pil, è quindi frutto esclusivo di un incremento delle spese da parte dei redditi più alti, sfacciatamente agevolati dalla traiettoria fiscale disegnata dal Paese nel corso degli ultimi tempi. A risentirne è il restante 80% della popolazione, chiamato a sostenere oneri fiscali proporzionalmente superiori in un contesto di alta inflazione ed elevati tassi di interesse. Come scrive «Axios: «non solo i consumatori ricchi se la passano meglio. Anche le aziende più grandi stanno sovraperformando, mentre quelle piccole, maggiori datrici di lavoro, arrancano. Ciò può portare a crepe più grandi in un mercato del lavoro che si trova già in difficoltà. I cittadini statunitensi con meno disponibilità finanziarie hanno anche scarse possibilità di beneficiare dal rally dei prezzi delle azioni, che sono appannaggio in larghissima parte delle fasce ad alto reddito protagoniste dell’aumento dei consumi. Sembra che una manciata di ricchi americani e grandi aziende stiano tenendo a galla l’economia nazionale, mentre la maggior parte della popolazione lotta contro l’inflazione».

Significativamente, questa divaricazione per fasce che scandisce due dinamiche dei consumi distinte e contrapposte ha preso forma ancor prima che l’effetto generato dall’offensiva tariffaria scatenata dall’amministrazione Trump divenisse pienamente avvertibile. Nelle condizioni attuali, la pur necessaria attenuazione del colossale deficit di bilancio statunitense andrà inesorabilmente a colpire proprio quella classe media impoverita dall’inflazione, dagli alti tassi di interesse e da un regime fiscale sempre più regressivo.

Quanto millanta che i dazi starebbero generando un gigantesco flusso di capitali in entrata dal resto del mondo, Trump sta più o meno consapevolmente nascondendo la realtà sotto il tappeto: le tariffe le pagano le aziende importatici, che scaricano il sovraccosto sui consumatori.

Storia standard negli Stati Uniti, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sono più poveri

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L’1 gennaio 2018, il presidente Trump firmò il Tax Cuts and Jobs Act (Tcja), la riforma fiscale approvata dal Congresso nel dicembre dell’anno precedente a risicatissima maggioranza repubblicana e paragonabile per radicalità a quella introdotta da Reagan nel 1981. Nello specifico, la nuova legge introduceva sgravi netti per 1.500 miliardi di dollari entro un decennio e riduzioni generalizzate delle imposte sia a carico delle aziende che delle famiglie, sia dei super-ricchi che di quel che resta della middle-class. In concreto, il Tcja ha comportato la riduzione di cinque aliquote fiscali su sette – compresa quella più elevata, passata dal 39,6 al 37% – e limitato considerevolmente la portata dell’Alternative Minimum Tax, l’addizionale che fino al allora si applicava a circa 5 milioni di contribuenti ad alto reddito. Allo stesso tempo, la riforma ha decretato il taglio dell’aliquota sul reddito d’impresa dal 35 al 21%, con un risparmio per le imprese stimato in 1.461 miliardi di dollari nel decennio 2018-2027, e una sostanziale limitazione alle spese deducibili (tranne che per le piccole aziende e le società immobiliari), in specie per quanto riguarda le retribuzioni dei dirigenti superiori al milione di dollari. Per le aziende statunitensi ad alta redditività controllate da società straniere era prevista un’imposta minima del 10%, in conformità a quell’approccio territoriale alla tassazione di cui Trump aveva sottolineato con forza la necessità in campagna elettorale.

La riforma elaborata durante il primo mandato di George W. Bush rendeva i redditi generati all’estero tassabili soltanto a rimpatrio avvenuto, e ciò aveva rappresentato un forte incentivo per le imprese a continuare a parcheggiare i propri utili all’estero. Quella introdotta dall’amministrazione Trump aboliva invece questo sistema (worldwide) rendendo molto meno conveniente per le aziende lasciare i propri utili all’estero, grazie anche a uno scudo fiscale assai blando comprensivo di un’aliquota tra il 15,5 e l’8%.

Grazie al Tcja, la fascia super-élitaria della società statunitense composta da poco più di 400 famiglie ha avuto modo di pagare nel 2018, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, un’aliquota fiscale effettiva – calcolata sommando le tasse federali a quelle statali e a quelle locali – inferiore a quella versata dalla categoria dei lavoratori semplici; 23 contro 24,2%. Un risultato dirompente, ma perfettamente coerente con il processo involutivo che, a partire dal secondo dopoguerra, ha visto gli Stati Uniti sprofondare in un aumento costante della disuguaglianza fiscale in conseguenza della progressiva torsione della struttura economica nazionale in funzione degli interessi riconducibili al settore Finance, Insurance and Real Estate. La quale ha comportato il trasferimento del carico fiscale sui consumatori, sul risparmio e sulla previdenza per accumulare un gettito sufficientemente imponente da compensare l’ammanco generato dall’abbassamento delle aliquote per le aziende disposte a mantenere la sede fiscale negli Usa, dall’espatrio dei profitti da parte delle imprese che si spostano verso i paradisi fiscali e dai vigorosi tagli delle tasse attuati nel corso dei decenni nei confronti dei ceti collocati sulla sommità della piramide sociale.

Nel 2018, denunciavano in tempo reale gli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, «ogni gruppo sociale versa nelle casse pubbliche dal 25 al 30% del proprio reddito, a eccezione dei super-ricchi, che versano appena il 20%. Il sistema fiscale americano si è ridotto a una gigantesca flat tax, tranne nella coda alta della distribuzione, dove diventa regressivo […]. Come gruppo sociale, e con tutte le differenze tra gli uni e gli altri, in America i Trump, i Zuckerberg e i Buffett pagano meno tasse di insegnanti e segretarie».

Il cosiddetto “Big, beautiful bill”, approvato dal Congresso all’inizio dell’estate dietro forti sollecitazioni di Trump, ha reso permanenti gli sgravi fiscali provvisori previsti dal Tcja, oltre a ridurre gli oneri fiscali su straordinari e a innalzare il tetto massimo alle detrazioni statali. Il piano prevede inoltre una decurtazione delle spese sanitarie – Medicaid in primis – pari a 1.100 miliardi e una pesante riduzione dei sussidi alle energie rinnovabili introdotti nell’ambito dell’Inflation Reduction Act, promulgato nell’estate del 2022 dal presidente Biden, necessari a finanziare l’espansione del bilancio del Pentagono (150 miliardi in dieci anni) e il potenziamento degli organismi preposti alla tutela della sicurezza dei confini (129 miliardi). Nel complesso, l’iniziativa prevede tagli fiscali per circa 4.500 miliardi di dollari in dieci anni, e appare inesorabilmente destinata a ingigantire il debito federale statunitense. Lo si evince dalle stime formulate dal Committee for a Responsible Federal Budget e dal Penn Wharton Budget Model. Il deputato repubblicano del Kentucky Thomas Massie ha votato contro il provvedimento, definendolo una «bomba debitoria a tempo» perché sprovvista delle necessarie coperture finanziarie. A suo avviso, la sostenibilità del “Big, beautiful bill” risulta eccessivamente dipendente dalle iperboliche previsioni di crescita formulate dall’amministrazione Trump, inclini a minimizzare gli elementi di vulnerabilità che caratterizzano l’economia statunitense.

Valutazioni dello stesso tenore sono state formulate dal budget lab di Yale, secondo cui l’impatto del “Big, beautiful bill” consisterà in una colossale travaso di ricchezza dalla base alla sommità della piramide sociale: in termini di reddito netto medio, si parla di una perdita annua pari a 560 dollari per il 20% più povero, e di un guadagno di 32.000 dollari per l’1% più ricco. Sotto questo aspetto, la nuova riforma fiscale risulta al pari del Tcja perfettamente coerente con la visione sposata dal Donald Trump basata sulla moltiplicazione di incentivi e benefici nei confronti di produttori e investitori, e sullo spostamento strutturale dell’iniziativa governativa dai settori di sanità e previdenza sociale verso sicurezza e difesa.

Quel 20% più ricco della popolazione statunitense preso in esame dal budget lab di Yale, sottolinea Moody’s, copre attualmente oltre la metà della spesa sostenuta complessivamente dai consumatori, a fronte di un appiattimento sostanziale dell’esborso da parte della fascia a medio reddito registrato a partire dall’inizio dell’anno. La decantata “resilienza del consumo interno” degli Stati Uniti, che rappresenta il 65-70% del Pil, è quindi frutto esclusivo di un incremento delle spese da parte dei redditi più alti, sfacciatamente agevolati dalla traiettoria fiscale disegnata dal Paese nel corso degli ultimi tempi. A risentirne è il restante 80% della popolazione, chiamato a sostenere oneri fiscali proporzionalmente superiori in un contesto di alta inflazione ed elevati tassi di interesse. Come scrive «Axios: «non solo i consumatori ricchi se la passano meglio. Anche le aziende più grandi stanno sovraperformando, mentre quelle piccole, maggiori datrici di lavoro, arrancano. Ciò può portare a crepe più grandi in un mercato del lavoro che si trova già in difficoltà. I cittadini statunitensi con meno disponibilità finanziarie hanno anche scarse possibilità di beneficiare dal rally dei prezzi delle azioni, che sono appannaggio in larghissima parte delle fasce ad alto reddito protagoniste dell’aumento dei consumi. Sembra che una manciata di ricchi americani e grandi aziende stiano tenendo a galla l’economia nazionale, mentre la maggior parte della popolazione lotta contro l’inflazione».

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The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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