La guerra dell’informazione può salvare più vite, ma miete più vittime.
Ragionando sul dominio
I recenti avvenimenti che hanno interessato l’India e il Pakistan, in un conflitto di breve durata, di carattere convenzionale e tempestivo, ci spingono ad una riflessione attenta sull’uso e la gestione della narrazione mediatica del medesimo conflitto.
Urge ricordare che il dominio dell’informazione ha a che fare con quello della mente; dunque il modo in cui si narra un evento definisce in buona parte la percezione che la massa avrà di esso. Controllare la narrative è controllare l’elemento maggioritario della dimensione cognitivo-percettiva.
Dunque, andiamo ai fatti. A poche ore dal massacro di 26 civili a Pahalgam, avvenuto il 22 aprile scorso, i principali media indiani avevano già emesso il loro giudizio, nessuna indagine era ancora stata avviata, nessuna rivendicazione attendibile era stata fatta, né tantomeno si era cercato di individuare responsabilità precise, eppure in brevissimo tempo la narrazione dominante era stata definita: la colpa era del Pakistan.
Ciò che è accaduto dopo rappresenta un nuovo punto critico nella guerra dell’informazione che ormai accompagna ogni momento di tensione tra India e Pakistan. Nei giorni successivi, infatti, l’Alta Commissione pakistana a Nuova Delhi ha subito espulsioni del personale, ai cittadini pakistani è stato imposto di lasciare l’India entro il 30 aprile, e si è avviata una decisa offensiva digitale. Dettaglio significativo è che le autorità indiane hanno bloccato canali YouTube pakistani, congelato profili social e messo sotto tiro le narrazioni provenienti dall’altra parte del confine.
Dal punto di vista di Islamabad, non si è trattato di una semplice risposta al terrorismo tramite i media, ma è stata, piuttosto, una forma di terrorismo informativo, un’occupazione del racconto. Ecco uno snodo chiave.
Il conflitto tra i due Paesi è da sempre segnato da propaganda, disinformazione e narrazioni infiammate dai media da ambo i lati e anche all’estero, dove c’è un continuo tentativo di immedesimazione nell’una o nell’altra fazione (come è normale che sia); ma nel 2025, il panorama informativo non è solo oggetto di contesa, bensì è diventato un terreno colonizzato.
Il Pakistan, sempre più marginalizzato nei grandi spazi digitali internazionali, si trova a combattere una guerra narrativa in condizioni di svantaggio. Il modo in cui i media indiani hanno raccontato l’attacco di Pahalgam segue un copione ormai collaudato: fonti d’intelligence vaghe, informazioni presentate come fatti accertati, talk show dai toni incendiari lanciati ben prima che emergessero prove concrete. Anche dopo la ferma smentita dal Pakistan e la richiesta di un’indagine congiunta, la stampa indiana ha continuato la sua corsa. Testate come Times Now e Republic TV hanno immediatamente lanciato titoli allarmistici: “Torna il terrorismo sponsorizzato dal Pakistan”, “È tempo di una risposta militare”. Termini come “atroce”, “finanziato dallo Stato” e “attacco chirurgico” hanno dominato le trasmissioni, mentre le indagini scientifiche erano ancora in fase iniziale.
Nessuna verifica indipendente – fate attenzione a questo dettaglio – è stata resa pubblica. Le rare voci pakistane invitate in trasmissioni televisive sono state puntualmente messe sotto attacco. Nessuna cautela editoriale, nessun equilibrio.
È giusto riconoscere che anche il Pakistan ha un passato complicato con la libertà di stampa e con il controllo delle narrazioni da parte delle autorità, ma ciò che emerge oggi non è un conflitto simmetrico, bensì un silenzio squilibrato.
Il 25 aprile, il Ministero indiano dell’Informazione ha vietato 16 canali YouTube, 94 account social e 6 siti di notizie legati al Pakistan. Il motivo ufficiale? “Tutela della sicurezza nazionale e della sovranità”. Il risultato concreto: il blocco di pressoché qualsiasi punto di vista alternativo o critico, specialmente su temi come il Kashmir, l’attacco a Pahalgam o le relazioni bilaterali. Tra le piattaforme colpite vi erano anche media indipendenti come Naya Daur, canali gestiti da studiosi pakistani all’estero e contenuti culturali privi di affiliazione politica. Parallelamente, le unità di fact-checking ufficiali hanno lanciato una campagna per smascherare quella che definivano “disinformazione pakistana”, ma tra i contenuti rimossi vi erano anche materiali basati su fonti internazionali autorevoli, articoli d’archivio ancora validi, e dichiarazioni decontestualizzate. Il risultato è stato un restringimento netto dello spazio di libertà d’espressione e della possibilità di accedere ad alcune fonti locali. Neppure le comunicazioni diplomatiche sono state risparmiate. Il Ministero degli Esteri pakistano ha visto oscurati molti dei suoi post ufficiali su X (ex Twitter), incluse dichiarazioni che invitavano alla calma. Il 29 aprile, l’hashtag #FalseFlagPahalgam, molto condiviso in Pakistan, era praticamente invisibile sulle piattaforme accessibili dal territorio indiano.
La tensione ha raggiunto un nuovo picco il 7 maggio 2025, quando l’India ha colpito obiettivi civili e militari in Punjab e nel Kashmir controllato dal Pakistan, scatenando timori di una grave escalation. Islamabad ha definito l’operazione “un atto di guerra flagrante” e ha annunciato l’abbattimento di cinque jet indiani, tre dei quali sono stati confermati anche dai media internazionali. Il Pakistan ha dichiarato di aver abbattuto cinque jet militari indiani. L’India non ha ancora risposto ufficialmente a questa accusa, ma fonti governative anonime hanno fatto sapere che tre caccia sono precipitati nel Kashmir sotto controllo indiano, senza confermare però se appartenessero effettivamente all’India o al Pakistan.
Asimmetrie geopolitiche
È proprio in questa sproporzione che si percepisce la vera asimmetria. L’India, grazie alle sue risorse tecnologiche, ai suoi legami con le grandi piattaforme globali e alla sua capacità di influenzare gli algoritmi, controlla il racconto digitale. Il Pakistan, invece, ne è spesso vittima. Il risultato è una guerra unilaterale delle narrazioni, in cui Delhi definisce i termini del dibattito e Islamabad è relegata al ruolo di colpevole designato.
Le conseguenze interne non sono meno gravi: aumento della islamofobia, omologie fra identità kashmira e jihadismo, qualche tensione localizzata. Hashtag come #PunishPakistan e #MuslimTerror hanno trovato ampia diffusione senza controllo, mentre le risposte pakistane che denunciavano violenze o discriminazioni venivano etichettate come disinformazione e cancellate.
Questa doppia misura non fa che alimentare il radicalismo su entrambe le sponde. Spinge i giovani pakistani verso ambienti chiusi e polarizzati, e rende sempre più difficile la costruzione di ponti pacifici tra i due popoli. Quello che un tempo era uno spazio per la diplomazia culturale, è oggi un campo minato digitale. Il silenzio delle big tech e dei media occidentali di fronte alla censura esercitata dall’India è significativo: quando è un regime autoritario a reprimere il dissenso, si parla di tirannia, quando lo fa l’India, in nome della “sicurezza nazionale”, viene lodata come moderata. Il Pakistan ha chiesto la possibilità di difendersi a livello informativo e gli è di fatto stata negata, rimanendo in uno svantaggio internazionale.
L’assenza di un vero controllo giornalistico segnala un male più profondo: la narrazione ha preso il posto dei fatti. La lotta per il dominio si combatte ora a colpi di tweet, titoli e talk show.
A questo livello di conflitto, il divario fra ciò che è vero e ciò che è verosimile diventa molto complicato da discernere. Capite quanto è potente questo strumento? Il frame entro cui viene inserita la narrazione è quello che determina il modo in cui si “costruirà la verità” di quel fatto.
L’esempio di India e Pakistan ci insegna che non serve far sparare i fucili, nemmeno in un conflitto storico come il loro. Sono le parole a funzionare molto di più. Perché anche quando i fucili avranno sparato, ci saranno comunque “fucili buoni” e “fucili cattivi”, e quel giudizio di valore sarà dato dal modo in cui la gente percepirà l’accaduto, non da una verità oggettiva o comunque concordabile razionalmente.
In tutto ciò, la grande vittoria mediatica è che si è aperto un fronte narrativo facilmente utilizzabile anche da altre potenze globali e che potrebbe venire impiegato da alcune di esse per trascinare in un conflitto di informazione anche altri Paesi avversari. Russia, Cina, UK e USA hanno interessi in gioco e potrebbero diventare parte di questo fronte di infowar allargato. Perché nel mondo dell’informazione, la guerra non ha i limiti dello spazio e del tempo che ha la guerra convenzionale: tutto è veloce, fluido, si espande e contrare costantemente, non conosce notte o giorno.
La guerra dell’informazione può far risparmiare più vite umane, ma miete più vittime. Vite risparmiate perché si può evitare di uccidere direttamente; vittime perché tutti coloro che vengono coinvolti saranno colpiti dall’arma dell’informazione, inevitabilmente.