L’Iran definisce Israele il principale ostacolo alla non proliferazione nucleare. Storia del programma nucleare di Israele di Giacomo Gabellini parte 3.
Una volta sabotato il programma egiziano, il primo ministro Golda Meir e il ministro della Difesa Moshe Dayan concordarono di schierare missili Jericho-1 e di tenere pronti al decollo i bombardieri strategici consegnati dagli Stati Uniti per colpire con non meno di 13 testate atomiche da 20 kilotoni l’Egitto e la Siria in caso di un eventuale peggioramento del complicato scenario bellico del 1973. La Guerra dello Yom Kippur favorì l’accelerazione del programma nucleare di Israele, che nel giro di pochi anni riuscì a mettere a punto una molto più rapida procedura di arricchimento dell’uranio e a sfornare testate miniaturizzate adattabili ai cannoni da 175 e 203 mm messi a disposizione dagli Usa.
Una svolta resa possibile dai legami strategici che Israele aveva intessuto nel corso degli anni precedenti con il Sud Africa, che nel 1969 aveva lanciato un proprio programma nucleare rifiutandosi al pari di Israele di sottoscrivere il Trattato di Non Proliferazione. Il processo di avvicinamento al regime di Pretoria, motivato dall’esigenza di rompere l’isolamento internazionale in cui Israele era piombato in seguito alla Guerra dello Yom Kippur, culminò nel 1976, quando il primo ministro laburista Yitzhak Rabin ricevette con tutti gli onori il premier sudafricano John Vorster passando con grande disinvoltura sul comprovato passato filo-nazista di quest’ultimo. La visita di Vorster, che aveva ricevuto un invito formale da Tel Aviv, spianò il terreno per una proficua collaborazione, in base alla quale gli scienziati israeliani fornivano assistenza tecnica ai loro colleghi sudafricani per la realizzazione di armi nucleari in cambio della consegna di qualcosa come 600 tonnellate di uranio allo Stato ebraico. La cooperazione sottobanco proseguì senza intoppi, portando Tel Aviv persino a riconoscere l’indipendenza del bantustan del Bophuthatswana e a permettere ai suoi rappresentanti di aprire una sorta di ambasciata a Tel Aviv.
Oltre all’appoggio israeliano, il regime sudafricano al poteva contare sul supporto degli Usa e – nonostante l’uscita di Pretoria dal Commonwealth decisa nel 1961 – della Gran Bretagna, i quali misero in piedi di una complessa triangolazione che consentì a Pretoria di aggirare l’embargo sulle forniture militari imposto dall’Onu nel 1977 e ricevere materiale e assistenza di tipo bellico da tecnici israeliani. Nel 1975 vennero così effettuati i primi test congiunti sotto la superficie del Deserto del Kalahari, seguiti da almeno un’altra sperimentazione che ebbe luogo il 22 novembre del 1979 al largo delle Isole del Principe Edoardo, dove un satellite statunitense di tipo Vela rilevò un lampo improvviso “di origine sconosciuta”. In realtà, le immagini satellitari mostravano un doppio flash tipico delle esplosioni nucleari, come rilevò fin da subito Leonard Weiss, matematico ed esperto di fisica atomica che all’epoca lavorava come consulente del Senato Usa. Sia l’amministrazione Carter che quelle successive guidate da Reagan si mobilitarono per impedire a Weiss di rendere pubbliche le sue conclusioni riguardo all’episodio, in quanto ciò «avrebbe creato un gravissimo problema di politica estera per gli Stati Uniti». Conseguenza diretta del proficuo lavoro svolto in maniera congiunta tra i tecnici israeliani e sudafricani fu il ragguardevole potenziamento dell’arsenale nucleare dello Stato ebraico e l’entrata di Pretoria nel club atomico, da cui il Sud Africa sarebbe uscito nel 1990, dopo la caduta del regime dell’apartheid, con lo smantellamento dei sei ordigni che costituivano l’arsenale atomico israeliano.
Nel 2010, il «Guardian» ha pubblicato, suscitando forti proteste israeliane, alcuni documenti declassificati dal governo di Nelson Mandela negli anni ’90 che dimostrano i frequenti incontri tenutisi tra i rappresentanti dei due Paesi per tutti gli anni ‘70. Dalla massa di materiale declassificato è saltato fuori, grazie al lavoro di archivio del ricercatore statunitense Sasha Polakow-Suransky, un documento di particolare interesse che fa riferimento a un vertice del 21 marzo 1975, nel corso del quale il comandante delle forze armate sudafricane Raymond Fullarton Armstrong aveva espresso un certo interesse per i missili Jericho-1. L’interessamento aveva posto le basi per un colloqui faccia a faccia, tenutosi il 4 giugno 1975, tra il ministro della Difesa israeliano Shimon Peres e il suo omologo sudafricano Pieter Willem Botha tenutosi il 4 giugno successivo, durante il quale venne elaborato il Progetto Chalet, che prevedeva la vendita al Sud Africa di alcuni Jericho-1 e delle relative testate di tipologia sia convenzionale, che chimica che nucleare. Il fallimento dell’affare a causa di divergenze sui costi non guastò tuttavia le relazioni bilaterali, che rimasero sufficientemente solida da portare i due ministri a firmare, nel medesimo periodo, un’intesa che sanciva un cospicuo allargamento della collaborazione militare. I rapporti con il Sud Africa hanno cominciato a deteriorarsi con il nuovo corso imposto dall’African National Congress (Anc), il partito di Mandela represso per decenni dal regime boero alleato di Israele, legato all’Olp e sostenitore della campagna di boicottaggio e sanzioni contro lo Stato ebraico.
Un altro duro colpo al “muro di gomma” eretto da Tel Aviv fu assestato nel 1986 dal tecnico israeliano Mordechai Vanunu, che dopo essere scappato dalla centrale di Dimona in cui lavorava rivelò al «Sunday Times» che Israele era ormai da tempo in possesso di un arsenale nucleare segreto, nonostante le autorità di Tel Aviv avessero ripetutamente smentito le voci che circolavano a questo riguardo. I redattori del giornale britannico, consapevoli di avere tra le mani uno scoop esplosivo destinato a suscitare l’ira di Tel Aviv, si erano cautelati consultando i più autorevoli esperti in materia prima di pubblicare la notizia. Avevano quindi chiesto a Frank Barnaby, un autorevole fisico britannico che aveva lavorato al programma nucleare di Londra, e a Theodore Taylor, altro esperto di altissimo profilo coinvolto direttamente nel Progetto Manhattan, di parlare con lo scienziato israeliano per verificare l’attendibilità tecnico-scientifica del resoconto di Vanunu. Dopo un lungo colloquio, i due scienziati scrissero un rapporto in cui si certificava la validità della versione fornita dal tecnico israeliano e il «Sunday Times» ritenne a quel punto di aver raccolto sufficienti conferme per pubblicare tutta la storia. Nel rapporto citato dal giornale britannico, Barnaby affermava che «la testimonianza di Vanunu è assolutamente convincente», mentre Taylor rilevava che «il programma nucleare israeliano è molto più avanzato di quanto suggerito da qualsiasi rapporto precedente».
Il Mossad, che nel frattempo era venuto a conoscenza delle intenzioni dell’ex tecnico di Dimona, decise di anticipare l’uscita dell’articolo del «Sunday Times» organizzando ed eseguendo il sequestro di Vanunu a Roma, il 30 agosto del 1986. Vanunu fu quindi trasferito in un carcere israeliano dove rimase rinchiuso per i successivi 18 anni. Nel corso di un’intervista rilasciata alla giornalista svizzera Silvia Cattori, Vanunu ha dichiarato che: «da nove anni lavoravo al centro di ricerche in armamenti di Dimona, nella regione di Beer Sheva. Poco prima di lasciare quel lavoro, nel 1986, avevo scattato delle fotografie all’interno dell’impianto per mostrare al mondo che Israele nascondeva un segreto nucleare. Il mio lavoro a Dimona consisteva nel produrre elementi radioattivi utilizzabili per fabbricare bombe atomiche. Sapevo esattamente quali quantità di materia fissile venivano prodotte, quali materiali erano utilizzati e quali tipi di bombe venivano fabbricate […]. Le autorità israeliane mentivano. Ripetevano che i responsabili politici israeliani non avevano nessuna intenzione di dotarsi di armi nucleari. In realtà, producevano molte sostanze radioattive che potevano servire a un solo fine: fabbricare bombe nucleari. Si trattava di quantità importanti: ho calcolato che all’epoca – nel 1986! – avevano già 200 bombe atomiche. Avevano anche cominciato a produrre bombe all’idrogeno».
Quella di Vanunu non è una voce isolata. Secondo il docente israeliano di storia militare Martin Van Creveld, la potenza dell’arsenale nucleare israeliano sarebbe di molto superiore rispetto a quanto suggeriscano le analisi più accreditate. «Noi – ha rivelato Van Creveld in un’inquietante intervista all’«Observer» – possediamo centinaia di testate atomiche e razzi, e possiamo lanciarli su bersagli in ogni direzione, magari anche su Roma. La maggior parte delle capitali europee è tenuta sotto tiro dalle nostre forze armate. Come diceva il generale Moshe Dayan, Israele deve apparire come un cane rabbioso troppo pericoloso da provocare. Abbiamo la capacità di trascinare giù il mondo con noi. E a Tel Aviv possono assicurarvi che ciò accadrebbe di certo prima dell’eventuale caduta di Israele». Nel 2006, il segretario alla Difesa Usa Robert Gates rivelò l’esistenza dell’arsenale nucleare israeliano durante un intervento di fronte al Senato, avallando in tal modo le esternazioni di Van Creveld. Pochi giorni dopo, il primo ministro israeliano Ehud Olmert confermò indirettamente la notizia durante una trasmissione andata in onda su un canale televisivo tedesco; una gaffe clamorosa che avrebbe istigato i partiti israeliani di opposizione a chiedere le sue dimissioni immediate. Nel marzo 2015, il governo Usa ordinò la declassificazione di un documento top secret del Pentagono risalente al 1987 e composto da 386 pagine. All’interno del rapporto, reso di pubblico dominio previa autorizzazione delle autorità israeliane ormai consapevoli che quello che si ostinavano a proteggere era diventato il “segreto di Pulcinella”, si valutava che «i laboratori nucleari di Israele sono l’equivalente dei centri statunitensi di Los Alamos, Lawrence Livermore e Oak Ridge». È interessante notare inoltre come già allora gli specialisti Usa fossero al corrente del progresso compiuto in campo atomico dallo Stato ebraico negli anni ’70 e ’80, come si evince chiaramente dalla sezione del documento in cui si legge che gli scienziati israeliani erano in grado di «sviluppare la tecnologia necessaria a realizzare bombe all’idrogeno».
Intorno al 2000, l’autorevole rivista militare britannica «Jane’s Defense Weekly» è scesa ulteriormente nei dettagli, stimando che Israele avesse accumulato fino a quel momento circa 400 testate nucleari, trasportabili con tutta una serie di vettori estremamente funzionali. Il più rilevante di essi è il missile balistico a medio raggio Jericho-2, dotato di motore a propellente solido, capace di coprire quasi 3.000 km di gittata e lanciabile da veicoli in movimento oltre che da appositi silos. La punta di lancia è però rappresentata dal missile Shavit (sviluppato sulla base tecnica del Jericho-2), che pur essendo stato utilizzato da Tel Aviv per lanciare in orbita i satelliti Ofeq potrebbe essere impiegato per trasportare testate nucleari a una gittata compresa tra i 6000 e i 7000 km, il che ne fa un vettore strategico in grado di estendere la capacità offensiva di Israele a vaste zone di Europa e Africa, oltre che all’intera macroregione mediorientale. Il Popeye rappresenta invece una fase preliminare di missile aria-terra, installato sui caccia F-151 Ra’am e F-161 Sufa, in dotazione all’aeronautica israeliana, da cui è stato sviluppato il Popeye Turbo, missile da crociera a testata nucleare dotato di sistema di guida a infrarossi e capace di coprire una distanza compresa tra i 200 e i 350 km. Tale missile è stato inoltre adattato ai lanciasiluri da 650 mm di cui sono dotati i Dolphin, sottomarini lunghi quasi 58 metri con 1.900 tonnellate di dislocamento in immersione capaci di raggiungere i 20 nodi di velocità e di coprire un raggio d’azione di 4.500 km. Tali sommergibili sono prodotti «secondo le specifiche israeliane» dalla società tedesca Hdw, nel quadro accordi specifici con il governo di Berlino – in base ai quali la Germania copre il 30% della spesa – difesi a spada tratta dal Cancelliere Angela Merkel, secondo la quale la Germania avrebbe degli «obblighi speciali nei confronti di Israele» imputabili al macigno della Shoah. Sono proprio i sottomarini Dolphin, massimo risultato del rapporto speciale instaurato tra Israele e Germania, a garantire a Tel Aviv la possibilità di presidiare costantemente la porzione (strategicamente cruciale) di Golfo Persico che lambisce le acque territoriali iraniane. Nel corso del 2023, sempre in base agli “obblighi speciali” menzionati dalla Merkel, le esportazioni di armi di fabbricazione tedesca verso Israele sono cresciute a 303 milioni di euro, a fronte dei 32 milioni registrati alla fine del 2022: un aumento di dieci volte. Secondo il Sipri, la Germania ha fornito a Israele, oltre ai Dolphin, corvette Sa’ar e più di 1.000 motori per carri armati Merkava-4 e veicoli corazzati Namer ed Eitan. «Secondo le nostre stime, alcuni di questi motori sono probabilmente pronti per essere utilizzati a Gaza, così come alcune delle unità navali fornite dalla Germania», ha dichiarato a «Euronews» Zain Hussain, ricercatore del Sipri, aggiungendo poi che «la Germania ha finanziato parte degli acquisti israeliani di sottomarini e corvette come forma di aiuto militare a Israele, per sostenere il Paese nella sua difesa e in una sorta di compensazione per i crimini nazisti». La prassi indicata da Hussain si è applicata anche in riferimento all’Arrow-3, un sistema anti-missilistico sviluppato da Boeing in collaborazione con Israel Aerospace Industries che la Germania si sta preparando a trasferire in Israele previa autorizzazione degli Stati Uniti e approvazione delle commissioni Bilancio e Difesa del Bundestag. Si tratta di un’operazione da circa 4 miliardi di euro, finanziata integralmente dalla Germania attraverso il fondo speciale di 100 miliardi approvato dal governo di Olaf Scholz in seguito allo scoppio del conflitto russo-ucraino. L’ex ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant parlò all’epoca di una “decisione significativa” dagli effetti positivi anche per l’economia di Israele. L’Arrow-3, ha quindi spiegato Gallant, integrerà l’Iron Dome rafforzando in maniera decisiva le capacità militari di Israele, trattandosi di un «sistema innovativo, il più avanzato al mondo nel suo genere, un moltiplicatore di forze per le difese aeree israeliane». Naturalmente, anche l’Italia fornisce il suo contributo, conformemente al Memorandum di cooperazione militare Italia-Israele siglato nel 2005 e rinnovato automaticamente di anno in anno.
A ennesima riprova del fatto che la potenza militare israeliana è stata realizzata in larga misura grazie ai solidi e altolocati agganci internazionali che le classi dirigenti di Tel Aviv sono state in grado di costruire nel corso dei decenni, e che pongono attualmente Israele nelle condizioni di tenere «200 bombe atomiche pronte al lancio su Teheran», come confidato dall’ex segretario di Stato Colin Powell al suo partner d’affari e grande finanziatore del Partito Democratico Jeffrey Leeds in una e-mail scovata e pubblicata dal sito DcLeaks. Gli consentono di produrre plutonio in quantità sufficienti a sviluppare ogni anno dalle 10 alle 15 bombe di potenza analoga a quella sganciata dalle forze aeree statunitensi su Nagasaki. Gli permettono di fabbricare trizio, gas radioattivo utile per le armi nucleari di nuova generazione come le mini-nukes impiegabili negli scenari bellici più ristretti, come ad esempio Gaza. O come gli ordigni neutronici, adoperabili in conflitti alle porte di casa perché capaci, grazie all’emissione di neutroni veloci, di garantire un elevatissimo livello di letalità pur provocando un contenuto livello di contaminazione radioattiva.