Il bombardamento statunitense contro lo Yemen segna un punto di svolta nello scacchiere geopolitico mediorientale. In questo contributo si cercherà di delineare quelli che sono interessi ed obiettivi dei principali attori regionali.
Negli anni ’20 del secolo scorso, il pensatore tedesco Karl Haushofer definiva la geopolitica come una “scienza dinamica” che osserva i processi politici e militari del presente e del passato per pronosticare la loro potenziale evoluzione futura. Tuttavia, allo stesso tempo, si vedeva costretto ad ammettere che la geopolitica, essendo strettamente legata agli umori delle masse ed ai “grandi spiriti” che le guidano, poteva fare previsioni esatte solo in un numero piuttosto limitato di casi. Qualche anno più tardi, Ernesto Massi, il padre della geopolitica italiana a cavallo tra i due conflitti mondiali, definiva la medesima come la scienza che deve determinare le politiche degli Stati in relazione a precise leggi geografiche. In questo senso, la geopolitica era capace sia di potenziare che di depotenziare i conflitti.
Alla luce di ciò, l’attacco statunitense contro le postazioni Houthi nello Yemen deve essere interpretato sulla base di diversi fattori che si cercherà di esaminare nel dettaglio. In primo luogo, è importante sottolineare che, tre giorni prima dell’annuncio del bombardamento, Russia, Cina ed Iran avevano concluso le esercitazioni navali “Security Belt 2025”. Queste si sono concentrate attorno ad una vasta area che dal porto iraniano di Chabahar (centrale all’interno del sistema di interconnessione eurasiatica della Nuova Via della Seta) arriva al Golfo di Aden in prossimità delle coste yemenite. L’area racchiude due tra i più importanti snodi strategici globali: lo stretto di Hormuz e quello di Bab el-Mandenb che, insieme allo stretto di Malacca, vengono generalmente definiti come il “triangolo d’oro”, considerato il loro rilievo sul piano dei flussi energetici marittimi internazionali. A ciò si aggiunga che lo stretto di Bab el-Mandeb è direttamente collegato al Canale di Suez: un altro “collo di bottiglia” (o chokepoint) dal quale transita una cospicua quantità di commercio da e verso l’Europa.
Ora, appare evidente che il controllo di uno o più di questi snodi da parte di un attore geopolitico (regionale o meno) rappresenta un evidente vantaggio sui diretti concorrenti. Il caso iraniano è abbastanza emblematico. La Repubblica Islamica, infatti, attraverso la sovranità sulle isole di Abu Musa, Tunb al-Kubra e Tunb al-Sughra, poste in prossimità dello stretto di Hormuz, può controllare direttamente l’intero traffico petrolifero che transita attraverso lo snodo. La storia di queste isole è del tutto particolare visto che lo Shah Reza Pahlavi le strappò all’Emirato di Sharjah nel momento in cui la Gran Bretagna concesse l’indipendenza a quelli che poi sono divenuti gli Emirati Arabi Uniti (nel 1971). Sulla base di ciò, durante il conflitto Iran-Iraq degli anni ’80, Saddam Hussein ne rivendicò la sovranità in nome di un panarabismo funzionale al suo piano di annessione delle regioni petrolifere iraniane a maggioranza araba.
Ad ogni modo, il controllo iraniano diretto sullo stretto di Hormuz rappresenta una notevole forma di deterrenza per la Repubblica Islamica. La sua eventuale chiusura in caso di attacco diretto contro Teheran, di fatto, comporterebbe una crisi globale senza precedenti (assai superiore a quella prodotta dalla fase della “guerra delle petroliere” legata al suddetto conflitto Iran-Iraq), visto che nel Golfo Persico si trovano i principali porti attraverso i quali le monarchie del Golfo esportano le loro risorse (Qatar, Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti ed Arabia Saudita – le risorse di quest’ultima sono concentrate nell’area nord-orientale del Regno dove la componente confessionale sciita ha un notevole impatto demografico). Ragione per cui l’Iran sta potenziando proprio il porto di Chabahar (che si affaccia direttamente sull’Oceano Indiano bypassando lo stretto di Hormuz), e motivo principale per cui le stesse monarchie del Golfo stanno ricercando canali alternativi (anche e soprattutto terrestri) per garantire i loro introiti commerciali.
Allo stesso tempo, appare chiaro che un eventuale attacco (reale) alla Repubblica Islamica, più volte paventato tanto da Israele quanto da diverse amministrazioni USA (da Bush Jr. a Donald J. Trump), più che sulle infrastrutture petrolifere iraniane (o su quelle rivolte allo sviluppo della tecnologia nucleare – da non sottovalutare anche il ruolo iraniano sul commercio internazionale di uranio grazie alla partecipazione governativa sul controllo della miniera di Rossing, in Namibia) – sarà indirizzato in primo luogo ad ottenere il controllo sulle isole adiacenti allo stretto.
Ma la Repubblica Islamica, grazie all’alleanza informale con gli Houthi yemeniti, può giocare un ruolo di rilievo anche sull’area adiacente allo stretto di Bab el-Mandeb (dove anche la Cina esercita la sua influenza attraverso la sua presenza a Gibuti). Qui, a partire dall’ottobre 2023, il gruppo al potere a Sana’a è riuscito a svolgere una notevole pressione (oscurata dai mezzi di informazione occidentali) nei confronti del traffico diretto verso il porto israeliano di Eilat, dimostrando anche la sostanziale vulnerabilità dello “Stato ebraico”, completamente dipendente dal traffico marittimo.
Israele, di fatto, si presenta come un’entità geopolitica che soffre della permanente assenza di profondità strategica. Problema che, nel corso della sua breve storia, l’ha spinto a ricercarla a discapito dei Paesi confinanti (Egitto, Libano e Siria, in particolar modo). Non bisogna dimenticare, a questo proposito, i tentativi di costruire un’entità regionale direttamente controllata dallo stesso Israele nel Libano meridionale nel corso del conflitto civile libanese; o l’attuale tentativo di creare nel sud della Siria uno “Stato druso” capace di spingersi fino alla periferia di Damasco.
L’assenza di connessione commerciale con l’entroterra del Vicino Oriente è uno dei problemi geopolitici più rilevanti per la geopolitica dei trasporti israeliana. Israele, infatti, rimane uno spazio chiuso i cui porti (simbolo della localizzazione industriale) sono privi (o estremamente limitati) in termini di retroterra logistico. La prima amministrazione Trump ha cercato di porre rimedio a questo problema per mezzo dello schema degli “Accordi di Abramo” e lo sviluppo di quella che è stata nominata come “Via del Cotone” o IMEC – India, Middle East, Europe Economic Corridor: un progetto infrastrutturale alternativo e competitivo rispetto alla Nuova Via della Seta cinese, il cui obiettivo finale è quello di contrastare/limitare la proiezione di influenza cinese proprio sui porti del Mediterraneo orientale (da Haifa, in Israele, dove le compagnie indiane sono in diretta concorrenza con quelle cinesi, al Pireo in Grecia). L’IMEC, in questo modo, rappresenterebbe anche un canale alternativo per il transito degli idrocarburi delle monarchie del Golfo e rivestirebbe un ruolo centrale per la connessione della megalopoli futuristica saudita di Neom (prima città interamente gestita dall’intelligenza artificiale, secondo i piani sauditi, la cui costruzione dovrebbe rappresentare un volano per lo sviluppo economico anche di Giordania ed Egitto). Tuttavia, i Sauditi, utilizzando una sapiente strategia geopolitica di “multiallineamento”, mirano a collegare la megalopoli anche con la Nuova Via della Seta (da non dimenticare il fatto che la Cina acquista il 18% delle esportazioni petrolifere saudite e che la stessa Arabia Saudita riveste un ruolo di primo piano nella realizzazione del CPEC – China Pakistan Econimic Corridor, il cui obiettivo è consentire alla Repubblica Popolare di bypassare lo Stretto di Malacca per garantirsi le proprie forniture energetiche).
In questo quadro si inseriscono anche i complessi rapporti tra Iran e Arabia Saudita che la Cina ha cercato di mediare attraverso il fondamentale accordo sulla riapertura dei canali diplomatici del 2023. Entrambe le potenze regionali hanno costruito le loro fortune sul fatto che la sicurezza degli approvvigionamenti energetici costituisce nella contemporaneità uno dei principali obiettivi della politica estera e dell’azione geopolitica dei principali attori internazionali. I Sauditi, in particolare, hanno spesso utilizzato la loro sovrapproduzione petrolifera come arma geopolitica per tenere i prezzi della risorsa bassi e fare pressioni indirette sui concorrenti diretti e sull’Iran in primo luogo. Nonostante i vantaggi geopolitici di cui ha potuto godere Teheran a seguito della caduta del regime di Saddam Hussein in Iraq (soprattutto in termini di proiezione di influenza sull’Heartland mediorientale, le regioni irachene in prossimità dei principali santuari sciiti, ricche di risorse e, non a caso, costantemente sottoposte a forme di destabilizzazione), l’Arabia Saudita ha sfruttato le migliori capacità tecnologiche di estrazione della risorsa (a differenza dell’industria iraniana afflitta dal regime alternato di sanzioni ed embarghi) ed una demografia favorevole (30 milioni circa di abitanti contro i quasi 90 milioni iraniani) per portare avanti la propria agenda geopolitica. Fattore che ha portato allo scontro aperto nello Yemen, dove la coalizione a guida saudita, tuttavia, ha sostanzialmente fallito nell’azione di contrasto contro gli Houthi. Qui, i tentativi di strappare alle forze ribelli il fondamentale porto di Hodeida (sottoposto a più riprese ad attacchi aerei ed anche ad operazioni via terra da parte emiratina) sin dal 2018 non hanno ottenuto in alcun modo gli esiti sperati, consentendo agli Houthi di sfruttarlo sia come strumento di rifornimento militare che di finanziamento diretto al loro governo.
Gli attacchi diretti degli Stati Uniti contro lo Yemen – dopo che gli stessi USA avevano sostenuto lo sforzo logistico della coalizione a guida saudita negli anni precedenti – aprono un nuovo capitolo dello scontro geopolitico nel Medio Oriente e del suo (ri)potenziamento. Il rinnovato protagonismo nordamericano nel Mar Rosso, oltre che alla “protezione” del commercio verso Israele, è funzionale alle aspirazioni di controllo diretto di Washington sulla striscia di Gaza. Questa, infatti, situata nelle vicinanze del Canale di Suez, di diversi ed importanti bacini gassiferi e dei progetti di interconnessione legati al progetto Neom, possiede un enorme potenziale geopolitico e geoeconomico. Attraverso la presenza nella Striscia, gli USA potrebbero infatti controllare direttamente i flussi energetici verso l’Europa, una volta ottenuto, tramite il conflitto ucraino, la definitiva separazione del potenziale industriale dell’Europa dalle risorse energetiche russe. Un aspetto che richiama in pieno la teoria geopolitica spykmaniana sul controllo del Rimland. Alla pari del più ampio complesso continentale eurasiatico, anche nella macroarea mediorientale l’obiettivo USA rimane il controllo sul Rimland per evitare il pieno sfruttamento del potenziale dell’Heartland. Al contempo, il disimpegno USA dal teatro ucraino risulta funzionale ad un maggiore impegno in termini di contenimento dell’Iran e della Cina nell’area mediorientale. Con la seconda che ambisce ad una maggiore connessione tra l’Estremo Oriente ed il Medio Oriente.