Mentre concedono diverse aperture alla Federazione Russa durante i colloqui diplomatici in Arabia Saudita, gli Stati Uniti stanno però giocando una partita parallela e decisamente più ostile nei confronti della Repubblica Popolare Cinese e dell’India.
Ci sono diverse circostanze che confermano l’assunto che ho espresso nel titolo, una sorta di evoluzione della dottrina storica NATO (gli USA dentro, i russi fuori e i tedeschi sotto) che a Trump interessa sempre meno.
Partiamo dal discorso del Ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, pronunciato durante la Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera dei giorni scorsi, che ha messo al centro l’ONU, il rispetto del diritto internazionale, le garanzie a sostegno della sovranità territoriale e dell’integrità degli Stati membri delle Nazioni Unite; mettendo in guardia, al contempo, le grandi potenze dall’utilizzare la forza approfittando del caos generato dall’attuale transizione ad un sistema globale multipolare definito da Wang “inevitabile”.
Pechino si propone come fattore di certezza e stabilità, una forza costruttiva del mondo in cambiamento, ritiene che la democratizzazione delle relazioni internazionali e l’uguaglianza degli Stati sovrani debbano essere i pilastri del multipolarismo e dei nuovi formati geopolitici come i BRICS plus.
Nel suo discorso, il Ministro degli Esteri cinese ha manifestato la disponibilità della Repubblica Popolare ad armonizzare la Belt and Road Initiative con il Global Gateway europeo, auspicando un recupero dell’autonomia strategica di Bruxelles di fronte all’aggressività commerciale dell’Amministrazione Trump; solo in un mondo aperto, senza dazi e protezionismo, le nazioni possono svilupparsi e i popoli prosperare. Wang ha quindi ricordato che nel 2024 il PIL cinese è arrivato al 5% e il contributo della Cina alla crescita economica mondiale è stato il 30% del totale.
Pechino si augura la fine della mentalità da “guerra fredda” ma rimane preoccupata dalle recenti mosse intraprese da Washington a danno dei propri interessi nazionali e non solo per l’innalzamento di dazi al 10% sulle merci in entrata dalla Repubblica Popolare Cinese.
Nel mese di febbraio, infatti, il Dipartimento di Stato USA ha aggiornato la scheda informativa sulle relazioni Stati Uniti-Taiwan, rimuovendo la frase: “Non sosteniamo l’indipendenza di Taiwan”, rafforzando il sostegno politico all’attuale Esecutivo di Taipei e ventilando la vendita di missili da crociera e razzi Himars all’isola ribelle per un importo che va dai 7 ai 10 miliardi di dollari. Questa mossa è stata seguita da una serie di manovre navali nelle acque del Mar Cinese Meridionale tra USA, Filippine, Australia e Giappone e dalle dichiarazioni di sostegno a Manila da parte del Ministro della Difesa USA, Pete Hegseth. Naturalmente, la Cina ha risposto a tono alle varie provocazioni, ribadendo i suoi diritti alla luce del diritto internazionale, delle Risoluzioni ONU e dei comunicati congiunti con gli USA sulla questione Taiwan.
La strategia di Trump per isolare la Repubblica Popolare Cinese è collaterale alle minacce rivolte dal nuovo Presidente degli Stati Uniti ai Paesi Brics, apparentemente ostili, di impegnarsi a non creare una loro nuova valuta, né a sostenerne un’altra (ad esempio lo Yuan) per sostituire la centralità del dollaro statunitense, altrimenti dovranno affrontare dazi del 100%. Nelle sue intenzioni c’è l’idea di trattare con i singoli Stati per indebolire e rompere le alleanze tra diversi Paesi, come Russia e Cina e più in esteso i Brics, ma il suo tentativo è destinato al fallimento. Non solo Trump sta spingendo questi Paesi a raggrupparsi più strettamente per meglio proteggersi e difendersi, ma non tiene conto dei fattori economici reali.
Attualmente i Brics, tra membri e partner, rappresentano il 41% del PIL globale, se calcolato in parità di potere d’acquisto (Ppp), il 55% della popolazione mondiale, e oltre il 50% della capacità energetica totale. Gli Stati Uniti rappresentano invece il 15,5 % del Pil globale, mentre il G7 il 29%; non a caso il Ministro degli Esteri russo, Lavrov, ha ribadito che il G20 rappresenta il formato più adeguato oggi per discutere e provare a risolvere le problematiche globali.
I Paesi Brics, ma non solo, hanno iniziato a utilizzare le monete nazionali nella gestione dei propri commerci internazionali, addirittura accordi di baratto, lo scambio di merce contro merce, per limitare l’uso del dollaro o dell’euro (1). In gioco c’è anche l’eventuale utilizzo dell’oro, il cui valore sta salendo vertiginosamente, come moneta di scambio e di riserva a sostegno delle proprie valute (la Cina possiede 10.000 tonnellate di oro e ha scoperto recentemente nuovi importanti giacimenti auriferi sul proprio territorio). I Brics e altri Paesi emergenti stanno lavorando per la creazione di piattaforme indipendenti condivise e decentralizzate per le transazioni finanziarie, in alternativa allo Swift, qualora rimanessero esclusi dal sistema dominante, rafforzando ad esempio il Cips cinese.
La stessa India, spesso soggetta alle pressioni USA, ha evidenziato che la sua piattaforma per i pagamenti, la Unified payment initiative (Upi), è già stata adottata da diverse nazioni in tutto il mondo come Francia, Emirati Arabi Uniti, Malesia, Singapore, Bhutan e Sri Lanka. I BRICS stanno pensando anche a una moneta di conto per agevolare le transazioni commerciali e finanziarie interne al gruppo, soprattutto in previsione di utilizzarla per gli scambi di materie prime come petrolio e gas, dato che alcuni di essi fanno parte dell’OPEC plus.
Proprio l’India, che viene considerata da Washington un potenziale “anello debole” nel gruppo, capisce bene che i BRICS non riguardano solo la cooperazione economica, ma anche parte della sua strategia più ampia per affermare la propria influenza in un ordine mondiale in rapido cambiamento. Essi offrono all’India accesso a mercati strategici, tra cui l’Asia centrale, il Medio Oriente e l’Africa. L’espansione dei BRICS per includere nuovi membri, come l’Arabia Saudita, che è ancora in fase di adesione, accresce ulteriormente la rilevanza del raggruppamento (2). Uno degli ambiti per la cooperazione nel Sud del mondo potrebbe essere lo sviluppo di start-up supportate da piattaforme di istituzioni di sviluppo di economie in via di sviluppo. L’India ha promosso attivamente il tema dello sviluppo di start-up a livello globale durante la sua presidenza nel G20 e queste iniziative potrebbero essere ulteriormente perseguite nell’attuale contesto con il supporto delle istituzioni di sviluppo regionali e nazionali di cui fanno parte le economie BRICS+.
Esiste ancora la convinzione da parte dell’establishment anglo-americano che una supposta supremazia militare e finanziaria degli USA possa mettere fine all’alternativa dei BRCS plus (3) e il tentativo di divisione del blocco eurasiatico rientra in tale visione: eppure, come ha sostenuto Wang Yi, il mondo multipolare è già realtà.
(1) I Paesi BRICS ora utilizzano le valute nazionali per il 65% degli accordi commerciali reciproci nel 2024, rivelano i dati del FMI.
(2) Huma Siddiqui, I BRICS sono morti? Ecco perché è tutt’altro che finita, infobrics.org, 19/2/2025.
(3) Brics is dead, says Trump as he threatens member nations with 100% tariff, “Business Standard”, 19/12/2025.