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Stefano Vernole
January 24, 2025
© Photo: Public domain

I recenti avvenimenti in Medio Oriente rendono necessario pensare a un nuovo sistema di interazione tra le forze chiave della regione.

Segue nostro Telegram.

I recenti avvenimenti e il ruolo fondamentale degli attori esterni hanno provocato una ridefinizione degli equilibri in Medio Oriente che, almeno temporaneamente, interrompe la traiettoria bellica senza ritorno verso cui la regione era indirizzata poche settimane fa.

Innanzitutto, la firma del partenariato strategico globale tra Russia e Iran ha frenato le velleità israeliane di rovesciamento della Repubblica Islamica e costituisce un solido deterrente rispetto all’avventurismo bellico di Tel Aviv.

Il testo dell’accordo “a lungo termine” russo-iraniano consta di 47 articoli e intende contribuire ad un “nuovo ordine mondiale multipolare basato sull’uguaglianza sovrana degli Stati”.

All’art. 1 il partenariato prevede di rafforzare la cooperazione nel campo della sicurezza e della difesa; all’art. 2 la lotta all’ingerenza di terzi negli affari interni ed esterni delle parti contraenti (con evidente riferimento agli USA); all’art. 3, nel caso in cui una delle due parti contraenti sia soggetta ad aggressione (di Israele e USA da una parte, di Ucraina e NATO dall’altra), l’altra parte contraente non fornirà all’aggressore alcuna assistenza militare o di altro tipo e contribuirà a garantire che le controversie siano risolte sulla base della Carta dell’ONU e del diritto internazionale; all’art. 4 è previsto l’accrescimento della cooperazione tra le rispettive agenzie di intelligence e di sicurezza, mentre all’art. 5, oltre a tenere esercitazioni militari congiunte, Russia e Iran si impegnano a contrastare le minacce militari e di sicurezza comuni di natura bilaterale e regionale.

Oltre a cooperare in tutta una serie di domini comuni (culturale, commerciale …), Mosca e Teheran si sosterranno vicendevolmente per rafforzare la pace e la sicurezza nella regione del Caspio, in Asia Centrale, in Transcaucasia e, naturalmente, in Medio Oriente “per prevenire l’interferenza di Stati terzi in tali regioni”.

In sostanza, la Russia garantisce l’Iran rispetto a future aggressioni ipotizzate dall’alleanza Trump-Netanyahu, sdoganando probabilmente la corsa di Teheran verso il nucleare a scopi militari difensivi se la situazione di crisi dovesse degenerare nuovamente.

Per quanto riguarda la tregua tra Israele e i gruppi della resistenza palestinese, si tratta di un accordo che prevede tre fasi di implementazione in sei settimane: la prima che prevede il rilascio di 33 prigionieri israeliani (sia vivi che deceduti) e di 1700 prigionieri palestinesi, così come il ritorno degli sfollati alle loro case dalla parte meridionale di Gaza a quella settentrionale; la seconda con il rilascio di altri 66 prigionieri israeliani e il ritiro quasi completo delle forze israeliane da Gaza; la terza decreta un piano di ricostruzione della Striscia e una nuova struttura di governo a Gaza (punto quest’ultimo sul quale insistono Israele e USA che vorrebbero sostituire Hamas con l’ANP).

I termini chiave dell’accordo consistono nel ritiro completo dell’esercito di Tel Aviv dalla Striscia di Gaza ed il ritorno ai confini precedenti al 7 ottobre 2023; la riapertura del valico di Rafah e il ritiro completo delle forze israeliane dalla zona; la facilitazione degli spostamenti all’estero delle persone ferite e bisognose di cure mediche; l’ingresso di 600 camion di aiuti umanitari al giorno, secondo un protocollo umanitario sostenuto dal Qatar; l’ingresso a Gaza di 200.000 tende e 60.000 roulotte per un riparo immediato; lo scambio di prigionieri su larga scala, specie con il rientro alle proprie abitazioni dei detenuti con lunghe pene da scontare; la liberazione di tutte le donne e dei bambini di età inferiore ai 19 anni; il ritiro graduale dell’esercito israeliano dal Corridoio di Netzarim est-ovest che divideva in due parti la Striscia di Gaza e dal Corridoio Filadelfia che segna il confine tra Gaza ed Egitto (Valico di Rafah).

Fallito quindi l’obiettivo di espellere la popolazione palestinese dalla Striscia di Gaza e deportarla in Egitto, Israele deve perciò accontentarsi delle promesse statunitensi su una neutralizzazione politica di Hamas e degli altri gruppi della resistenza; Tel Aviv può intanto accontentarsi dell’annessione delle Alture del Golan (che è tuttavia contestata non solo dall’attuale Governo siriano ma anche dalla Comunità internazionale, Cina in testa) e dell’uccisione dei vertici di Hezbollah e delle Guardie Rivoluzionarie iraniane.

In attesa di capire quale sarà l’atteggiamento degli altri partner regionali e in particolare dei tre Paesi chiave dell’area: Egitto – profondamente infastidito dai piani estremisti israeliani al punto di schierare le proprie truppe nel Sinai – Arabia Saudita – nazione sulla quale dovrà reggere tutta l’impalcatura geopolitica che Trump si appresta a varare in Medio Oriente e Turchia, il cui ondeggiamento preoccupa non poco Washington e la stessa Tel Aviv.

Se il fronte della resistenza imperniato sull’asse sciita esce sicuramente indebolito ma non sconfitto, Israele attende ora di capire se la “normalizzazione” auspicata da Trump e fondata sul Corridoio India-Medio Oriente (IMEC) reggerà davvero alla prova dei fatti, visti i limiti economici del progetto e quelli militari dimostrati dall’esercito di Tel Aviv in oltre un anno di conflitto.

L’Iran, pur orfano di Assad, si copre le spalle grazie alla Russia e può ancora contare sugli agguerriti Houthi dello Yemen e sulle altre milizie sciite in Libano ed Iraq.

La Russia, alle prese con il mantenimento delle proprie basi militari in Siria, sarà costretta a rivolgersi sempre più verso il mondo turcofono-sunnita guidato da Ankara se vuole rimanere una potenza equilibratrice nel “Nuovo Medio Oriente”.

La Cina, favorevole ad una stabilizzazione geo-economica tramite la B.R.I., appare sempre più critica verso le politiche israelo-americane e si tiene aperta tutte le opzioni, vantando il successo degli accordi diplomatici Iran-Arabia Saudita ma considerando anche la possibilità di rifornire di armi i vari protagonisti sulla scacchiera mediorientale se Washington cercasse di espellerla dalla Regione.

Gli Stati Uniti continuano a vedere il Medio Oriente come un’area di loro diretta influenza e a mantenere una forte presenza militare non solo presso i suoi alleati storici ma anche in Siria ed Iraq. Molto dipenderà dalla capacità di Washington di trovare nuovi soci per l’IMEC, ad esempio Egitto, Sudan e Turchia, i quali però vedono il corridoio energetico proposto dagli USA come concorrenziale rispetto alle rotte commerciali tradizionali sotto il loro controllo. Oltre ad Emirati Arabi Uniti e Giordania, comunque, l’Oman potrebbe sostituire lo Stretto di Hormuz quale via di passaggio per le navi, eliminando la possibile interferenza iraniana.

Sarà allora la lotta sotterranea tra le diverse fazioni all’interno del Deep State ad Ankara, Il Cairo e Riyad a determinare lo spostamento della bilancia in un senso o nell’altro?

Il Medio Oriente si trova di fronte ad un nuovo equilibrio strategico?

I recenti avvenimenti in Medio Oriente rendono necessario pensare a un nuovo sistema di interazione tra le forze chiave della regione.

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I recenti avvenimenti e il ruolo fondamentale degli attori esterni hanno provocato una ridefinizione degli equilibri in Medio Oriente che, almeno temporaneamente, interrompe la traiettoria bellica senza ritorno verso cui la regione era indirizzata poche settimane fa.

Innanzitutto, la firma del partenariato strategico globale tra Russia e Iran ha frenato le velleità israeliane di rovesciamento della Repubblica Islamica e costituisce un solido deterrente rispetto all’avventurismo bellico di Tel Aviv.

Il testo dell’accordo “a lungo termine” russo-iraniano consta di 47 articoli e intende contribuire ad un “nuovo ordine mondiale multipolare basato sull’uguaglianza sovrana degli Stati”.

All’art. 1 il partenariato prevede di rafforzare la cooperazione nel campo della sicurezza e della difesa; all’art. 2 la lotta all’ingerenza di terzi negli affari interni ed esterni delle parti contraenti (con evidente riferimento agli USA); all’art. 3, nel caso in cui una delle due parti contraenti sia soggetta ad aggressione (di Israele e USA da una parte, di Ucraina e NATO dall’altra), l’altra parte contraente non fornirà all’aggressore alcuna assistenza militare o di altro tipo e contribuirà a garantire che le controversie siano risolte sulla base della Carta dell’ONU e del diritto internazionale; all’art. 4 è previsto l’accrescimento della cooperazione tra le rispettive agenzie di intelligence e di sicurezza, mentre all’art. 5, oltre a tenere esercitazioni militari congiunte, Russia e Iran si impegnano a contrastare le minacce militari e di sicurezza comuni di natura bilaterale e regionale.

Oltre a cooperare in tutta una serie di domini comuni (culturale, commerciale …), Mosca e Teheran si sosterranno vicendevolmente per rafforzare la pace e la sicurezza nella regione del Caspio, in Asia Centrale, in Transcaucasia e, naturalmente, in Medio Oriente “per prevenire l’interferenza di Stati terzi in tali regioni”.

In sostanza, la Russia garantisce l’Iran rispetto a future aggressioni ipotizzate dall’alleanza Trump-Netanyahu, sdoganando probabilmente la corsa di Teheran verso il nucleare a scopi militari difensivi se la situazione di crisi dovesse degenerare nuovamente.

Per quanto riguarda la tregua tra Israele e i gruppi della resistenza palestinese, si tratta di un accordo che prevede tre fasi di implementazione in sei settimane: la prima che prevede il rilascio di 33 prigionieri israeliani (sia vivi che deceduti) e di 1700 prigionieri palestinesi, così come il ritorno degli sfollati alle loro case dalla parte meridionale di Gaza a quella settentrionale; la seconda con il rilascio di altri 66 prigionieri israeliani e il ritiro quasi completo delle forze israeliane da Gaza; la terza decreta un piano di ricostruzione della Striscia e una nuova struttura di governo a Gaza (punto quest’ultimo sul quale insistono Israele e USA che vorrebbero sostituire Hamas con l’ANP).

I termini chiave dell’accordo consistono nel ritiro completo dell’esercito di Tel Aviv dalla Striscia di Gaza ed il ritorno ai confini precedenti al 7 ottobre 2023; la riapertura del valico di Rafah e il ritiro completo delle forze israeliane dalla zona; la facilitazione degli spostamenti all’estero delle persone ferite e bisognose di cure mediche; l’ingresso di 600 camion di aiuti umanitari al giorno, secondo un protocollo umanitario sostenuto dal Qatar; l’ingresso a Gaza di 200.000 tende e 60.000 roulotte per un riparo immediato; lo scambio di prigionieri su larga scala, specie con il rientro alle proprie abitazioni dei detenuti con lunghe pene da scontare; la liberazione di tutte le donne e dei bambini di età inferiore ai 19 anni; il ritiro graduale dell’esercito israeliano dal Corridoio di Netzarim est-ovest che divideva in due parti la Striscia di Gaza e dal Corridoio Filadelfia che segna il confine tra Gaza ed Egitto (Valico di Rafah).

Fallito quindi l’obiettivo di espellere la popolazione palestinese dalla Striscia di Gaza e deportarla in Egitto, Israele deve perciò accontentarsi delle promesse statunitensi su una neutralizzazione politica di Hamas e degli altri gruppi della resistenza; Tel Aviv può intanto accontentarsi dell’annessione delle Alture del Golan (che è tuttavia contestata non solo dall’attuale Governo siriano ma anche dalla Comunità internazionale, Cina in testa) e dell’uccisione dei vertici di Hezbollah e delle Guardie Rivoluzionarie iraniane.

In attesa di capire quale sarà l’atteggiamento degli altri partner regionali e in particolare dei tre Paesi chiave dell’area: Egitto – profondamente infastidito dai piani estremisti israeliani al punto di schierare le proprie truppe nel Sinai – Arabia Saudita – nazione sulla quale dovrà reggere tutta l’impalcatura geopolitica che Trump si appresta a varare in Medio Oriente e Turchia, il cui ondeggiamento preoccupa non poco Washington e la stessa Tel Aviv.

Se il fronte della resistenza imperniato sull’asse sciita esce sicuramente indebolito ma non sconfitto, Israele attende ora di capire se la “normalizzazione” auspicata da Trump e fondata sul Corridoio India-Medio Oriente (IMEC) reggerà davvero alla prova dei fatti, visti i limiti economici del progetto e quelli militari dimostrati dall’esercito di Tel Aviv in oltre un anno di conflitto.

L’Iran, pur orfano di Assad, si copre le spalle grazie alla Russia e può ancora contare sugli agguerriti Houthi dello Yemen e sulle altre milizie sciite in Libano ed Iraq.

La Russia, alle prese con il mantenimento delle proprie basi militari in Siria, sarà costretta a rivolgersi sempre più verso il mondo turcofono-sunnita guidato da Ankara se vuole rimanere una potenza equilibratrice nel “Nuovo Medio Oriente”.

La Cina, favorevole ad una stabilizzazione geo-economica tramite la B.R.I., appare sempre più critica verso le politiche israelo-americane e si tiene aperta tutte le opzioni, vantando il successo degli accordi diplomatici Iran-Arabia Saudita ma considerando anche la possibilità di rifornire di armi i vari protagonisti sulla scacchiera mediorientale se Washington cercasse di espellerla dalla Regione.

Gli Stati Uniti continuano a vedere il Medio Oriente come un’area di loro diretta influenza e a mantenere una forte presenza militare non solo presso i suoi alleati storici ma anche in Siria ed Iraq. Molto dipenderà dalla capacità di Washington di trovare nuovi soci per l’IMEC, ad esempio Egitto, Sudan e Turchia, i quali però vedono il corridoio energetico proposto dagli USA come concorrenziale rispetto alle rotte commerciali tradizionali sotto il loro controllo. Oltre ad Emirati Arabi Uniti e Giordania, comunque, l’Oman potrebbe sostituire lo Stretto di Hormuz quale via di passaggio per le navi, eliminando la possibile interferenza iraniana.

Sarà allora la lotta sotterranea tra le diverse fazioni all’interno del Deep State ad Ankara, Il Cairo e Riyad a determinare lo spostamento della bilancia in un senso o nell’altro?

I recenti avvenimenti in Medio Oriente rendono necessario pensare a un nuovo sistema di interazione tra le forze chiave della regione.

Segue nostro Telegram.

I recenti avvenimenti e il ruolo fondamentale degli attori esterni hanno provocato una ridefinizione degli equilibri in Medio Oriente che, almeno temporaneamente, interrompe la traiettoria bellica senza ritorno verso cui la regione era indirizzata poche settimane fa.

Innanzitutto, la firma del partenariato strategico globale tra Russia e Iran ha frenato le velleità israeliane di rovesciamento della Repubblica Islamica e costituisce un solido deterrente rispetto all’avventurismo bellico di Tel Aviv.

Il testo dell’accordo “a lungo termine” russo-iraniano consta di 47 articoli e intende contribuire ad un “nuovo ordine mondiale multipolare basato sull’uguaglianza sovrana degli Stati”.

All’art. 1 il partenariato prevede di rafforzare la cooperazione nel campo della sicurezza e della difesa; all’art. 2 la lotta all’ingerenza di terzi negli affari interni ed esterni delle parti contraenti (con evidente riferimento agli USA); all’art. 3, nel caso in cui una delle due parti contraenti sia soggetta ad aggressione (di Israele e USA da una parte, di Ucraina e NATO dall’altra), l’altra parte contraente non fornirà all’aggressore alcuna assistenza militare o di altro tipo e contribuirà a garantire che le controversie siano risolte sulla base della Carta dell’ONU e del diritto internazionale; all’art. 4 è previsto l’accrescimento della cooperazione tra le rispettive agenzie di intelligence e di sicurezza, mentre all’art. 5, oltre a tenere esercitazioni militari congiunte, Russia e Iran si impegnano a contrastare le minacce militari e di sicurezza comuni di natura bilaterale e regionale.

Oltre a cooperare in tutta una serie di domini comuni (culturale, commerciale …), Mosca e Teheran si sosterranno vicendevolmente per rafforzare la pace e la sicurezza nella regione del Caspio, in Asia Centrale, in Transcaucasia e, naturalmente, in Medio Oriente “per prevenire l’interferenza di Stati terzi in tali regioni”.

In sostanza, la Russia garantisce l’Iran rispetto a future aggressioni ipotizzate dall’alleanza Trump-Netanyahu, sdoganando probabilmente la corsa di Teheran verso il nucleare a scopi militari difensivi se la situazione di crisi dovesse degenerare nuovamente.

Per quanto riguarda la tregua tra Israele e i gruppi della resistenza palestinese, si tratta di un accordo che prevede tre fasi di implementazione in sei settimane: la prima che prevede il rilascio di 33 prigionieri israeliani (sia vivi che deceduti) e di 1700 prigionieri palestinesi, così come il ritorno degli sfollati alle loro case dalla parte meridionale di Gaza a quella settentrionale; la seconda con il rilascio di altri 66 prigionieri israeliani e il ritiro quasi completo delle forze israeliane da Gaza; la terza decreta un piano di ricostruzione della Striscia e una nuova struttura di governo a Gaza (punto quest’ultimo sul quale insistono Israele e USA che vorrebbero sostituire Hamas con l’ANP).

I termini chiave dell’accordo consistono nel ritiro completo dell’esercito di Tel Aviv dalla Striscia di Gaza ed il ritorno ai confini precedenti al 7 ottobre 2023; la riapertura del valico di Rafah e il ritiro completo delle forze israeliane dalla zona; la facilitazione degli spostamenti all’estero delle persone ferite e bisognose di cure mediche; l’ingresso di 600 camion di aiuti umanitari al giorno, secondo un protocollo umanitario sostenuto dal Qatar; l’ingresso a Gaza di 200.000 tende e 60.000 roulotte per un riparo immediato; lo scambio di prigionieri su larga scala, specie con il rientro alle proprie abitazioni dei detenuti con lunghe pene da scontare; la liberazione di tutte le donne e dei bambini di età inferiore ai 19 anni; il ritiro graduale dell’esercito israeliano dal Corridoio di Netzarim est-ovest che divideva in due parti la Striscia di Gaza e dal Corridoio Filadelfia che segna il confine tra Gaza ed Egitto (Valico di Rafah).

Fallito quindi l’obiettivo di espellere la popolazione palestinese dalla Striscia di Gaza e deportarla in Egitto, Israele deve perciò accontentarsi delle promesse statunitensi su una neutralizzazione politica di Hamas e degli altri gruppi della resistenza; Tel Aviv può intanto accontentarsi dell’annessione delle Alture del Golan (che è tuttavia contestata non solo dall’attuale Governo siriano ma anche dalla Comunità internazionale, Cina in testa) e dell’uccisione dei vertici di Hezbollah e delle Guardie Rivoluzionarie iraniane.

In attesa di capire quale sarà l’atteggiamento degli altri partner regionali e in particolare dei tre Paesi chiave dell’area: Egitto – profondamente infastidito dai piani estremisti israeliani al punto di schierare le proprie truppe nel Sinai – Arabia Saudita – nazione sulla quale dovrà reggere tutta l’impalcatura geopolitica che Trump si appresta a varare in Medio Oriente e Turchia, il cui ondeggiamento preoccupa non poco Washington e la stessa Tel Aviv.

Se il fronte della resistenza imperniato sull’asse sciita esce sicuramente indebolito ma non sconfitto, Israele attende ora di capire se la “normalizzazione” auspicata da Trump e fondata sul Corridoio India-Medio Oriente (IMEC) reggerà davvero alla prova dei fatti, visti i limiti economici del progetto e quelli militari dimostrati dall’esercito di Tel Aviv in oltre un anno di conflitto.

L’Iran, pur orfano di Assad, si copre le spalle grazie alla Russia e può ancora contare sugli agguerriti Houthi dello Yemen e sulle altre milizie sciite in Libano ed Iraq.

La Russia, alle prese con il mantenimento delle proprie basi militari in Siria, sarà costretta a rivolgersi sempre più verso il mondo turcofono-sunnita guidato da Ankara se vuole rimanere una potenza equilibratrice nel “Nuovo Medio Oriente”.

La Cina, favorevole ad una stabilizzazione geo-economica tramite la B.R.I., appare sempre più critica verso le politiche israelo-americane e si tiene aperta tutte le opzioni, vantando il successo degli accordi diplomatici Iran-Arabia Saudita ma considerando anche la possibilità di rifornire di armi i vari protagonisti sulla scacchiera mediorientale se Washington cercasse di espellerla dalla Regione.

Gli Stati Uniti continuano a vedere il Medio Oriente come un’area di loro diretta influenza e a mantenere una forte presenza militare non solo presso i suoi alleati storici ma anche in Siria ed Iraq. Molto dipenderà dalla capacità di Washington di trovare nuovi soci per l’IMEC, ad esempio Egitto, Sudan e Turchia, i quali però vedono il corridoio energetico proposto dagli USA come concorrenziale rispetto alle rotte commerciali tradizionali sotto il loro controllo. Oltre ad Emirati Arabi Uniti e Giordania, comunque, l’Oman potrebbe sostituire lo Stretto di Hormuz quale via di passaggio per le navi, eliminando la possibile interferenza iraniana.

Sarà allora la lotta sotterranea tra le diverse fazioni all’interno del Deep State ad Ankara, Il Cairo e Riyad a determinare lo spostamento della bilancia in un senso o nell’altro?

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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