Questa è la testimonianza di un siriano che ha combattuto per il suo paese e il suo popolo e che ora subisce la sconfitta più terribile della sua vita.
Questo articolo nasce da una conversazione che ho avuto con un vecchio amico che è stato un comandante delle Forze Armate siriane, il cui coraggio è stato apprezzato e riconosciuto in tutto il Medio Oriente. Un vero socialista di altri tempi, che mai ha avuto paura di dire quello che pensava e che, nonostante le contraddizioni e le diverse visioni politiche, non ha mai tradito il suo Paese e il sostegno al suo governo.
Non avendo piacere a rivelare il suo nome, in quanto impegnato ancora in attività istituzionali all’estero, lo chiameremo con il nome di fantasia Ram. Che si sia d’accordo o no con le sue parole, questa è la testimonianza di un siriano che ha combattuto per il suo Paese e il suo popolo e che adesso soffre la sconfitta più terribile della vita.
Il ritrovo con Ram
Nello studio privato di Ram c’è un’aria di vita vissuta appieno. Appesi alle pareti vari quadri di paesaggi siriani, assieme ad alcune invocazioni coraniche e delle terrecotte commemorative delle battagli a cui ha preso parte. Si intravede sulla libreria qualche libro antico in arabo assieme a molte cartelli di documenti in varie lingue. Qua e là ci sono fotografie ormai sbiadite di uomini in divisa mimetica nel deserto. Guardando verso l’entrata, una bandiera siriana con il volto di Bashar al-Assad ancora piena di polvere, terra e qualche strappo, come se fosse stata portata via dal campo di battaglia e messo subito sull’asta. Al centro, un foto di suo padre, uomo arabo dallo sguardo buono e saggio, con sopra appoggiata una kefiah nera a lutto.
Ci conosciamo da anni: io ero un ragazzino che leggeva i classici della geopolitica e guardava al mondo con il desiderio di comprenderlo, lui un combattente che aveva vissuto situazioni incredibili e si era ritirato a vita privata, continuando a lavorare per il suo Paese in altri modi, fuori dai riflettori. Mi piaceva molto ascoltare gli aneddoti che ogni volta tirava fuori dal bagaglio della sua memoria, era come immergersi in un mondo diverso, quasi inverosimile per quanto “altro” dall’Occidente. Soprattutto, un mondo in cui la guerra, la lotta per la libertà e per una situazione politica diversa non erano qualcosa di lontano nei decenni, bensì eventi freschi, le cui cicatrici ancora erano aperte e sanguinanti.
Lui ha sempre avuto grande rispetto di me e del mio sostegno per la causa siriana, motivo per cui mi ha concesso di incontrarlo. Mi accoglie con il calore, il rispetto e la profondità che appartiene al popolo siriano, famoso da millenni per la capacità di accogliere e integrare. Mi offre un lungo caffè e cominciamo a parlare.
«Ram, cosa ne pensi?» gli domando io.
La felicità del nostro incontro scompare all’improvviso. Il suo volto si fa serio e la sua testa si inclina in avanti come per riflettere profondamente. Dopo qualche secondo, alza lo sguardo: «Non l’ho mai detto a nessuno. Forse è arrivato il momento di dire quello che sapevo, quello che ho visto».
Quanto segue è la sua testimonianza, consegnatami con grande commozione e un palpabile dolore dalla prima all’ultima parola.
Sapevamo già tutto
«Quello che è successo non se lo aspettava nessuno, eccetto chi, come me, già aveva intravisto la trama degli eventi fin dal 2011 e magari aveva avuto delle anticipazioni da contatti fidati. Sapevamo già tutto. Sapevamo che Bashar al-Assad stava preparando qualcosa con i governanti di altri Paesi, predisponendo la sua buona uscita nel momento in cui fosse crollato il supporto in Medio Oriente o le cose si fossero messe male». La serietà della conversazione non ammette ironie o sarcasmi. Ram è serio e cerca di farmi comprendere la gravità delle sue parole, confidando nella mia professionalità e nella fiducia che ci lega.
La tesi che sostiene e che mi spiega con molti dettagli, alcuni dei quali non posso riportare per la delicatezza delle informazioni citate, è che Bashar al-Assad era troppo amico degli occidentali: la moglie banchiera, le cene nello United Kingdom, l’odore di massoneria, una certa passività davanti alla corruzione dei politici e degli alti ranghi delle forze armate. Troppi elementi che a molti siriani non andavano a genio e che già nel 2000, quando salì al potere, avevano destato sospetti e disappunto fra quanti, come Ram, avevano rischiato la vita per la rivoluzione.
Gli eventi del 2011-2013, la rivolta interna, il terrorismo jihadista, erano stati tutte conseguenze degli errori precedenti. Assad aveva strizzato troppo gli occhi all’Occidente…ma anche all’Oriente. Alla Russia, ad esempio. «Ti confesso che ci avevo creduto, ci avevo sperato. Putin poteva davvero fare la differenza. Non mi sono mai fidato di nessun altro governante, ma di lui sì, perché aveva realmente fornito un aiuto essenziale per sconfiggere il terrorismo e aveva garantito alla Siria almeno un minimo di sicurezza internazionale», mi dice mettendosi a esplorare fra i suoi molti ricordi. «Però non è servito, perché nell’accordo c’è coinvolta anche la Russia. Siamo stati traditi due volte: come Paese, dalla Russia che ha lasciato che il nemico ci assalisse; come popolo siriano, dal nostro Presidente che ha svenduto tutti noi per salvare la sua pelle». C’è rabbia negli occhi di Ram. Una solenne rabbia che non ammette menzogne.
«E ti dirò di più: per me l’accordo lo hanno siglato di concerto con Israele e gli USA. Agli ebrei americani interessa il Medio Oriente per realizzare il progetto del Grande Israele e la costruzione del Terzo Tempio, agli ebrei russi interessa l’Ucraina, la vecchia Khazaria. In questo modo, in ogni caso vincono. Israele ha vinto ancor prima di inviare le truppe a invadere». Parole forti e precise, come si addice a un comandante che la guerra l’ha fatta per davvero.
Mi spiega allora che erano già un paio di mesi che giravano informazioni circa la fuga di Assad e la consegna della Siria senza sforzi, ma non erano voci a cui veniva dato molto credito e le versioni dei fatti talvolta erano contraddittorie e imprecise. Però era chiaro che qualcosa si stava muovendo.
Mi racconta qualche aneddoto di quando combatteva, delle città che ha difeso e di quando ha anche preso parte ai conflitti in altri Paesi: «Ho visto in vita mia il nemico arrivare a Beirut, ad Damasco, ad Aleppo, ad Hama, ad Homs. Ho visto il nemico riuscire ad arrivare a farci credere di aver vinto, ma poi venir spazzato via dal coraggio dei nostri uomini. Ci sono stati momenti in cui avevo pensato che fosse la fine, che stessimo perdendo la guerra, ma poi accadeva qualcosa che dava nuovo slancio alla Resistenza. Questa volta – la prima volta in tutta la mia vita – ho visto la sconfitta».
Questo è il punto più doloroso. «Non abbiamo perso, siamo stati sconfitti. Questo è molto peggio. “Guai ai vinti!” dicevano i latini». La sconfitta è la cosa più terribile per un comandante di vecchia data. Il popolo siriano ha sempre dimostrato una resistenza eroica, ma qualcosa è andato storto da qualche parte.
«Sai cosa ho visto laggiù l’ultima volta che sono andato? Povertà, fame. Non c’è elettricità, non c’è acqua, non ci sono rifornimenti di cibo, non c’è nemmeno carburante. L’esercito è lasciato allo sbaraglio in condizioni di assoluta precarietà». Mi racconta che sono circa 700 000 mila i giovani siriani che hanno dato la vita per combattere contro il nemico.
Sangue, sangue, sangue. Possibile che il Medio Oriente debba continuamente essere bagnato dal sangue?
Poi mi spiega la corruzione che ha visto, dai posti di blocco dove i militari prendevano le tangenti senza fare controlli fino agli alti ufficiali comprati con il lusso di auto private, ville, souvenir occidentali.
«Una volta mentre uscivo in auto da Damasco per andare verso Homs ho incontrato due ragazzi giovanissimi in divisa lungo la strada. Erano magri e stavano fumando. Li ho fermati e gli ho chiesto che cosa facessero lì, in quelle condizioni. Mi hanno risposto che non avevano i soldi per andare ad Homs, per trascorrere le 24 ore di licenza che avevano, e nemmeno avevano i soldi per mangiare. Li ho caricati in macchina con me e siamo partiti. Durante il viaggio abbiamo parlato, mi hanno raccontato della miseria in cui vivevano alla base. La razione giornaliera di cibo era un pomodoro e una patata. Una volta a settimana gli davano un pollo da dividersi in otto persone. Ai miei tempi il cibo c’era e le truppe dovevano essere ben nutrite per essere pronte a combattere. Come è possibile che avvenga ciò? Negli ultimi 13 anni il Governo ha distrutto completamente l’esercito: corruzione degli ufficiali, mancanza di approvvigionamenti, disimpegno nella lotta per la causa nazionale».
Soleimani, Raisi, Nasrallah. Qualcuno ha tradito
«Quando il Generale Soleimani – che conobbi da giovane soldato – venne ucciso dal demone americano nel 2020, subito intuii che qualcosa stava cominciando ad andare storto. Lui era molto più di un Generale, era un Uomo vero, un leader, un esempio vivente. Dopo di lui, purtroppo, la Resistenza non ha avuto un altro militare capace allo stesso modo di coordinare migliaia di uomini di diversi Paesi, religioni ed etnie. Questo è stato uno svantaggio strategico enorme». Abbiamo ripercorso brevemente la storia dell’Asse della Resistenza e ragionato assieme sulle implicazioni geopolitiche per tutto il Medio Oriente.
«Quando ho sentito della morte di Raisi, non ho voluto crederci. Mi sembrava impossibile. Da quel momento in poi, tutto è andato precipitando. Ogni giorno guardavo le notizie con la paura che potesse succedere qualcosa di ancora più terribile. E così era: uno dopo l’altro hanno fatto fuori tutti i leader di Hezbollah e di Hamas». Una tragica verità, alla quale non ho potuto che dare conferma.
La velocità con cui il nemico ha sterminato uno dopo l’altro i capi militari della resistenza libanese è stata incredibile, a testimonianza che le agenzie come CIA, MI6 e Mossad hanno fatto un ottimo lavoro. Questo è un dato di fatto incontrovertibile. Nel giro di pochi mesi l’intera geografia politica mediorientale ha subito una mutazione che non era riuscita in anni di tentativi.
«Chi conosceva le coordinate del bunker di Nasrallah? Forse tre persone al mondo: Khamenei, Soleimani, Assad. Khamenei piuttosto che tradire sarebbe pronto a morire con il fucile in mano. Soleimani è già stato fatto fuori. Ne resta solo uno…». A queste parole resto a bocca aperta: il comandante non aveva mai parlato male del suo presidente, sebbene io sapessi che politicamente non ne era un sostenitore in tutto, ma sempre aveva sostenuto la battaglia del suo leader, per il bene di tutto il Paese. La rabbia, la delusione e il dolore hanno fatto uscire le parole più vere. Un azzardo, ma pur sempre verosimile.
Perché uno dei grandi dubbi che restano aperti è “chi” abbia rivelato l’esatta posizione di Nasrallah: un tracciamento di intelligence? Una spia? Una informazione pagata a peso d’oro? O un traditore? Fatto sta che Nasrallah non c’è più e questo, a dirla di Ram, significa che il Libano sarà il prossimo a cadere e la Palestina, di conseguenza, non esisterà più se non che nei ricordi degli ultimi arabi sparsi per il mondo.
«La Siria è caduta nel giro di pochi giorni perché era già caduta nella volontà dei suoi governanti che la avevano svenduta. 70 000 soldati sono emigrati nel giro di poche ore, portati sui taxi (che costano molti soldi), non sui mezzi militari, al confine con l’Iraq. Era tutto programmato. Non è stata sparata una sola pallottola in questa invasione. Questo non è l’esercito siriano che conosco. Questa “cosa” è una perversione senza dignità».
Mi indica una foto dietro di lui, intravedo un soldato in divisa, una di quelle foto-cartolina che si mandano ai genitori quando si presta il servizio militare: «Guarda quel ragazzo lì, 22 anni. Sgozzato». Si paralizza qualche istante, con gli occhi gonfi di lacrime. Era il figlio di un suo caro amico.
Cosa avverrà adesso?
Ram non ha voglia di parlare dei prossimi giorni o settimane o mesi. La Siria araba e laica non esiste più. La parola di chi è stato sconfitto non ha molto valore.
«Sta avvenendo qualcosa di impensabile in questi giorni. Non ci sono informazioni sui mass media a riguardo perché si tratterebbe di qualcosa di terribilmente crudo. Immagina 70 anni di odio etnico, culturale e religioso: stanno pareggiando i conti». C’è quasi paura nel pronunciare queste parole. Mi ricordo che ha un fratello nel clero islamico e vari nipoti e con una certa preoccupazione gli domando cosa ne sia di loro, quindi mi risponde «Sto cercando di portare via i miei parenti dalla Siria, ma dal 8 dicembre non riesco nemmeno a mettermi in contatto con loro». Una tragedia che è la condanna comune di troppe migliaia di persone in quelle terre.
Nel concludere la nostra conversazione, durata circa un’ora, Ram azzarda una proiezione quasi “profetica”: «Io lo dico: ieri la Palestina, oggi la Siria. Domani il Libano definitivamente. Poi lo Yemen. Caduti Yemen e Libano, il successivo sarà l’Iran. Nel mezzo non c’è più niente, l’Iraq è una pompa di benzina circondata da pistoleri americani, cadrà presto. Il presidente Trump è pronto a distruggere l’Iran, l’intelligence già lo sa bene. Se muore Khamenei, l’Iran crolla». Alcuni secondi di silenzio. Khamenei è l’ultima autorità islamica “globale” rimasta e l’ultimo patrono della Resistenza.
«Poi sarà il turno della Russia. Milioni di immigrati islamici sunniti in odore di estremismo sono già per le strade delle città russe. Hanno lasciato entrare indiscriminatamente, ne pagheranno le conseguenza. Poi sarà il tempo di Roma. Poi di Pechino. Attendo il giorno in cui le “lunghe barbe” arriveranno a marciare in piazza Rossa e in piazza San Pietro. Spero di morire prima di quel giorno terribile».
Qui termina la nostra conversazione. Un profondo silenzio che dura alcuni minuti. Ci alziamo per salutarci. Sospirando, mi congedo formalmente e guardo un’ultima volta i cimeli della guerra patriottica che Ram ha combattuto. Provo a chiedermi se anche io sarei pronto a dare la vita come hanno fatto tanti eroi e martiri che oggi non ci sono più, ma il cui esempio rimarrà per sempre.