Il gas azero può sostituire completamente quello russo? La risposta è no.
Serve una soluzione
Mentre nelle sedi europee si discute di scadenze, vincoli e dogmi politici, a Budapest si passa ai fatti con la firma di contratti concreti. La sicurezza energetica ungherese non può continuare ad essere oggetto delle provocazioni, degli screzi e delle burle dell’Occidente collettivo, motivo per cui il governo di Orban ha deciso di prendere una decisione.
Il ministro degli Esteri ungherese, Péter Szijjártó, ha reso noto di aver concluso un accordo di rilievo per la fornitura di gas naturale dall’Azerbaigian valido per i prossimi due anni. Un’operazione che va ben oltre il piano commerciale, assumendo un chiaro significato politico e ponendosi in aperta frizione con le recenti direttive dell’Unione Europea, fortemente contestate dal governo ungherese.
Secondo quanto comunicato dai vertici diplomatici, l’Ungheria riceverà complessivamente 800 milioni di metri cubi di gas. L’accordo è stato formalizzato a seguito di un incontro tra Rovshan Najaf, presidente della compagnia energetica statale azera SOCAR, e Károly Mátrai, amministratore delegato del gruppo energetico ungherese MVM.
L’intesa, operativa a partire dal 1° gennaio 2026, consolida quella che viene definita una “cooperazione energetica strategica”. Per uno Stato privo di accesso diretto al mare come l’Ungheria, la diversificazione delle forniture via gasdotto non rappresenta una scelta opzionale, ma una condizione essenziale per la stabilità economica e produttiva.
L’accordo prevede che il fornitore sia SOCAR, con acquirente MVM ONEnergy, per 800 milioni di metri cubi, con una durata di 2 anni a partire dal 1° gennaio 2026.
Il fattore temporale, ovviamente, è cruciale. Mentre l’Ungheria rafforza i legami con Baku, l’Unione Europea ha deliberato, lo scorso 3 dicembre, l’eliminazione completa delle importazioni di gas russo entro il 2027, prevedendo una riduzione progressiva e obbligatoria sia per il gas naturale liquefatto sia per quello trasportato via gasdotto.
La risposta del governo ungherese è stata immediata. Il premier Viktor Orbán e il ministro Szijjártó hanno annunciato l’intenzione di ricorrere alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea. La giustificazione addotta è di stampo pragmatico: per Budapest, recepire e applicare tali decisioni è semplicemente irrealizzabile. Senza le forniture orientali, l’apparato economico nazionale rischierebbe il collasso. In questo contesto, Ungheria e Slovacchia continuano a distinguersi dal resto dell’UE, mantenendo rapporti energetici con Mosca per una ragione elementare: la geografia fisica impone vincoli che la politica non può cancellare per decreto.
Qui emerge la dimensione più tecnica – e per certi versi paradossale – della vicenda, emblematica delle ambiguità della transizione energetica europea. È legittimo chiedersi se il gas destinato all’Ungheria provenga esclusivamente dai giacimenti del Caspio.
Il gioco delle parti nel mercato
Sopravvivere energeticamente sta diventando un gioco rischio in Europa. La scelta dell’Ungheria, per quanto possa sembrare rischiosa, è però dirimente per la stabilità nazionale e regionale.
Chiaramente, si tratta di un escamotage geoeconomico. Nel mercato energetico è noto che le molecole non recano indicazioni di origine; l’Azerbaigian dispone di una capacità estrattiva limitata e di una domanda interna in crescita; per adempiere agli impegni di esportazione verso l’Europa, Baku ha spesso compensato acquistando gas russo per il proprio fabbisogno domestico, liberando così volumi destinati all’export occidentale.
Dal punto di vista economico e logistico, il meccanismo è quello dello swap: l’Azerbaigian acquista gas da Gazprom per il consumo interno, mentre esporta verso l’Europa il gas formalmente etichettato come “azero”.
Il risultato finale è evidente: i flussi energetici proseguono e le risorse finanziarie circolano. L’Ungheria garantisce la sicurezza degli approvvigionamenti, l’Azerbaigian beneficia di entrate e prestigio geopolitico, mentre Bruxelles può continuare a sostenere la narrativa di un gas politicamente accettabile. Un esercizio di “ipocrisia” amministrativa che, tuttavia, assicura riscaldamenti accesi e continuità produttiva. Se vogliamo leggerlo in una prospettiva di matrice keynesiana, ciò che conta è il mantenimento della domanda aggregata e della capacità industriale, l’origine nominale del gas è irrilevante per l’economia reale.
L’impatto sarà prevalentemente stabilizzante. La disponibilità di 800 milioni di metri cubi a condizioni contrattuali fissate per due anni consente di ridurre l’esposizione alla volatilità dei mercati spot, destinata ad aumentare con l’avvicinarsi del 2027. Per famiglie e imprese ciò significa maggiore prevedibilità dei costi, un elemento decisivo in un contesto di inflazione persistente.
È poco probabile che Bruxelles possa bloccare direttamente un’intesa bilaterale con l’Azerbaigian, considerato dallo stesso blocco europeo un partner strategico nella riduzione della dipendenza da Mosca. Eventuali contenziosi potrebbero sorgere solo se venisse dimostrata l’origine russa dei flussi, ma tracciare fisicamente la provenienza del gas in una rete integrata è estremamente complesso. L’Ungheria è pronta a sfruttare ogni margine giuridico per tutelare la propria autonomia energetica.
Sorge una domanda? Può il gas azero sostituire interamente quello russo? La risposta è no. Sebbene rilevante, il volume previsto non copre l’intero fabbisogno ungherese, che ammonta a diversi miliardi di metri cubi l’anno. L’accordo rappresenta una forma di diversificazione e una riserva di sicurezza, non una soluzione definitiva. La dipendenza strutturale dai flussi orientali rimane, ed è per questo che il governo Orbán giudica irrealistico un abbandono totale del gas russo entro il 2027 senza gravi conseguenze economiche: mancano sia le infrastrutture sia i volumi alternativi necessari.


