Italiano
Davide Rossi
September 26, 2025
© Photo: Public domain

I mesi fin qui trascorsi dall’insediamento di Donald Trump permettono di trarre un primo, certo parziale e approssimativo bilancio, di questa seconda stagione trumpiana, più marcatamente decisa nel porre le basi di un nuovo modo di essere degli Stati Uniti e dei suoi cittadini stessi, non scevra da un progetto ambizioso quanto difficile di edificare un uomo nuovo statunitense.

Segue nostro Telegram.

Il primo quadriennio 2016 – 2020, con buona pace degli anti – trumpisti collericamente inveterati, è stato caratterizzato da alcune linee di condotta fondamentali, ovvero la pace come più evidente contraddizione rispetto a tutta la storia a stelle strisce, nessuna guerra promossa e possibilmente tutte quelle aperte chiuse, una politica salariale a favore delle classi più deboli in concerto con i sindacati e per quanto le circostanze, anche pandemiche, lo abbiano permesso, un rilancio della manifattura interna e della capacità produttiva nazionale. Tali scelte, in totale contrasto con il forsennato globalismo espansionistico, speculativo, finanziario e guerrafondaio degli ultra – liberisti, tanto democratici, quanto neo – conservatori, transitati questi ultimi in massa dal Partito Repubblicano a quello Democratico e in definitiva ben lieti di far propria anche l’agenda liberal genderista democratica, hanno maturato la loro scelta dopo che Trump ha trasformato il Partito Repubblicano in una forza politica apertamente reazionaria e conservatrice e dunque anti – liberale, ma anche e soprattutto capace di offrire rappresentanza alle nuove forme del proletariato statunitense, sempre guardate ieri e ancora oggi con orrore da quei dirigenti elitari e autoreferenziali di entrambi i maggiori partiti statunitensi.

Molti hanno immaginato che il secondo mandato trumpiano proseguisse nel solco del primo, così è stato in effetti in questo primi mesi, tuttavia con una più decisa, netta, tambureggiante determinazione, a tratti aggressiva, come dimostrato con la politica dei dazi necessaria per riportare le fabbriche sul suolo statunitense, così come negli scenari militari e diplomatici internazionali, in cui ha cercato di imporre il peso di Washington per una rapida soluzione dei molti conflitti aperti.

Al momento tuttavia il bilancio di questa duplice strategia si è rivelato del tutto fallimentare, la decisa volontà di tornare a una poderosa produzione interna, fondamentale per chiunque ambisca al primato planetario, come dimostra la Cina Popolare, si è rivelata catastrofica, non tanto per la difficoltà ad imporre e ad applicare i dazi a nazioni terze, che pur restano riluttanti nel trasferire gli impianti produttivi negli Stati Uniti, ma perché l’obsolescenza industriale a stelle e strisce, così come la situazione infrastrutturale, mostrano un apparato tecnologico vetero – novecentesco, si pensi – per proporre un esempio che valga per tutti – che per costruire una nave porta – container negli Stati Uniti si impiegano otto mesi, mentre in Sudcorea una settimana[1].

A livello internazionale Trump ha agito più sugli alleati che sugli avversari, con l’idea di mettere sul tavolo il peso del possibile termine del supporto economico e militare a stelle e strisce in tutti gli scenari di guerra, ma ha trovato ostilità e contrarietà, trovandosi costretto a pesanti retromarce, un po’ per spalleggiare la produzione interna di armamenti, un po’ per non venir meno al ruolo politico internazionalmente assolto da Washington dal 1945 nella costruzione dell’unipolarismo imperialista.

Quello che tuttavia risulta chiaro è il nuovo paradigma culturale e ideologico che supporta questa nuova stagione del trumpismo. Più che nel primo mandato, in questo secondo tanto i suoi intellettuali di riferimento, quanto la base proletaria che in quei convincimenti si riconosce, hanno tracciato le linee di un pensiero che vuole essere al contempo reazionario e solidale, conservatore e umanista e che si pone in totale rottura con la tradizione liberal che ha contraddistinto l’ultimo mezzo secolo statunitense.

Il liberalismo, con tutto il suo portato di universalismo globalista, arrogante e cosmopolita, con la sua autoproclamata convinzione di essere intrinsecamente progressista, inclusivo, anche se per decenni ha escluso lavoratori poveri e disoccupati, anzi disprezzandoli come porzione non rappresentativa della nazione statunitense, piuttosto tutto proteso nell’adorazione della finanza e della speculazione dettate da Wall Street, è il nemico che il trumpismo sente di dover abbattere, un mostro in cui vedono solo un elitario gruppo di ricchi autoproclamatisi rappresentanti della nazione, ma disprezzanti ogni amor di patria, ogni sacrificio per essa, ogni concreta azione a risollevarne le sorti, anzi loro, gli elitari liberal incuranti del popolo, sono identificati come i veri artefici del disastroso collasso in cui la potenza statunitense è sprofondata e la povertà sociale è dilagata.

Può sembrare una rappresentazione ideologica forte e a tratti eccessiva, tuttavia, se si analizza l’andamento sociale ed economico di quella nazione, si scoprirà che le ragioni che essi esprimono sono molte. Negli Stati Uniti, come in larga parte dell’Occidente, ridotti in molti casi a marginale insignificanza i gruppi marxisti antiglobalisti, spesso risucchiati in un ruolo ancillare rispetto alla sinistra liberale e ripiegati a sventolare le bandiere del genderismo come ultima frontiera di un’uguaglianza che ha perso nelle loro rivendicazioni ogni dimensione salariale e sindacale, la rappresentanza di coloro che lottano contro l’omologazione globalista, contro la distruzione del lavoro e dei redditi, per il rispetto delle culture e delle tradizioni contro un appiattimento mercificatorio a modelli cosmopoliti, è stata colmata dalle le destre conservatrici.

Tutto questo è raccontato, negli Stati Uniti e in Europa, dai media rimasti fedeli al più feroce ideologismo liberal, come attacco alla democrazia, quando in realtà è un ritorno alla democrazia, perché pone dei temi trascurati, negletti e schiacciati da un pensiero dominante che si è fatto sempre più negli anni espressione di pochi contro il resto della società, tanto negli Stati Uniti, quanto in tutto il resto dell’Occidente.

Il trumpismo è con evidenza ferocemente reazionario, in quanto reazione a decenni di declino e decadenza della società statunitense, la pantomima messa in scena infatti per decenni dai Bush e accoliti da un lato e dagli Obama e dai Clinton dall’altro di una finta alternanza politica tra liberal e conservatori che pensavano e agivano allo stesso modo, è stata spazzata via dalla rabbia certo reazionaria, ma anche a suo modo trasformatrice delle masse disagiate e diseredate statunitensi che con il trumpismo sono diventate soggetto politico ed elettorale, visti i settantasette milioni di voti raccolti da Trump lo scorso novembre 2024.

Ovviamente il mondo liberal irride questo movimento sociale di spettacolari proporzioni, come da tempo non si vedeva in quella nazione, riducendolo impropriamente a una specie di trogloditico paleo – conservatorismo, senza capire che la richiesta di ordine, lavoro, rispetto delle tradizioni e della religione, appartenenza comunitaria, politiche per le famiglie, amore per la nazione e rifiuto d’occuparsi del resto del pianeta, nasca da un’opposizione totale a quanto è stato propagandato come universale dal sistema liberal nel tempo successivo alla vittoria nella Guerra Fredda, vi è stato infatti il convincimento che si potesse imporre, con tutto il fuoco mediatico possibile, dal cinema alla musica, dentro gli Stati Uniti e nel mondo, un uomo nuovo individualista e cosmopolita, monade edonista e consumista, egocentrica, omologata sotto ogni latitudine negli stili di vita e nei valori, estranea o addirittura ostile ai concetti di patria e comunità, costantemente volta a irridere le religioni in nome di un vago, superficiale e sincretico spiritualismo.

Il disprezzo dei ricchi verso i poveri ha indotto questi ultimi a una rinnovata coscienza di classe, in cui le loro miserevoli vite sono diventate la base su cui costruire una nuova forza politica fortemente ideologizzata e di cui Donald Trump si è fatto in ogni senso, pur dentro le sue molteplici contraddizioni personali, rappresentante.

Quando Trump afferma che “la nazione inizia a cena”, i liberal sghignazzano, i suoi elettori invece capiscono benissimo che deve finire il tempo in cui ognuno apre il frigorifero e si butta sul divano a guardare da solo il televisore, l’idea è quella di tornare famiglia, tornare comunità, tornare nazione, trovare una nuova coesione sociale che sani le diseguaglianze e lenisca almeno parzialmente le tante povertà.

Una scommessa sociale prima ancora che politica che travalica di molto il mandato presidenziale trumpiano e propone agli statunitensi un nuovo paradigma identitario.

*

[1]  https://strategic-culture.su/contributors/davide-rossi/#articles

L’ideologia trumpiana come nuovo paradigma identitario per i cittadini statunitensi

I mesi fin qui trascorsi dall’insediamento di Donald Trump permettono di trarre un primo, certo parziale e approssimativo bilancio, di questa seconda stagione trumpiana, più marcatamente decisa nel porre le basi di un nuovo modo di essere degli Stati Uniti e dei suoi cittadini stessi, non scevra da un progetto ambizioso quanto difficile di edificare un uomo nuovo statunitense.

Segue nostro Telegram.

Il primo quadriennio 2016 – 2020, con buona pace degli anti – trumpisti collericamente inveterati, è stato caratterizzato da alcune linee di condotta fondamentali, ovvero la pace come più evidente contraddizione rispetto a tutta la storia a stelle strisce, nessuna guerra promossa e possibilmente tutte quelle aperte chiuse, una politica salariale a favore delle classi più deboli in concerto con i sindacati e per quanto le circostanze, anche pandemiche, lo abbiano permesso, un rilancio della manifattura interna e della capacità produttiva nazionale. Tali scelte, in totale contrasto con il forsennato globalismo espansionistico, speculativo, finanziario e guerrafondaio degli ultra – liberisti, tanto democratici, quanto neo – conservatori, transitati questi ultimi in massa dal Partito Repubblicano a quello Democratico e in definitiva ben lieti di far propria anche l’agenda liberal genderista democratica, hanno maturato la loro scelta dopo che Trump ha trasformato il Partito Repubblicano in una forza politica apertamente reazionaria e conservatrice e dunque anti – liberale, ma anche e soprattutto capace di offrire rappresentanza alle nuove forme del proletariato statunitense, sempre guardate ieri e ancora oggi con orrore da quei dirigenti elitari e autoreferenziali di entrambi i maggiori partiti statunitensi.

Molti hanno immaginato che il secondo mandato trumpiano proseguisse nel solco del primo, così è stato in effetti in questo primi mesi, tuttavia con una più decisa, netta, tambureggiante determinazione, a tratti aggressiva, come dimostrato con la politica dei dazi necessaria per riportare le fabbriche sul suolo statunitense, così come negli scenari militari e diplomatici internazionali, in cui ha cercato di imporre il peso di Washington per una rapida soluzione dei molti conflitti aperti.

Al momento tuttavia il bilancio di questa duplice strategia si è rivelato del tutto fallimentare, la decisa volontà di tornare a una poderosa produzione interna, fondamentale per chiunque ambisca al primato planetario, come dimostra la Cina Popolare, si è rivelata catastrofica, non tanto per la difficoltà ad imporre e ad applicare i dazi a nazioni terze, che pur restano riluttanti nel trasferire gli impianti produttivi negli Stati Uniti, ma perché l’obsolescenza industriale a stelle e strisce, così come la situazione infrastrutturale, mostrano un apparato tecnologico vetero – novecentesco, si pensi – per proporre un esempio che valga per tutti – che per costruire una nave porta – container negli Stati Uniti si impiegano otto mesi, mentre in Sudcorea una settimana[1].

A livello internazionale Trump ha agito più sugli alleati che sugli avversari, con l’idea di mettere sul tavolo il peso del possibile termine del supporto economico e militare a stelle e strisce in tutti gli scenari di guerra, ma ha trovato ostilità e contrarietà, trovandosi costretto a pesanti retromarce, un po’ per spalleggiare la produzione interna di armamenti, un po’ per non venir meno al ruolo politico internazionalmente assolto da Washington dal 1945 nella costruzione dell’unipolarismo imperialista.

Quello che tuttavia risulta chiaro è il nuovo paradigma culturale e ideologico che supporta questa nuova stagione del trumpismo. Più che nel primo mandato, in questo secondo tanto i suoi intellettuali di riferimento, quanto la base proletaria che in quei convincimenti si riconosce, hanno tracciato le linee di un pensiero che vuole essere al contempo reazionario e solidale, conservatore e umanista e che si pone in totale rottura con la tradizione liberal che ha contraddistinto l’ultimo mezzo secolo statunitense.

Il liberalismo, con tutto il suo portato di universalismo globalista, arrogante e cosmopolita, con la sua autoproclamata convinzione di essere intrinsecamente progressista, inclusivo, anche se per decenni ha escluso lavoratori poveri e disoccupati, anzi disprezzandoli come porzione non rappresentativa della nazione statunitense, piuttosto tutto proteso nell’adorazione della finanza e della speculazione dettate da Wall Street, è il nemico che il trumpismo sente di dover abbattere, un mostro in cui vedono solo un elitario gruppo di ricchi autoproclamatisi rappresentanti della nazione, ma disprezzanti ogni amor di patria, ogni sacrificio per essa, ogni concreta azione a risollevarne le sorti, anzi loro, gli elitari liberal incuranti del popolo, sono identificati come i veri artefici del disastroso collasso in cui la potenza statunitense è sprofondata e la povertà sociale è dilagata.

Può sembrare una rappresentazione ideologica forte e a tratti eccessiva, tuttavia, se si analizza l’andamento sociale ed economico di quella nazione, si scoprirà che le ragioni che essi esprimono sono molte. Negli Stati Uniti, come in larga parte dell’Occidente, ridotti in molti casi a marginale insignificanza i gruppi marxisti antiglobalisti, spesso risucchiati in un ruolo ancillare rispetto alla sinistra liberale e ripiegati a sventolare le bandiere del genderismo come ultima frontiera di un’uguaglianza che ha perso nelle loro rivendicazioni ogni dimensione salariale e sindacale, la rappresentanza di coloro che lottano contro l’omologazione globalista, contro la distruzione del lavoro e dei redditi, per il rispetto delle culture e delle tradizioni contro un appiattimento mercificatorio a modelli cosmopoliti, è stata colmata dalle le destre conservatrici.

Tutto questo è raccontato, negli Stati Uniti e in Europa, dai media rimasti fedeli al più feroce ideologismo liberal, come attacco alla democrazia, quando in realtà è un ritorno alla democrazia, perché pone dei temi trascurati, negletti e schiacciati da un pensiero dominante che si è fatto sempre più negli anni espressione di pochi contro il resto della società, tanto negli Stati Uniti, quanto in tutto il resto dell’Occidente.

Il trumpismo è con evidenza ferocemente reazionario, in quanto reazione a decenni di declino e decadenza della società statunitense, la pantomima messa in scena infatti per decenni dai Bush e accoliti da un lato e dagli Obama e dai Clinton dall’altro di una finta alternanza politica tra liberal e conservatori che pensavano e agivano allo stesso modo, è stata spazzata via dalla rabbia certo reazionaria, ma anche a suo modo trasformatrice delle masse disagiate e diseredate statunitensi che con il trumpismo sono diventate soggetto politico ed elettorale, visti i settantasette milioni di voti raccolti da Trump lo scorso novembre 2024.

Ovviamente il mondo liberal irride questo movimento sociale di spettacolari proporzioni, come da tempo non si vedeva in quella nazione, riducendolo impropriamente a una specie di trogloditico paleo – conservatorismo, senza capire che la richiesta di ordine, lavoro, rispetto delle tradizioni e della religione, appartenenza comunitaria, politiche per le famiglie, amore per la nazione e rifiuto d’occuparsi del resto del pianeta, nasca da un’opposizione totale a quanto è stato propagandato come universale dal sistema liberal nel tempo successivo alla vittoria nella Guerra Fredda, vi è stato infatti il convincimento che si potesse imporre, con tutto il fuoco mediatico possibile, dal cinema alla musica, dentro gli Stati Uniti e nel mondo, un uomo nuovo individualista e cosmopolita, monade edonista e consumista, egocentrica, omologata sotto ogni latitudine negli stili di vita e nei valori, estranea o addirittura ostile ai concetti di patria e comunità, costantemente volta a irridere le religioni in nome di un vago, superficiale e sincretico spiritualismo.

Il disprezzo dei ricchi verso i poveri ha indotto questi ultimi a una rinnovata coscienza di classe, in cui le loro miserevoli vite sono diventate la base su cui costruire una nuova forza politica fortemente ideologizzata e di cui Donald Trump si è fatto in ogni senso, pur dentro le sue molteplici contraddizioni personali, rappresentante.

Quando Trump afferma che “la nazione inizia a cena”, i liberal sghignazzano, i suoi elettori invece capiscono benissimo che deve finire il tempo in cui ognuno apre il frigorifero e si butta sul divano a guardare da solo il televisore, l’idea è quella di tornare famiglia, tornare comunità, tornare nazione, trovare una nuova coesione sociale che sani le diseguaglianze e lenisca almeno parzialmente le tante povertà.

Una scommessa sociale prima ancora che politica che travalica di molto il mandato presidenziale trumpiano e propone agli statunitensi un nuovo paradigma identitario.

*

[1]  https://strategic-culture.su/contributors/davide-rossi/#articles

I mesi fin qui trascorsi dall’insediamento di Donald Trump permettono di trarre un primo, certo parziale e approssimativo bilancio, di questa seconda stagione trumpiana, più marcatamente decisa nel porre le basi di un nuovo modo di essere degli Stati Uniti e dei suoi cittadini stessi, non scevra da un progetto ambizioso quanto difficile di edificare un uomo nuovo statunitense.

Segue nostro Telegram.

Il primo quadriennio 2016 – 2020, con buona pace degli anti – trumpisti collericamente inveterati, è stato caratterizzato da alcune linee di condotta fondamentali, ovvero la pace come più evidente contraddizione rispetto a tutta la storia a stelle strisce, nessuna guerra promossa e possibilmente tutte quelle aperte chiuse, una politica salariale a favore delle classi più deboli in concerto con i sindacati e per quanto le circostanze, anche pandemiche, lo abbiano permesso, un rilancio della manifattura interna e della capacità produttiva nazionale. Tali scelte, in totale contrasto con il forsennato globalismo espansionistico, speculativo, finanziario e guerrafondaio degli ultra – liberisti, tanto democratici, quanto neo – conservatori, transitati questi ultimi in massa dal Partito Repubblicano a quello Democratico e in definitiva ben lieti di far propria anche l’agenda liberal genderista democratica, hanno maturato la loro scelta dopo che Trump ha trasformato il Partito Repubblicano in una forza politica apertamente reazionaria e conservatrice e dunque anti – liberale, ma anche e soprattutto capace di offrire rappresentanza alle nuove forme del proletariato statunitense, sempre guardate ieri e ancora oggi con orrore da quei dirigenti elitari e autoreferenziali di entrambi i maggiori partiti statunitensi.

Molti hanno immaginato che il secondo mandato trumpiano proseguisse nel solco del primo, così è stato in effetti in questo primi mesi, tuttavia con una più decisa, netta, tambureggiante determinazione, a tratti aggressiva, come dimostrato con la politica dei dazi necessaria per riportare le fabbriche sul suolo statunitense, così come negli scenari militari e diplomatici internazionali, in cui ha cercato di imporre il peso di Washington per una rapida soluzione dei molti conflitti aperti.

Al momento tuttavia il bilancio di questa duplice strategia si è rivelato del tutto fallimentare, la decisa volontà di tornare a una poderosa produzione interna, fondamentale per chiunque ambisca al primato planetario, come dimostra la Cina Popolare, si è rivelata catastrofica, non tanto per la difficoltà ad imporre e ad applicare i dazi a nazioni terze, che pur restano riluttanti nel trasferire gli impianti produttivi negli Stati Uniti, ma perché l’obsolescenza industriale a stelle e strisce, così come la situazione infrastrutturale, mostrano un apparato tecnologico vetero – novecentesco, si pensi – per proporre un esempio che valga per tutti – che per costruire una nave porta – container negli Stati Uniti si impiegano otto mesi, mentre in Sudcorea una settimana[1].

A livello internazionale Trump ha agito più sugli alleati che sugli avversari, con l’idea di mettere sul tavolo il peso del possibile termine del supporto economico e militare a stelle e strisce in tutti gli scenari di guerra, ma ha trovato ostilità e contrarietà, trovandosi costretto a pesanti retromarce, un po’ per spalleggiare la produzione interna di armamenti, un po’ per non venir meno al ruolo politico internazionalmente assolto da Washington dal 1945 nella costruzione dell’unipolarismo imperialista.

Quello che tuttavia risulta chiaro è il nuovo paradigma culturale e ideologico che supporta questa nuova stagione del trumpismo. Più che nel primo mandato, in questo secondo tanto i suoi intellettuali di riferimento, quanto la base proletaria che in quei convincimenti si riconosce, hanno tracciato le linee di un pensiero che vuole essere al contempo reazionario e solidale, conservatore e umanista e che si pone in totale rottura con la tradizione liberal che ha contraddistinto l’ultimo mezzo secolo statunitense.

Il liberalismo, con tutto il suo portato di universalismo globalista, arrogante e cosmopolita, con la sua autoproclamata convinzione di essere intrinsecamente progressista, inclusivo, anche se per decenni ha escluso lavoratori poveri e disoccupati, anzi disprezzandoli come porzione non rappresentativa della nazione statunitense, piuttosto tutto proteso nell’adorazione della finanza e della speculazione dettate da Wall Street, è il nemico che il trumpismo sente di dover abbattere, un mostro in cui vedono solo un elitario gruppo di ricchi autoproclamatisi rappresentanti della nazione, ma disprezzanti ogni amor di patria, ogni sacrificio per essa, ogni concreta azione a risollevarne le sorti, anzi loro, gli elitari liberal incuranti del popolo, sono identificati come i veri artefici del disastroso collasso in cui la potenza statunitense è sprofondata e la povertà sociale è dilagata.

Può sembrare una rappresentazione ideologica forte e a tratti eccessiva, tuttavia, se si analizza l’andamento sociale ed economico di quella nazione, si scoprirà che le ragioni che essi esprimono sono molte. Negli Stati Uniti, come in larga parte dell’Occidente, ridotti in molti casi a marginale insignificanza i gruppi marxisti antiglobalisti, spesso risucchiati in un ruolo ancillare rispetto alla sinistra liberale e ripiegati a sventolare le bandiere del genderismo come ultima frontiera di un’uguaglianza che ha perso nelle loro rivendicazioni ogni dimensione salariale e sindacale, la rappresentanza di coloro che lottano contro l’omologazione globalista, contro la distruzione del lavoro e dei redditi, per il rispetto delle culture e delle tradizioni contro un appiattimento mercificatorio a modelli cosmopoliti, è stata colmata dalle le destre conservatrici.

Tutto questo è raccontato, negli Stati Uniti e in Europa, dai media rimasti fedeli al più feroce ideologismo liberal, come attacco alla democrazia, quando in realtà è un ritorno alla democrazia, perché pone dei temi trascurati, negletti e schiacciati da un pensiero dominante che si è fatto sempre più negli anni espressione di pochi contro il resto della società, tanto negli Stati Uniti, quanto in tutto il resto dell’Occidente.

Il trumpismo è con evidenza ferocemente reazionario, in quanto reazione a decenni di declino e decadenza della società statunitense, la pantomima messa in scena infatti per decenni dai Bush e accoliti da un lato e dagli Obama e dai Clinton dall’altro di una finta alternanza politica tra liberal e conservatori che pensavano e agivano allo stesso modo, è stata spazzata via dalla rabbia certo reazionaria, ma anche a suo modo trasformatrice delle masse disagiate e diseredate statunitensi che con il trumpismo sono diventate soggetto politico ed elettorale, visti i settantasette milioni di voti raccolti da Trump lo scorso novembre 2024.

Ovviamente il mondo liberal irride questo movimento sociale di spettacolari proporzioni, come da tempo non si vedeva in quella nazione, riducendolo impropriamente a una specie di trogloditico paleo – conservatorismo, senza capire che la richiesta di ordine, lavoro, rispetto delle tradizioni e della religione, appartenenza comunitaria, politiche per le famiglie, amore per la nazione e rifiuto d’occuparsi del resto del pianeta, nasca da un’opposizione totale a quanto è stato propagandato come universale dal sistema liberal nel tempo successivo alla vittoria nella Guerra Fredda, vi è stato infatti il convincimento che si potesse imporre, con tutto il fuoco mediatico possibile, dal cinema alla musica, dentro gli Stati Uniti e nel mondo, un uomo nuovo individualista e cosmopolita, monade edonista e consumista, egocentrica, omologata sotto ogni latitudine negli stili di vita e nei valori, estranea o addirittura ostile ai concetti di patria e comunità, costantemente volta a irridere le religioni in nome di un vago, superficiale e sincretico spiritualismo.

Il disprezzo dei ricchi verso i poveri ha indotto questi ultimi a una rinnovata coscienza di classe, in cui le loro miserevoli vite sono diventate la base su cui costruire una nuova forza politica fortemente ideologizzata e di cui Donald Trump si è fatto in ogni senso, pur dentro le sue molteplici contraddizioni personali, rappresentante.

Quando Trump afferma che “la nazione inizia a cena”, i liberal sghignazzano, i suoi elettori invece capiscono benissimo che deve finire il tempo in cui ognuno apre il frigorifero e si butta sul divano a guardare da solo il televisore, l’idea è quella di tornare famiglia, tornare comunità, tornare nazione, trovare una nuova coesione sociale che sani le diseguaglianze e lenisca almeno parzialmente le tante povertà.

Una scommessa sociale prima ancora che politica che travalica di molto il mandato presidenziale trumpiano e propone agli statunitensi un nuovo paradigma identitario.

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The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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