Italiano
Davide Rossi
July 23, 2025
© Photo: Public domain

Italia e sport

Segue nostro Telegram.

Jannik Sinner, Lorenzo Musetti, Matteo Berrettini, Flavio Cobolli, Lorenzo Sonego, Matteo Arnaldi, Luciano Darderi, Luca Nardi, Fabio Fognini, Francesco Passaro, Mattia Bellucci. Esattamente undici, come una  squadra di calcio, questi i ragazzi italiani tra i primi cento tennisti al mondo, tutti in fila dietro Sinner numero uno indiscusso e meritato vincitore – la prima volta di un azzurro – a Wimbledon il 13 luglio 2025, più antico torneo del mondo essendo la prima edizione del 1877. Insieme ai doppisti  Simone Bolelli e Andrea Vavassori, gli azzurri poi hanno vinto le ultime due coppe Davis del 2023 e del 2024, con buone possibilità di conseguire la terza consecutiva nel 2025.

Si potrebbe affermare che sia tutto merito individuale, dei singoli, un primeggiare con la racchetta che è anche femminile, tra le donne, pur se con minor rilievo mediatico, qualche anno fa Roberta Vinci e Flavia Pennetta e dopo di loro Sara Errani e con lei Jasmine Paolini, Lucia Bronzetti, Elisabetta Cocciaretto, Lucrezia Stefanini, Nuria Brancaccio, Camila Giorgi, Martina Trevisan.

Oggi una partita di Jannik Sinner trasmessa dalle televisioni italiane è seguita con ascolti tripli rispetto a qualsiasi partita di calcio della nazionale, la quale versa nella tremebonda situazione di rischiare di non qualificarsi per la terza volta consecutiva ai mondiali, dopo essere stata eliminata nel novembre 2017 dalla Svezia e nel marzo 2022 dalla Macedonia.

Angelo Binaghi presidente della Federtennis dal 2001 racconta con puntale precisione la storia del quarto di secolo trascorso, il tennis italiano versava all’avvento del suo mandato in una situazione pietosa, pochi campi per i professionisti e tutti in terra battuta, poco o nulla per i bambini e i ragazzi, da allora ha cercato di ribaltare questa miseranda situazione, il risultato è stata l’implementazione di campi, anche di quelli veloci, ovvero in cemento e in materiale sintetico, per offrire ai professionisti la possibilità di allenamenti coerenti con le necessità dei tornei internazionali, a livello giovanile la capillarizzazione della presenza dei campi per permettere in ogni angolo della penisola e a prezzi più contenuti di praticare un sport per troppo tempo elitario.

Insomma il miracolo della racchetta italiana è il frutto del fortunato avvento di campioni, al pari di mirate e ragionate strategie della Federtennis.

Simmetrico al disastro del calcio, in cui quello delle serie minori e dei settori giovanili langue tra mille difficoltà e trascuratezze, quello professionistico vive sotto il ricatto dei procuratori, i quali quando propongono un giocatore ne vendono insieme altri cinque, con tanto di obbligo contrattuale di mandarli in campo tutti con un minutaggio prestabilito per ciascuno e a cui gli allenatori devono attenersi e rispettare, con rischio per le società di pagare penali se qualcuno alla fine del campionato avesse giocato troppo poco. Vi è poi un utilizzo in serie A e serie B risibile di giocatori italiani, al contrario di qualsiasi altra nazione europea, in cui almeno quattro o cinque autoctoni sono sempre in campo a prescindere dai regolamenti dell’Unione Europea, a tutto vantaggio delle rispettive nazionali e del movimento calcistico locale più in generale.

In Italia dunque la racchetta vola, mentre il pallone si è sgonfiato e gli stadi sempre più tristemente si svuotano. Soprattutto i giovani, quelli ai quali abbiamo negato la gioia di vedere l’Italia ai mondiali, certo, tifano ancora per Milan e Inter, Torino e Juventus, Genoa e Sampdoria, Roma e Lazio, Napoli e Palermo e via via con le mille squadre dei mille campanili, ma l’impressione è che il calcio stia diventando qualcosa di vecchio, di obsoleto, di superato. Interessarsi al calcio sta diventando un po’ come avere un orologio al polso e leggere un quotidiano cartaceo, robe da vecchi e da pensionati, guardati stralunati da giovani che l’ora e le informazioni le cercano sul telefono e preferiscono guardare Sinner piuttosto che una partita di calcio qualsiasi.

Stiamo assistendo al tramonto del calcio in Italia? Difficile avere certezze, in ogni caso tutto il mondo è in evoluzione, Uzbekistan e Giordania hanno meritoriamente raggiunto la qualificazione per i mondiali del 2026 che si giocheranno tra Stati Uniti, Canada e Messico, eppure gli uzbeki, nonostante l’implementazione del calcio attuata dal potere sovietico, hanno preferito per lungo tempo il buzkashi e i giordani le corse dei dromedari.

L’eternità del calcio in Italia è molto relativa, anzi non veritiera, data solo dal primo dopoguerra, ovvero poco più di un secolo, e il merito della sua diffusione, soprattutto nelle regioni meridionali è stato il risultato della scelta del primo Capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano non piemontese, il napoletano Armando Diaz, che decide, subentrando a Luigi Cadorna dopo la tragedia e la disfatta di Caporetto, di assestarsi sulla linea del Piave e attendere di fatto per un anno il collasso del sistema militare e politico austro – ungarico. Per impegnare fuori dalle trincee i soldati, si adopera per ranci più abbondanti, corse nei sacchi, tiri alla fune, gentilissime ragazze che intrattengono la truppa e soprattutto il gioco del calcio, con le reclute del nord che lo insegnano a quelle del sud. La nascita di molte società sportive calcistiche meridionali sarà proprio il risultato del rientro a casa dopo il conflitto mondiale. Ci vorrà poi anche una certa intraprendenza del fascismo nel fomentare l’accorpamento delle società, arrivando all’organizzazione di squadre cittadine, quindi la strutturazione dei campionati a livello nazionale, fino alla massima serie a girone unico nel 1929 – 30.

Fino ad allora lo sport più diffuso in Italia per un secolo e mezzo, dalla fine XVIII secolo agli albori del XX secolo, è stato la palla pugno o palla con il bracciale, con tanto di stadi coperti con tribune, come lo Sferisterio di Macerata e altri all’aperto come in Piemonte, da Grazzano a Camagna Monferrato, tra le case e i palazzi civici, edifici costruiti nell’Ottocento in modo da formare un naturale terreno di gioco, città come Milano, Roma e Torino avevo strutture numerose e considerevoli per ospitare i tanti spettatori, ma il loro ricordo si è perso nel tempo e le strutture spesso demolite o riadattate per altre finalità. Del successo e del primato di questo sport ne parla anche il buon Giacomo Leopardi, il quale onorando con lo svago il dì di festa, tralascia gli studi pazzi e disperatissimi e va allo stadio per poi comporre “A un vincitore nel pallone”, poesia piena di entusiasmo per lo sport e in particolare per il suo coetaneo ventitreenne campione dell’epoca, siamo nel 1821, il mazziniano, per ciò guardato con sospetto dal potere pontificio, Carlo Didimi da Treia: “Di gloria il viso e la gioconda voce, garzon bennato, apprendi, e quanto al femminile ozio sovrasti la sudata virtude.” Didimi dopo aver militato nella squadra della sua città e poi nella compagine della vicina Macerata, riempiendo appunto lo Sferisterio locale, si è esibito in alcune partite celebrative, raccogliendo per una singola partecipazione più di dieci volte lo stipendio annuale di un professore dell’epoca.

Non possiamo oggi sapere se nella penisola il destino del calcio, il quale da un secolo ha accompagnato prima il fascismo e poi la vita della Repubblica Italiana contrappuntandone momenti storici e civili, in futuro possa essere lo stesso della palla pugno, ovvero un declino irreversibile, tuttavia a oggi i cento anni di fortuna del gioco del pallone non hanno ancora superato temporalmente il secolo e mezzo di celebrità incontrastata della palla pugno, predecessore per passione popolare nella storia dello sport italiano.

L’Italia tra palla pugno, pallone e racchetta

Italia e sport

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Jannik Sinner, Lorenzo Musetti, Matteo Berrettini, Flavio Cobolli, Lorenzo Sonego, Matteo Arnaldi, Luciano Darderi, Luca Nardi, Fabio Fognini, Francesco Passaro, Mattia Bellucci. Esattamente undici, come una  squadra di calcio, questi i ragazzi italiani tra i primi cento tennisti al mondo, tutti in fila dietro Sinner numero uno indiscusso e meritato vincitore – la prima volta di un azzurro – a Wimbledon il 13 luglio 2025, più antico torneo del mondo essendo la prima edizione del 1877. Insieme ai doppisti  Simone Bolelli e Andrea Vavassori, gli azzurri poi hanno vinto le ultime due coppe Davis del 2023 e del 2024, con buone possibilità di conseguire la terza consecutiva nel 2025.

Si potrebbe affermare che sia tutto merito individuale, dei singoli, un primeggiare con la racchetta che è anche femminile, tra le donne, pur se con minor rilievo mediatico, qualche anno fa Roberta Vinci e Flavia Pennetta e dopo di loro Sara Errani e con lei Jasmine Paolini, Lucia Bronzetti, Elisabetta Cocciaretto, Lucrezia Stefanini, Nuria Brancaccio, Camila Giorgi, Martina Trevisan.

Oggi una partita di Jannik Sinner trasmessa dalle televisioni italiane è seguita con ascolti tripli rispetto a qualsiasi partita di calcio della nazionale, la quale versa nella tremebonda situazione di rischiare di non qualificarsi per la terza volta consecutiva ai mondiali, dopo essere stata eliminata nel novembre 2017 dalla Svezia e nel marzo 2022 dalla Macedonia.

Angelo Binaghi presidente della Federtennis dal 2001 racconta con puntale precisione la storia del quarto di secolo trascorso, il tennis italiano versava all’avvento del suo mandato in una situazione pietosa, pochi campi per i professionisti e tutti in terra battuta, poco o nulla per i bambini e i ragazzi, da allora ha cercato di ribaltare questa miseranda situazione, il risultato è stata l’implementazione di campi, anche di quelli veloci, ovvero in cemento e in materiale sintetico, per offrire ai professionisti la possibilità di allenamenti coerenti con le necessità dei tornei internazionali, a livello giovanile la capillarizzazione della presenza dei campi per permettere in ogni angolo della penisola e a prezzi più contenuti di praticare un sport per troppo tempo elitario.

Insomma il miracolo della racchetta italiana è il frutto del fortunato avvento di campioni, al pari di mirate e ragionate strategie della Federtennis.

Simmetrico al disastro del calcio, in cui quello delle serie minori e dei settori giovanili langue tra mille difficoltà e trascuratezze, quello professionistico vive sotto il ricatto dei procuratori, i quali quando propongono un giocatore ne vendono insieme altri cinque, con tanto di obbligo contrattuale di mandarli in campo tutti con un minutaggio prestabilito per ciascuno e a cui gli allenatori devono attenersi e rispettare, con rischio per le società di pagare penali se qualcuno alla fine del campionato avesse giocato troppo poco. Vi è poi un utilizzo in serie A e serie B risibile di giocatori italiani, al contrario di qualsiasi altra nazione europea, in cui almeno quattro o cinque autoctoni sono sempre in campo a prescindere dai regolamenti dell’Unione Europea, a tutto vantaggio delle rispettive nazionali e del movimento calcistico locale più in generale.

In Italia dunque la racchetta vola, mentre il pallone si è sgonfiato e gli stadi sempre più tristemente si svuotano. Soprattutto i giovani, quelli ai quali abbiamo negato la gioia di vedere l’Italia ai mondiali, certo, tifano ancora per Milan e Inter, Torino e Juventus, Genoa e Sampdoria, Roma e Lazio, Napoli e Palermo e via via con le mille squadre dei mille campanili, ma l’impressione è che il calcio stia diventando qualcosa di vecchio, di obsoleto, di superato. Interessarsi al calcio sta diventando un po’ come avere un orologio al polso e leggere un quotidiano cartaceo, robe da vecchi e da pensionati, guardati stralunati da giovani che l’ora e le informazioni le cercano sul telefono e preferiscono guardare Sinner piuttosto che una partita di calcio qualsiasi.

Stiamo assistendo al tramonto del calcio in Italia? Difficile avere certezze, in ogni caso tutto il mondo è in evoluzione, Uzbekistan e Giordania hanno meritoriamente raggiunto la qualificazione per i mondiali del 2026 che si giocheranno tra Stati Uniti, Canada e Messico, eppure gli uzbeki, nonostante l’implementazione del calcio attuata dal potere sovietico, hanno preferito per lungo tempo il buzkashi e i giordani le corse dei dromedari.

L’eternità del calcio in Italia è molto relativa, anzi non veritiera, data solo dal primo dopoguerra, ovvero poco più di un secolo, e il merito della sua diffusione, soprattutto nelle regioni meridionali è stato il risultato della scelta del primo Capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano non piemontese, il napoletano Armando Diaz, che decide, subentrando a Luigi Cadorna dopo la tragedia e la disfatta di Caporetto, di assestarsi sulla linea del Piave e attendere di fatto per un anno il collasso del sistema militare e politico austro – ungarico. Per impegnare fuori dalle trincee i soldati, si adopera per ranci più abbondanti, corse nei sacchi, tiri alla fune, gentilissime ragazze che intrattengono la truppa e soprattutto il gioco del calcio, con le reclute del nord che lo insegnano a quelle del sud. La nascita di molte società sportive calcistiche meridionali sarà proprio il risultato del rientro a casa dopo il conflitto mondiale. Ci vorrà poi anche una certa intraprendenza del fascismo nel fomentare l’accorpamento delle società, arrivando all’organizzazione di squadre cittadine, quindi la strutturazione dei campionati a livello nazionale, fino alla massima serie a girone unico nel 1929 – 30.

Fino ad allora lo sport più diffuso in Italia per un secolo e mezzo, dalla fine XVIII secolo agli albori del XX secolo, è stato la palla pugno o palla con il bracciale, con tanto di stadi coperti con tribune, come lo Sferisterio di Macerata e altri all’aperto come in Piemonte, da Grazzano a Camagna Monferrato, tra le case e i palazzi civici, edifici costruiti nell’Ottocento in modo da formare un naturale terreno di gioco, città come Milano, Roma e Torino avevo strutture numerose e considerevoli per ospitare i tanti spettatori, ma il loro ricordo si è perso nel tempo e le strutture spesso demolite o riadattate per altre finalità. Del successo e del primato di questo sport ne parla anche il buon Giacomo Leopardi, il quale onorando con lo svago il dì di festa, tralascia gli studi pazzi e disperatissimi e va allo stadio per poi comporre “A un vincitore nel pallone”, poesia piena di entusiasmo per lo sport e in particolare per il suo coetaneo ventitreenne campione dell’epoca, siamo nel 1821, il mazziniano, per ciò guardato con sospetto dal potere pontificio, Carlo Didimi da Treia: “Di gloria il viso e la gioconda voce, garzon bennato, apprendi, e quanto al femminile ozio sovrasti la sudata virtude.” Didimi dopo aver militato nella squadra della sua città e poi nella compagine della vicina Macerata, riempiendo appunto lo Sferisterio locale, si è esibito in alcune partite celebrative, raccogliendo per una singola partecipazione più di dieci volte lo stipendio annuale di un professore dell’epoca.

Non possiamo oggi sapere se nella penisola il destino del calcio, il quale da un secolo ha accompagnato prima il fascismo e poi la vita della Repubblica Italiana contrappuntandone momenti storici e civili, in futuro possa essere lo stesso della palla pugno, ovvero un declino irreversibile, tuttavia a oggi i cento anni di fortuna del gioco del pallone non hanno ancora superato temporalmente il secolo e mezzo di celebrità incontrastata della palla pugno, predecessore per passione popolare nella storia dello sport italiano.

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Jannik Sinner, Lorenzo Musetti, Matteo Berrettini, Flavio Cobolli, Lorenzo Sonego, Matteo Arnaldi, Luciano Darderi, Luca Nardi, Fabio Fognini, Francesco Passaro, Mattia Bellucci. Esattamente undici, come una  squadra di calcio, questi i ragazzi italiani tra i primi cento tennisti al mondo, tutti in fila dietro Sinner numero uno indiscusso e meritato vincitore – la prima volta di un azzurro – a Wimbledon il 13 luglio 2025, più antico torneo del mondo essendo la prima edizione del 1877. Insieme ai doppisti  Simone Bolelli e Andrea Vavassori, gli azzurri poi hanno vinto le ultime due coppe Davis del 2023 e del 2024, con buone possibilità di conseguire la terza consecutiva nel 2025.

Si potrebbe affermare che sia tutto merito individuale, dei singoli, un primeggiare con la racchetta che è anche femminile, tra le donne, pur se con minor rilievo mediatico, qualche anno fa Roberta Vinci e Flavia Pennetta e dopo di loro Sara Errani e con lei Jasmine Paolini, Lucia Bronzetti, Elisabetta Cocciaretto, Lucrezia Stefanini, Nuria Brancaccio, Camila Giorgi, Martina Trevisan.

Oggi una partita di Jannik Sinner trasmessa dalle televisioni italiane è seguita con ascolti tripli rispetto a qualsiasi partita di calcio della nazionale, la quale versa nella tremebonda situazione di rischiare di non qualificarsi per la terza volta consecutiva ai mondiali, dopo essere stata eliminata nel novembre 2017 dalla Svezia e nel marzo 2022 dalla Macedonia.

Angelo Binaghi presidente della Federtennis dal 2001 racconta con puntale precisione la storia del quarto di secolo trascorso, il tennis italiano versava all’avvento del suo mandato in una situazione pietosa, pochi campi per i professionisti e tutti in terra battuta, poco o nulla per i bambini e i ragazzi, da allora ha cercato di ribaltare questa miseranda situazione, il risultato è stata l’implementazione di campi, anche di quelli veloci, ovvero in cemento e in materiale sintetico, per offrire ai professionisti la possibilità di allenamenti coerenti con le necessità dei tornei internazionali, a livello giovanile la capillarizzazione della presenza dei campi per permettere in ogni angolo della penisola e a prezzi più contenuti di praticare un sport per troppo tempo elitario.

Insomma il miracolo della racchetta italiana è il frutto del fortunato avvento di campioni, al pari di mirate e ragionate strategie della Federtennis.

Simmetrico al disastro del calcio, in cui quello delle serie minori e dei settori giovanili langue tra mille difficoltà e trascuratezze, quello professionistico vive sotto il ricatto dei procuratori, i quali quando propongono un giocatore ne vendono insieme altri cinque, con tanto di obbligo contrattuale di mandarli in campo tutti con un minutaggio prestabilito per ciascuno e a cui gli allenatori devono attenersi e rispettare, con rischio per le società di pagare penali se qualcuno alla fine del campionato avesse giocato troppo poco. Vi è poi un utilizzo in serie A e serie B risibile di giocatori italiani, al contrario di qualsiasi altra nazione europea, in cui almeno quattro o cinque autoctoni sono sempre in campo a prescindere dai regolamenti dell’Unione Europea, a tutto vantaggio delle rispettive nazionali e del movimento calcistico locale più in generale.

In Italia dunque la racchetta vola, mentre il pallone si è sgonfiato e gli stadi sempre più tristemente si svuotano. Soprattutto i giovani, quelli ai quali abbiamo negato la gioia di vedere l’Italia ai mondiali, certo, tifano ancora per Milan e Inter, Torino e Juventus, Genoa e Sampdoria, Roma e Lazio, Napoli e Palermo e via via con le mille squadre dei mille campanili, ma l’impressione è che il calcio stia diventando qualcosa di vecchio, di obsoleto, di superato. Interessarsi al calcio sta diventando un po’ come avere un orologio al polso e leggere un quotidiano cartaceo, robe da vecchi e da pensionati, guardati stralunati da giovani che l’ora e le informazioni le cercano sul telefono e preferiscono guardare Sinner piuttosto che una partita di calcio qualsiasi.

Stiamo assistendo al tramonto del calcio in Italia? Difficile avere certezze, in ogni caso tutto il mondo è in evoluzione, Uzbekistan e Giordania hanno meritoriamente raggiunto la qualificazione per i mondiali del 2026 che si giocheranno tra Stati Uniti, Canada e Messico, eppure gli uzbeki, nonostante l’implementazione del calcio attuata dal potere sovietico, hanno preferito per lungo tempo il buzkashi e i giordani le corse dei dromedari.

L’eternità del calcio in Italia è molto relativa, anzi non veritiera, data solo dal primo dopoguerra, ovvero poco più di un secolo, e il merito della sua diffusione, soprattutto nelle regioni meridionali è stato il risultato della scelta del primo Capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano non piemontese, il napoletano Armando Diaz, che decide, subentrando a Luigi Cadorna dopo la tragedia e la disfatta di Caporetto, di assestarsi sulla linea del Piave e attendere di fatto per un anno il collasso del sistema militare e politico austro – ungarico. Per impegnare fuori dalle trincee i soldati, si adopera per ranci più abbondanti, corse nei sacchi, tiri alla fune, gentilissime ragazze che intrattengono la truppa e soprattutto il gioco del calcio, con le reclute del nord che lo insegnano a quelle del sud. La nascita di molte società sportive calcistiche meridionali sarà proprio il risultato del rientro a casa dopo il conflitto mondiale. Ci vorrà poi anche una certa intraprendenza del fascismo nel fomentare l’accorpamento delle società, arrivando all’organizzazione di squadre cittadine, quindi la strutturazione dei campionati a livello nazionale, fino alla massima serie a girone unico nel 1929 – 30.

Fino ad allora lo sport più diffuso in Italia per un secolo e mezzo, dalla fine XVIII secolo agli albori del XX secolo, è stato la palla pugno o palla con il bracciale, con tanto di stadi coperti con tribune, come lo Sferisterio di Macerata e altri all’aperto come in Piemonte, da Grazzano a Camagna Monferrato, tra le case e i palazzi civici, edifici costruiti nell’Ottocento in modo da formare un naturale terreno di gioco, città come Milano, Roma e Torino avevo strutture numerose e considerevoli per ospitare i tanti spettatori, ma il loro ricordo si è perso nel tempo e le strutture spesso demolite o riadattate per altre finalità. Del successo e del primato di questo sport ne parla anche il buon Giacomo Leopardi, il quale onorando con lo svago il dì di festa, tralascia gli studi pazzi e disperatissimi e va allo stadio per poi comporre “A un vincitore nel pallone”, poesia piena di entusiasmo per lo sport e in particolare per il suo coetaneo ventitreenne campione dell’epoca, siamo nel 1821, il mazziniano, per ciò guardato con sospetto dal potere pontificio, Carlo Didimi da Treia: “Di gloria il viso e la gioconda voce, garzon bennato, apprendi, e quanto al femminile ozio sovrasti la sudata virtude.” Didimi dopo aver militato nella squadra della sua città e poi nella compagine della vicina Macerata, riempiendo appunto lo Sferisterio locale, si è esibito in alcune partite celebrative, raccogliendo per una singola partecipazione più di dieci volte lo stipendio annuale di un professore dell’epoca.

Non possiamo oggi sapere se nella penisola il destino del calcio, il quale da un secolo ha accompagnato prima il fascismo e poi la vita della Repubblica Italiana contrappuntandone momenti storici e civili, in futuro possa essere lo stesso della palla pugno, ovvero un declino irreversibile, tuttavia a oggi i cento anni di fortuna del gioco del pallone non hanno ancora superato temporalmente il secolo e mezzo di celebrità incontrastata della palla pugno, predecessore per passione popolare nella storia dello sport italiano.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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