Negli USA tutti odiano i messicani perché sono immigrati “del sud”. Chissà cosa avrebbero da dire i popoli autoctoni originari degli invasori immigrati europei, nessuno mai se lo chiede?
Tutto ritorna, la ruota gira
Premessa: gli Stati Uniti d’America sono nati sulla colonizzazione di una terra che apparteneva a popoli sterminati da delinquenti inglesi cacciati dalle carceri sovraccariche, messi su barche e spediti alla deriva verso Ovest. Dimenticatevi i romantici racconti dei “Padri Pellegrini”. Non c’era alcun santuario da visitare con devozione, croce a cui donare un bacio, né alcun santo da cui farsi benedire. C’erano popoli con una storia millenaria che sono stati sterminati in guerre cruente e i pochi superstiti sono stati rinchiusi in riserve, come se fossero animali. Tutto questo è stato fatto con l’aiuto degli imperi europei che al temo avevano intrapreso la colonizzazione delle terre Abya Yala, il nome pre-colombiano secondo i settentrionali, o Anahuac o Tawantinsuyu secondo Aztechi e Inca nel meridione.
Gli “americani”, come abbiamo imparato a chiamarli attribuendogli un aggettivo di un navigatore fiorentino naturalizzato spagnolo, sono stati fautori di guerre di invasione e colonizzazione in tutto il mondo, esportando il modello con cui avevano conquistato uno dei continenti più grandi sul pianeta.
Chi di invasione, guerre e genocidi ferisce… di invasione, guerre e genocidi, prima o poi, perisce.
In principio era il Messico
Fatta questa premessa doverosa, cerchiamo di capire come stavano le cose prima dell’arrivo degli stranieri europei dalla pelle bianca.
Prima dell’arrivo degli europei, l’odierno territorio della California era abitato da una straordinaria varietà di popoli indigeni, con una delle più alte concentrazioni di gruppi etnolinguistici del continente nordamericano. Tra i principali si annoverano i Chumash, Tongva, Ohlone, Miwok, Yokuts, Maidu, Pomo, Hupa e Yurok. Queste società erano prevalentemente di tipo semi-nomade, basate su una complessa economia di sussistenza che includeva la caccia, la raccolta e la pesca, con una particolare importanza attribuita alla raccolta delle ghiande, elemento centrale dell’alimentazione.
Sul piano culturale e spirituale, le società native della California presentavano sistemi mitologici articolati, rituali cerimoniali profondamente radicati, nonché sofisticate tecniche artistiche, tra cui l’intreccio di cesti, la scultura in legno e la creazione di pitture rupestri.
Arrivò poi l’esploratore portoghese Juan Rodriguez Cabrillo, al servizio della Corona spagnola, che nel 1542 esplorò la costa meridionale, aprendo la strada ad una colonizzazione sistematica che cominciò nel XVIII secolo, in particolare dal 1769 con la spedizione di Gaspar de Portolà e la opera missionaria di fra Juniper Serra, il francescano che si occupò delle terre che si estendevano in quel territorio che oggi inquadriamo fra le città di San Diego e San Francisco.
Politicamente, la California fu integrata nel vice-reame della Nuova Spagna, con una sua provincia di riferimento.
Con l’indipendenza del Messico dalla Spagna nel 1821, la California passò sotto il controllo del nuovo Stato messicano. Le missioni religiose vennero secolarizzate, i beni ecclesiastici confiscati e ridistribuiti, dando vita alla aristocrazia terriera dei Californios. Il controllo messicano fu debole, specialmente nelle regioni settentrionali, dove crebbero l’influenza e la presenza di mercanti, esploratori e coloni anglo-americani, preludio alla transizione successiva.
La prima conquista statunitense
Fra il 1846 e il 1848, le forze statunitensi occuparono la California messicana. La guerra ebbe radici profonde nella dottrina espansionistica statunitense nota come Manifest Destiny, secondo la quale era considerata legittima — e persino provvidenziale — l’estensione della civiltà anglosassone e protestante dal Pacifico all’Atlantico.
Il conflitto scoppiò all’indomani dell’annessione del Texas agli Stati Uniti nel 1845. Il Texas si era dichiarato indipendente dal Messico nel 1836, dopo una guerra separatista, e per quasi un decennio era rimasto una repubblica autonoma. Il Messico non aveva mai riconosciuto l’indipendenza del Texas, né tantomeno la sua annessione da parte degli Stati Uniti, considerandola un atto ostile.
Il casus belli fu la disputa sul confine meridionale del Texas: gli Stati Uniti sostenevano che fosse il Rio Grande, mentre il Messico considerava il confine il fiume Nueces, più a nord. Il presidente statunitense James Polk, convinto sostenitore dell’espansione territoriale, inviò truppe sotto il comando del generale Zachary Tayor in territorio conteso. L’attacco di truppe messicane a pattuglie americane nel 1846 fornì a Polk il pretesto per dichiarare guerra, sostenendo che il sangue americano era stato versato su “suolo americano”.
Sul fronte settentrionale, in Texas, il Generale Taylor ottenne vittorie importanti, come a Monterrey e Buena Vista. Nel ’46, in California scoppiò la Bear Flag Revolt in cui coloni statunitensi proclamarono la Repubblica di California, che poi si unì alle forze americane, e in poco tempo occuparono tutta la regione. Gli statunitensi arrivarono a marciare fino a Città del Messico nel settembre del 1847, costringendo il governo a firmare un trattato di pace.
Si trattò del Trattato di Guadalupe Hidalgo, siglato il 2 febbraio 1848. Nelle condizioni, il Messico cedeva il 55% del proprio territorio pre-bellico agli Stati Uniti, compresi gli attuali Stati di California, Arizona, New Mexico, Nevada e Utah, con anche parti del Colorado e del Wyoming, e il confine tra Texas e Messico veniva fissato definitivamente lungo il Rio Grande. Tutto ciò per 15 milioni di dollari da parte degli Stati Uniti, impegnandosi a risarcire cittadini americani con reclami contro il governo messicano.
Molti messicani residenti nei territori ceduti divennero rapidamente una minoranza, costretti a fuggire a causa delle discriminazioni e delle differenze culturali e giuridiche. Le popolazioni etnicamente indigene vennero ridotte al minimo, vedendo l’estinzione di alcune di esse.
Nel 1850 il novello Stato della California venne ammesso all’Unione come 31° Stato degli Stati Uniti, senza passare per lo status territoriale, fatto raro nella storia americana.
Un problema politico mai risolto
Dopo la guerra messicano-statunitense (1846–1848), la nuova frontiera sud-ovest rimane porosa. I lavoratori messicani si spostano liberamente, soprattutto nel settore agricolo, nelle miniere e nei cantieri ferroviari. Nessuna normativa federale specifica regola ancora l’immigrazione dal Messico.
Nel 1882, il Chinese Exclusion Act inaugura un’epoca di politiche migratorie selettive e razzializzate, ma non riguarda i messicani, che diventano una fonte alternativa di manodopera.
Ma è nel 1907 che le prime misure federali iniziano a distinguere tra “desiderabili” e “indesiderabili”, ma la manodopera messicana continua ad essere incentivata informalmente.
Tra il 1910 e il 1930 ci fu la prima grande ondata migratoria: la rivoluzione messicana e la Prima guerra mondiale spinsero decine di migliaia di messicani a cercare rifugio o lavoro negli USA. I bisogni agricoli e industriali statunitensi ne incentivano l’ingresso. Nacque così la Border Patrol, una Polizia di frontiera che con l’Immigration Act del 1924 colpì soprattutto europei e asiatici, istituzionalizzando la frontiera col Messico. Dal 1929 al 1935, durante la grande depressione, quasi un milione di messicani, inclusi cittadini statunitensi di origine messicana, vennero rimpatriati o deportati forzatamente, un evento passato alla storia come Mexican Repatriation.
È così che nel 1942 nasce il Programma Bracero, un accordo bilaterale che consente a milioni di lavoratori agricoli messicani di entrare legalmente e temporaneamente negli Stati Uniti. Fu una mossa che permise agli USA di sopperire il bisogno di manodopera per la Seconda guerra mondiale. Con l’Operazione Wetback del 1954 venne nuovamente lanciata una campagna di massiccia deportazione, ancora una volta di circa 1 milione di persone. Al governo c’era Eisenhower. Curiosamente il Programma Bracero rimase attivo fino al 1964, smantellato dalla pressione sindacale per lo sfruttamento dei lavoratori.
Nel 1965 venne varato l’Immigration and nationality Act (noto anche come Hart-Celler Act), che abolisce l sistema delle quote nazionali, ma non prevede un numero sufficiente di visti per l’immigrazione latinoamericana, ed apre un periodo di immigrazione messicana non controllata, che andrà a crescere ininterrottamente fino gli Anni ’80.
Con l’Immigration Reform and Control Act del 1886 firmato da Reagan, circa 2,7 milioni di immigrati clandestini vengono regolarizzati e viene regolamentato il lavoro. Nel 1990 un altro Immigration Act amplia i visti, ma è col NAFTA del ’94 che, aprendo il corridoio commerciale fra USA e Messico, la situazione paradossalmente peggiora: nuove ondate migratorie clandestine, dislocazione economica, limitazioni della libertà. Nel 1996 la legge Illegal Immigration Reform and Immigrant Responsability Act stabilisce delle pene molto forti per l’immigraizone irregolare, velocizza i rimpatri e criminalizza la migrazione.
È così che dal 2001, dopo l’11 settembre, nasce il Dipartimento della Sicurezza Interna, che si occuperà dei controlli di frontiera, grazie anche alla lunghissima barriera di confine prevista dal Secure Fence Act del 2006 e potenziare nel 2012, sotto l’amministrazione Obama, con il Deferred Action of Childhood Arrivals, dedicato all’immigrazione dei bambini.
Sotto Trump e Biden, la Zero tolerance policy si è fatta strada, assieme ad una cosiddetta direttiva “Remain in Mexico” prevista dai Migrant Migration Protocols, che costringe i richiedenti asilo a restare in Messico in attesa della decisione.
Dunque, in tutti questi anni, che cosa è cambiato?
Gli Stati Uniti d’America, ieri come oggi, hanno una forte dipendenza economica dalla manodopera messicana, soprattutto in agricoltura, edilizia e logistica. La repressione della immigrazione non si è mai fermata, manifestando che il problema non è una questione solamente migratoria, ma un problema di una ferita storica, culturale, politica mai risolta, ovvero quella di una colonizzazione che ha lacerato un sistema sociale che era storicamente radicato in quello spazio geografico.
È tempo di rivolta, ma a chi giova?
Los Angeles è la città simbolo della West Coast, il luogo per eccellenza del “sogno americano”, dove c’è Hollywood, l’icona delle icone americane, la fabbrica della propaganda e della identità americana.
È quindi estremamente potente quello che sta accadendo in questi giorni proprio lì. Non dimentichiamoci che già a inizio gennaio, c’era stato un iconico incendio a Hollywood, con la famosissima scritta gigante in mezzo alle fiamme.
I disordini in atto negli Stati Uniti tra i manifestanti contrari all’ICE (Immigration and Customs Enforcement) e le forze dell’ordine dispiegate dall’amministrazione Trump sembrano configurare un possibile preludio a quella che da tempo alcuni osservatori paventano come una “seconda guerra civile americana”.
Che questa dinamica evolva in un vero conflitto civile o si esaurisca in una fase di tensione è ancora da verificare, ma è essenziale coglierne la portata simbolica e politica profonda. Non si tratta semplicemente di una contestazione di politiche migratorie restrittive. Le visioni ideologiche che si scontrano oggi negli Stati Uniti riecheggiano da quel passato turbolento che abbiamo descritto.
Oggi l’espansione dell’urbanesimo industriale – trasformatosi in economia finanziaria globalizzata – attraversa una crisi profonda. La libera circolazione della forza lavoro, che un tempo definiva l’identità statunitense, appare ora come fonte di tensioni più che di benefici. In questo contesto, i fronti ideologici della vecchia guerra civile sembrano riemergere, sebbene con significati e schieramenti rinnovati.
La nuova linea di frattura non coincide più con la dicotomia geografica Nord-Sud, ma si manifesta tra le grandi metropoli, cosmopolite e globalizzate, a prevalenza democratica, e le aree rurali o periurbane, in cerca di sicurezza economica e di una riaffermazione identitaria, spesso orientate verso il Partito Repubblicano.
Questa polarizzazione appare evidente anche sul piano istituzionale. Le autorità democratiche, come la sindaca di Los Angeles o il governatore della California, adottano un linguaggio di opposizione radicale – parlano di “democrazia contro tirannide” – delegittimando apertamente le scelte dell’esecutivo federale. Da parte sua, il presidente Trump ribalta le accuse, tacciando le autorità locali di sovversione e incitamento alla rivolta.
Siffatta spaccatura si sta estendendo a molti centri urbani statunitensi – come Seattle, Chicago, Philadelphia – dove le amministrazioni democratiche alimentano la narrazione di un conflitto esistenziale tra modelli di civiltà incompatibili. E questo è un punto imprescindibile.
È tuttavia difficile immaginare che leader politici dotati di solide carriere istituzionali siano disposti a spingersi fino al confronto diretto nel caso in cui l’Insurrection Act venisse attivato. Questa norma conferisce infatti al presidente poteri straordinari per l’impiego dell’esercito e della Guardia Nazionale come strumenti di ordine interno.
Rimane però il fatto che, una volta mobilitata l’immaginazione collettiva attorno a uno scontro epocale e non negoziabile tra visioni inconciliabili della società, potrebbe diventare difficile ricondurre il dissenso entro i confini del confronto istituzionale ordinario.
Se tali eventi si verificassero in un altro Paese, molti media parlerebbero di una “rivoluzione colorata” contro un governo autoritario, a favore di libertà e diritti. Ma rispetto agli scenari di rivoluzioni colorate promosse altrove, negli Stati Uniti manca un elemento determinante: il sostegno da parte degli Stati Uniti stessi.
La situazione è in corso e quindi seguiremo gli sviluppi degli eventi.
Ora chiediamoci: a chi giova tutto ciò?
Osserviamo un attimo lo scacchiere.
La California è una roccaforte del liberalismo, una zona costiera, il Rimland interno degli USA. Il governatore della California, News, è un democratico convinto, così come il sindaco di Los Angeles Karen Bass, entrambi nemici di Trump. È curioso che nel caos generale, a sostegno dei rivoltosi siano giunti i paladini di George Soros.
Nel sistema politico degli Stati Uniti, ogni Stato ha poteri piuttosto ampi. Il governo federale non può inviare truppe senza il consenso del governatore, ma News si rifiuta di farlo, così Trump invia le truppe, violando la legge, e subito dopo logicamente viene attaccato dai giudici. Si può anche notare che la frangia Dem dello Stato della California si sta opponendo in tutti i modi possibili alle azioni di Trump, che potrebbero portare il Paese sull’orlo della guerra civile. Attualmente a Los Angeles si contano 4800 soldati fra Guardia e Marina, quasi il doppio di quelli mandati in Iraq e tre volte tanto quelli in Siria.
Nel frattempo, Xi Jinping, durante un incontro con la presidente di sinistra del Messico Claudia Sheinbaum, esprime preoccupazione per la situazione dei diritti umani a Los Angeles. Altra curiosità: il nonno della presidente del Messico si chiamava Chone Juan Sheinbaum Abramivitz, emigrato dalla Lituania nel 1928, e divenne simultaneamente mercante di gioielli e membro del Partito Comunista Messicana. Proprio così: mercante di lusso e comunista allo stesso tempo. Una dicotomia che dovrebbe fa riflettere.
In un certo senso, dunque, a Los Angeles è in pieno svolgimento il crash test del trumpismo, vale a dire è l’opportunità per Trump di:
- Affermare la propria visione di “America” ideologicamente
- Modificare con un atto di forza, in virtù della urgenza, la politica migratoria, dando un forte colpo all’immigrazione messicana
- Spodestare molti nemici politici dall’amministrazione californiana
- Far emergere i falchi, i traditori e i nemici che hanno operato sotto traccia
- Prendere il controllo sulla Silicon Valley e su Hollywood
È chiaro che la situazione attuale sia molto, molto appetitosa. Se si tratta di una false flag, probabilmente lo scopriremo presto. Non ci sarebbe da stupirsi, i presidenti americani si sono inventati cose molto peggiori contro il proprio popolo, pur di ottenere quello che volevano.
Ciò che sappiamo è che questo detonatore potrebbe essere stato attivato per uno scopo, ma potrebbe portare anche verso un altro. Gli USA sono sul crollo di una crisi interna che poterà ad una guerra civile già da anni. Il collasso dell’Egemone è un evento irreversibile, che al governo ci siano i Rep o i Dem.
Adesso assistiamo ad un passaggio storico che lascerà una traccia nella memoria di quelle terre. Dopo secoli di violenze e problemi irrisolti, la ferita è diventata una infezione e adesso sta mandando in cancrena il sistema.
Perché se adesso vogliamo concentrarci sul problema politico a breve termine, cioè quello della faida fra Trump e i suoi avversari, non dobbiamo però dimenticare di considerare quello a lungo termine, che è più importante: a chi appartiene la California?
La California è stata fondata sui pueblos. I fiumi più importanti si chiamano Sacramento e San Joaquin. Il più grande massiccio montuoso è il Sierra Nevada. Le principali città hanno nomi spagnoli, quali Los Angeles, San Diego, San José, San Francisco, con capitale Sacramento.
Negli USA tutti odiano i messicani perché sono immigrati “del sud”. Chissà cosa avrebbero da dire i popoli autoctoni originari degli invasori immigrati europei, nessuno mai se lo chiede?
La California è Messico! Yankees go home!