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Davide Rossi
June 5, 2025
© Photo: Public domain

Probabile impegno saudita per la Palestina, tra conflitti irrisolti, speranze di pace e necessità di ricostruzione sociale ed economica

Segue nostro Telegram.

Il destino del popolo palestinese pare trovare una strada, almeno verso una temporanea pace e una momentanea vittoria sulla fame, nonché forse un compiuto riconoscimento giuridico internazionale, il tutto dopo la visita di Donald Trump in Arabia Saudita.

Il presidente statunitense, con buona pace dei suoi detrattori che passano il tempo ad apostrofarlo in modo sguaiato e poco ragionato come fascista, ha tenuto un discorso sul rispetto delle culture, delle tradizioni, della sovranità nazionale di ciascun popolo e di ciascuna nazione, in cui ha pure perentoriamente affermato come emiratini e sauditi abbiano sviluppato positivamente le loro nazioni, mentre gli esportatori di democrazia occidentale – massimamente i suoi compatrioti statunitensi – ovunque, a partire da Iraq e Afghanistan, abbiano lasciato solo macerie e devastazione umana e politica.  Un discorso di pace e di umanità con molte implicazioni e con un’ammissione non esplicitata ma a quanto pare effettiva, ovvero gli Stati Uniti appaiono pronti ad accettare l’offerta saudita, anche in collaborazione con emiratini e qatarini, di ricostruzione della Palestina, sottomettendosi alla sola condizione posta, ovvero una rapida dipartita dallo scenario politico israeliano di Benjamin Netanyahu.

La riflessione tuttavia si deve anche allargare a che tipo di Palestina, sociale e politica, emergerà nel corso di questa ricostruzione, è evidente che con ogni probabilità nascerà un nuovo partito palestinese, anche con personalità provenienti dalle forze politiche che hanno dominato la scena nell’ultimo mezzo secolo, da Al Fatah – ironia di un Partito che si chiama “Giovane”, nato con Yasser Arafat per riunire le rabbiose generazioni palestinesi degli anni ‘60, trasformatesi nel frattempo in modeste e incartapecorite schiere di burocrati – ad Hamas. Per altro non potrà in nessun caso esserci un’esportazione immediata del modello salafita, la versione internazionale del wahhabismo, non solo perché tale proposta politica ha avuto difficoltà a raccogliere congrui sostegni laddove si è presentata, vedi ad esempio l’Egitto, ma anche perché la presenza degli arabo – cristiani ortodossi, cattolici, siro – giacobiti e di tutta la mirabile e sterminata galassia delle comunità cristiano – orientali deve necessariamente avere spazio e rispetto, a partire dal sindaco di Betlemme, consuetudinariamente cristiano come da accordi tra forze politiche palestinesi. Certamente sopravviveranno, sebbene in condizione di minoranza non rilevante, talune formazioni di ispirazione laica, tra esse certamente il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, dichiaratamente marxista, ma anche tra le poche organizzazioni ad aver mantenuto una discreto radicamento sul territorio e nelle università, come in egual modo godono ancora di un certo radicamento le altre due formazioni politiche marxiste, il Partito Popolare Palestinese il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina.

I palestinesi avranno una porzione molto ridotta di territorio, potranno ufficializzare la loro presenza alle Nazioni Unite per altro prevista da una risoluzione dell’aprile 2024, il loro passaporto avrà finalmente un valore legale internazionale e la città santa di Al Quds – Gerusalemme dovrà necessariamente diventare, per quanto simbolicamente, in quanto le istituzioni politiche palestinesi resteranno certamente a Ramallah, la capitale del nuovo stato. Anche il ruolo della polizia e dell’esercito palestinese dovranno avere un nuovo slancio e nuovi riconosciuti poteri, non più in perenne subalternità a quelli israeliani.

Per tutto questo le casse delle monarchia saudita dovranno immaginare un investimento senza ritorno molto considerevole, non solo per creare una nuova burocrazia, nuove forze dell’ordine, ma anche per permettere la ricostruzione di Gaza e un deciso avvio verso la modernizzazione della Cisgiordania.

Il ritorno sarà per Mohammad Bin Salman soprattutto di immagine, possiamo immaginare si recherà trionfante a pregare un venerdì sulla spianata ierosolimitana delle moschee, tra quella di Omar e quella di al – Aqsa.

I dubbi che questo progetto possa trovare una lineare e non accidentata realizzazione sono molti, non solo perché pare evidente che l’invenzione tardiva e fuori tempo massimo di due stati, non praticata quando avrebbe dovuto negli anni ‘90 del Novecento dopo gli accordi di Oslo del settembre 1993, appare difficile possa realizzarsi in modo costruttivo e pacifico nel secondo quarto del XXI secolo, anche e soprattutto perché da quel nefasto 31 maggio 1996, prima vittoria elettorale dell’allora quarantacinquenne Benjamin Netanyahu, questi ha realizzato lungo tutti gli anni trascorsi ogni possibile azione per scatenare dentro la società e la politica israeliana le più feroci, violente, aggressive pulsioni del sionismo, con politici, giornalisti e insegnanti, pronti nelle scuole e dalle televisioni, attraverso i social network e le piazze ad aizzare un indiscriminato odio anti – arabo, anti – islamico, anti – cristiano, al pari di una reiterata e non nascosta istigazione allo sterminio dei palestinesi, messaggi omicidi e criminali molto ben recepiti purtroppo da migliaia di cittadini israeliani e anche dai coloni catapultati in questi decenni oltre il muro di separazione dentro la Cisgiordania per frantumarne il tessuto unitario e depredarne le risorse, dall’acqua del fiume Giordano ai prodotti della terra, dagli ulivi al limoni.

Questi i rischi e le incertezze, ma la determinazione non solo occidentale di percorrere questa strada appare evidente, anche per il ridicolo cambio di passo non solo della signora Von der Leyen, ma allo stesso tempo di tutti i politici, i media e i commentatori occidentali, passati in poche ore nei confronti di Netanyahu dal giustificazionismo filo – sionista alla condanna umanitaria.

La probabile proposta saudita per altro non dovrebbe suscitare opposizioni a Mosca e a Pechino, anche perché Riyad, almeno dal dicembre 2022, quando in una imponente visita di stato Mohammad Bin Salman e Xi Jinping hanno firmato nella capitale saudita oltre duecento accordi di collaborazione economica di durata più che quarantennale, ha frettolosamente quanto imprevedibilmente cambiato collocazione internazionale, dopo mezzo secolo di sudditanza a Washington, in particolare dopo il colpo di stato organizzato da Kissinger nel 1975 con l’omicidio e la sostituzione dell’allora sovrano. Oggi l’Arabia Saudita, se non proprio parte integrante del nuovo mondo multipolare proposto da cinesi e russi, in ogni caso ha una posizione mediana, al pari della Turchia di Erdoğan e degli Emirati Arabi Uniti, questi ultimi anche impegnati con la Thailandia a supportare l’asse sino – russo nella costruzione di un sistema bancario internazionale alternativo a quello egemonizzato dal dollaro. La stessa Thailandia vale la pena ricordarlo, ha compiuto un cambio repentino di collocazione internazionale, dopo aver appoggiato tra le due guerre l’imperialismo nipponico e per tutta la Guerra Fredda quello statunitense, oggi si presenta come una delle più solide alleate del multipolarismo sino – russo.

I buoni rapporti tra sauditi e cinesi hanno confermato quelli già precedenti tra Mohammad Bin Salman e Vladimir Putin, aprendo definitivamente le porte alla ricomposizione tra Arabia Saudita e Repubblica Islamica dell’Iran, per lungo tempo antagonisti regionali, non solo per motivi religiosi (sunniti – sciiti), ma anche per il diverso posizionamento internazionale. Dal 2023 infatti sauditi e iraniani hanno riallacciato le relazioni diplomatiche, la cooperazione e l’interscambio economico e commerciale.

È dunque evidente che al pari di Washington anche il campo multipolare ambisca a un Medioriente, se non pacificato, poco o per nulla irrequieto.

Contro tutto questo giocano non solo i più irrazionali fautori del sionismo, ma allo stesso tempo i mestatori  franco – inglesi, pronti a provocare conflitti, più o meno allargati, decisi a moltiplicare lo scontro con Cina e Russia da quando si sono trasformati nei difensori di quella finanza speculativa che del furto delle materie prime nel Sud Globale e del dollaro come moneta di scambio planetario ha la sua ragione esistenziale.

In questo senso le ambiguità della nuova Siria e l’indisponibilità di una quota rilevante del mondo curdo a terminare d’essere lo strumento di un separatismo etnico tutto orientato agli interessi dell’imperialismo occidentale potrebbero essere due, tra le molte variabili, protese a far naufragare tanto la pace mediorientale, quanto una nuova e meno insanguinata Palestina.

Progetti che nascono comunque con tutta la fragilità del tempo presente e dei tanti conflitti regionali ancora irrisolti.

Arabia Saudita e Palestina

Probabile impegno saudita per la Palestina, tra conflitti irrisolti, speranze di pace e necessità di ricostruzione sociale ed economica

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Il destino del popolo palestinese pare trovare una strada, almeno verso una temporanea pace e una momentanea vittoria sulla fame, nonché forse un compiuto riconoscimento giuridico internazionale, il tutto dopo la visita di Donald Trump in Arabia Saudita.

Il presidente statunitense, con buona pace dei suoi detrattori che passano il tempo ad apostrofarlo in modo sguaiato e poco ragionato come fascista, ha tenuto un discorso sul rispetto delle culture, delle tradizioni, della sovranità nazionale di ciascun popolo e di ciascuna nazione, in cui ha pure perentoriamente affermato come emiratini e sauditi abbiano sviluppato positivamente le loro nazioni, mentre gli esportatori di democrazia occidentale – massimamente i suoi compatrioti statunitensi – ovunque, a partire da Iraq e Afghanistan, abbiano lasciato solo macerie e devastazione umana e politica.  Un discorso di pace e di umanità con molte implicazioni e con un’ammissione non esplicitata ma a quanto pare effettiva, ovvero gli Stati Uniti appaiono pronti ad accettare l’offerta saudita, anche in collaborazione con emiratini e qatarini, di ricostruzione della Palestina, sottomettendosi alla sola condizione posta, ovvero una rapida dipartita dallo scenario politico israeliano di Benjamin Netanyahu.

La riflessione tuttavia si deve anche allargare a che tipo di Palestina, sociale e politica, emergerà nel corso di questa ricostruzione, è evidente che con ogni probabilità nascerà un nuovo partito palestinese, anche con personalità provenienti dalle forze politiche che hanno dominato la scena nell’ultimo mezzo secolo, da Al Fatah – ironia di un Partito che si chiama “Giovane”, nato con Yasser Arafat per riunire le rabbiose generazioni palestinesi degli anni ‘60, trasformatesi nel frattempo in modeste e incartapecorite schiere di burocrati – ad Hamas. Per altro non potrà in nessun caso esserci un’esportazione immediata del modello salafita, la versione internazionale del wahhabismo, non solo perché tale proposta politica ha avuto difficoltà a raccogliere congrui sostegni laddove si è presentata, vedi ad esempio l’Egitto, ma anche perché la presenza degli arabo – cristiani ortodossi, cattolici, siro – giacobiti e di tutta la mirabile e sterminata galassia delle comunità cristiano – orientali deve necessariamente avere spazio e rispetto, a partire dal sindaco di Betlemme, consuetudinariamente cristiano come da accordi tra forze politiche palestinesi. Certamente sopravviveranno, sebbene in condizione di minoranza non rilevante, talune formazioni di ispirazione laica, tra esse certamente il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, dichiaratamente marxista, ma anche tra le poche organizzazioni ad aver mantenuto una discreto radicamento sul territorio e nelle università, come in egual modo godono ancora di un certo radicamento le altre due formazioni politiche marxiste, il Partito Popolare Palestinese il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina.

I palestinesi avranno una porzione molto ridotta di territorio, potranno ufficializzare la loro presenza alle Nazioni Unite per altro prevista da una risoluzione dell’aprile 2024, il loro passaporto avrà finalmente un valore legale internazionale e la città santa di Al Quds – Gerusalemme dovrà necessariamente diventare, per quanto simbolicamente, in quanto le istituzioni politiche palestinesi resteranno certamente a Ramallah, la capitale del nuovo stato. Anche il ruolo della polizia e dell’esercito palestinese dovranno avere un nuovo slancio e nuovi riconosciuti poteri, non più in perenne subalternità a quelli israeliani.

Per tutto questo le casse delle monarchia saudita dovranno immaginare un investimento senza ritorno molto considerevole, non solo per creare una nuova burocrazia, nuove forze dell’ordine, ma anche per permettere la ricostruzione di Gaza e un deciso avvio verso la modernizzazione della Cisgiordania.

Il ritorno sarà per Mohammad Bin Salman soprattutto di immagine, possiamo immaginare si recherà trionfante a pregare un venerdì sulla spianata ierosolimitana delle moschee, tra quella di Omar e quella di al – Aqsa.

I dubbi che questo progetto possa trovare una lineare e non accidentata realizzazione sono molti, non solo perché pare evidente che l’invenzione tardiva e fuori tempo massimo di due stati, non praticata quando avrebbe dovuto negli anni ‘90 del Novecento dopo gli accordi di Oslo del settembre 1993, appare difficile possa realizzarsi in modo costruttivo e pacifico nel secondo quarto del XXI secolo, anche e soprattutto perché da quel nefasto 31 maggio 1996, prima vittoria elettorale dell’allora quarantacinquenne Benjamin Netanyahu, questi ha realizzato lungo tutti gli anni trascorsi ogni possibile azione per scatenare dentro la società e la politica israeliana le più feroci, violente, aggressive pulsioni del sionismo, con politici, giornalisti e insegnanti, pronti nelle scuole e dalle televisioni, attraverso i social network e le piazze ad aizzare un indiscriminato odio anti – arabo, anti – islamico, anti – cristiano, al pari di una reiterata e non nascosta istigazione allo sterminio dei palestinesi, messaggi omicidi e criminali molto ben recepiti purtroppo da migliaia di cittadini israeliani e anche dai coloni catapultati in questi decenni oltre il muro di separazione dentro la Cisgiordania per frantumarne il tessuto unitario e depredarne le risorse, dall’acqua del fiume Giordano ai prodotti della terra, dagli ulivi al limoni.

Questi i rischi e le incertezze, ma la determinazione non solo occidentale di percorrere questa strada appare evidente, anche per il ridicolo cambio di passo non solo della signora Von der Leyen, ma allo stesso tempo di tutti i politici, i media e i commentatori occidentali, passati in poche ore nei confronti di Netanyahu dal giustificazionismo filo – sionista alla condanna umanitaria.

La probabile proposta saudita per altro non dovrebbe suscitare opposizioni a Mosca e a Pechino, anche perché Riyad, almeno dal dicembre 2022, quando in una imponente visita di stato Mohammad Bin Salman e Xi Jinping hanno firmato nella capitale saudita oltre duecento accordi di collaborazione economica di durata più che quarantennale, ha frettolosamente quanto imprevedibilmente cambiato collocazione internazionale, dopo mezzo secolo di sudditanza a Washington, in particolare dopo il colpo di stato organizzato da Kissinger nel 1975 con l’omicidio e la sostituzione dell’allora sovrano. Oggi l’Arabia Saudita, se non proprio parte integrante del nuovo mondo multipolare proposto da cinesi e russi, in ogni caso ha una posizione mediana, al pari della Turchia di Erdoğan e degli Emirati Arabi Uniti, questi ultimi anche impegnati con la Thailandia a supportare l’asse sino – russo nella costruzione di un sistema bancario internazionale alternativo a quello egemonizzato dal dollaro. La stessa Thailandia vale la pena ricordarlo, ha compiuto un cambio repentino di collocazione internazionale, dopo aver appoggiato tra le due guerre l’imperialismo nipponico e per tutta la Guerra Fredda quello statunitense, oggi si presenta come una delle più solide alleate del multipolarismo sino – russo.

I buoni rapporti tra sauditi e cinesi hanno confermato quelli già precedenti tra Mohammad Bin Salman e Vladimir Putin, aprendo definitivamente le porte alla ricomposizione tra Arabia Saudita e Repubblica Islamica dell’Iran, per lungo tempo antagonisti regionali, non solo per motivi religiosi (sunniti – sciiti), ma anche per il diverso posizionamento internazionale. Dal 2023 infatti sauditi e iraniani hanno riallacciato le relazioni diplomatiche, la cooperazione e l’interscambio economico e commerciale.

È dunque evidente che al pari di Washington anche il campo multipolare ambisca a un Medioriente, se non pacificato, poco o per nulla irrequieto.

Contro tutto questo giocano non solo i più irrazionali fautori del sionismo, ma allo stesso tempo i mestatori  franco – inglesi, pronti a provocare conflitti, più o meno allargati, decisi a moltiplicare lo scontro con Cina e Russia da quando si sono trasformati nei difensori di quella finanza speculativa che del furto delle materie prime nel Sud Globale e del dollaro come moneta di scambio planetario ha la sua ragione esistenziale.

In questo senso le ambiguità della nuova Siria e l’indisponibilità di una quota rilevante del mondo curdo a terminare d’essere lo strumento di un separatismo etnico tutto orientato agli interessi dell’imperialismo occidentale potrebbero essere due, tra le molte variabili, protese a far naufragare tanto la pace mediorientale, quanto una nuova e meno insanguinata Palestina.

Progetti che nascono comunque con tutta la fragilità del tempo presente e dei tanti conflitti regionali ancora irrisolti.

Probabile impegno saudita per la Palestina, tra conflitti irrisolti, speranze di pace e necessità di ricostruzione sociale ed economica

Segue nostro Telegram.

Il destino del popolo palestinese pare trovare una strada, almeno verso una temporanea pace e una momentanea vittoria sulla fame, nonché forse un compiuto riconoscimento giuridico internazionale, il tutto dopo la visita di Donald Trump in Arabia Saudita.

Il presidente statunitense, con buona pace dei suoi detrattori che passano il tempo ad apostrofarlo in modo sguaiato e poco ragionato come fascista, ha tenuto un discorso sul rispetto delle culture, delle tradizioni, della sovranità nazionale di ciascun popolo e di ciascuna nazione, in cui ha pure perentoriamente affermato come emiratini e sauditi abbiano sviluppato positivamente le loro nazioni, mentre gli esportatori di democrazia occidentale – massimamente i suoi compatrioti statunitensi – ovunque, a partire da Iraq e Afghanistan, abbiano lasciato solo macerie e devastazione umana e politica.  Un discorso di pace e di umanità con molte implicazioni e con un’ammissione non esplicitata ma a quanto pare effettiva, ovvero gli Stati Uniti appaiono pronti ad accettare l’offerta saudita, anche in collaborazione con emiratini e qatarini, di ricostruzione della Palestina, sottomettendosi alla sola condizione posta, ovvero una rapida dipartita dallo scenario politico israeliano di Benjamin Netanyahu.

La riflessione tuttavia si deve anche allargare a che tipo di Palestina, sociale e politica, emergerà nel corso di questa ricostruzione, è evidente che con ogni probabilità nascerà un nuovo partito palestinese, anche con personalità provenienti dalle forze politiche che hanno dominato la scena nell’ultimo mezzo secolo, da Al Fatah – ironia di un Partito che si chiama “Giovane”, nato con Yasser Arafat per riunire le rabbiose generazioni palestinesi degli anni ‘60, trasformatesi nel frattempo in modeste e incartapecorite schiere di burocrati – ad Hamas. Per altro non potrà in nessun caso esserci un’esportazione immediata del modello salafita, la versione internazionale del wahhabismo, non solo perché tale proposta politica ha avuto difficoltà a raccogliere congrui sostegni laddove si è presentata, vedi ad esempio l’Egitto, ma anche perché la presenza degli arabo – cristiani ortodossi, cattolici, siro – giacobiti e di tutta la mirabile e sterminata galassia delle comunità cristiano – orientali deve necessariamente avere spazio e rispetto, a partire dal sindaco di Betlemme, consuetudinariamente cristiano come da accordi tra forze politiche palestinesi. Certamente sopravviveranno, sebbene in condizione di minoranza non rilevante, talune formazioni di ispirazione laica, tra esse certamente il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, dichiaratamente marxista, ma anche tra le poche organizzazioni ad aver mantenuto una discreto radicamento sul territorio e nelle università, come in egual modo godono ancora di un certo radicamento le altre due formazioni politiche marxiste, il Partito Popolare Palestinese il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina.

I palestinesi avranno una porzione molto ridotta di territorio, potranno ufficializzare la loro presenza alle Nazioni Unite per altro prevista da una risoluzione dell’aprile 2024, il loro passaporto avrà finalmente un valore legale internazionale e la città santa di Al Quds – Gerusalemme dovrà necessariamente diventare, per quanto simbolicamente, in quanto le istituzioni politiche palestinesi resteranno certamente a Ramallah, la capitale del nuovo stato. Anche il ruolo della polizia e dell’esercito palestinese dovranno avere un nuovo slancio e nuovi riconosciuti poteri, non più in perenne subalternità a quelli israeliani.

Per tutto questo le casse delle monarchia saudita dovranno immaginare un investimento senza ritorno molto considerevole, non solo per creare una nuova burocrazia, nuove forze dell’ordine, ma anche per permettere la ricostruzione di Gaza e un deciso avvio verso la modernizzazione della Cisgiordania.

Il ritorno sarà per Mohammad Bin Salman soprattutto di immagine, possiamo immaginare si recherà trionfante a pregare un venerdì sulla spianata ierosolimitana delle moschee, tra quella di Omar e quella di al – Aqsa.

I dubbi che questo progetto possa trovare una lineare e non accidentata realizzazione sono molti, non solo perché pare evidente che l’invenzione tardiva e fuori tempo massimo di due stati, non praticata quando avrebbe dovuto negli anni ‘90 del Novecento dopo gli accordi di Oslo del settembre 1993, appare difficile possa realizzarsi in modo costruttivo e pacifico nel secondo quarto del XXI secolo, anche e soprattutto perché da quel nefasto 31 maggio 1996, prima vittoria elettorale dell’allora quarantacinquenne Benjamin Netanyahu, questi ha realizzato lungo tutti gli anni trascorsi ogni possibile azione per scatenare dentro la società e la politica israeliana le più feroci, violente, aggressive pulsioni del sionismo, con politici, giornalisti e insegnanti, pronti nelle scuole e dalle televisioni, attraverso i social network e le piazze ad aizzare un indiscriminato odio anti – arabo, anti – islamico, anti – cristiano, al pari di una reiterata e non nascosta istigazione allo sterminio dei palestinesi, messaggi omicidi e criminali molto ben recepiti purtroppo da migliaia di cittadini israeliani e anche dai coloni catapultati in questi decenni oltre il muro di separazione dentro la Cisgiordania per frantumarne il tessuto unitario e depredarne le risorse, dall’acqua del fiume Giordano ai prodotti della terra, dagli ulivi al limoni.

Questi i rischi e le incertezze, ma la determinazione non solo occidentale di percorrere questa strada appare evidente, anche per il ridicolo cambio di passo non solo della signora Von der Leyen, ma allo stesso tempo di tutti i politici, i media e i commentatori occidentali, passati in poche ore nei confronti di Netanyahu dal giustificazionismo filo – sionista alla condanna umanitaria.

La probabile proposta saudita per altro non dovrebbe suscitare opposizioni a Mosca e a Pechino, anche perché Riyad, almeno dal dicembre 2022, quando in una imponente visita di stato Mohammad Bin Salman e Xi Jinping hanno firmato nella capitale saudita oltre duecento accordi di collaborazione economica di durata più che quarantennale, ha frettolosamente quanto imprevedibilmente cambiato collocazione internazionale, dopo mezzo secolo di sudditanza a Washington, in particolare dopo il colpo di stato organizzato da Kissinger nel 1975 con l’omicidio e la sostituzione dell’allora sovrano. Oggi l’Arabia Saudita, se non proprio parte integrante del nuovo mondo multipolare proposto da cinesi e russi, in ogni caso ha una posizione mediana, al pari della Turchia di Erdoğan e degli Emirati Arabi Uniti, questi ultimi anche impegnati con la Thailandia a supportare l’asse sino – russo nella costruzione di un sistema bancario internazionale alternativo a quello egemonizzato dal dollaro. La stessa Thailandia vale la pena ricordarlo, ha compiuto un cambio repentino di collocazione internazionale, dopo aver appoggiato tra le due guerre l’imperialismo nipponico e per tutta la Guerra Fredda quello statunitense, oggi si presenta come una delle più solide alleate del multipolarismo sino – russo.

I buoni rapporti tra sauditi e cinesi hanno confermato quelli già precedenti tra Mohammad Bin Salman e Vladimir Putin, aprendo definitivamente le porte alla ricomposizione tra Arabia Saudita e Repubblica Islamica dell’Iran, per lungo tempo antagonisti regionali, non solo per motivi religiosi (sunniti – sciiti), ma anche per il diverso posizionamento internazionale. Dal 2023 infatti sauditi e iraniani hanno riallacciato le relazioni diplomatiche, la cooperazione e l’interscambio economico e commerciale.

È dunque evidente che al pari di Washington anche il campo multipolare ambisca a un Medioriente, se non pacificato, poco o per nulla irrequieto.

Contro tutto questo giocano non solo i più irrazionali fautori del sionismo, ma allo stesso tempo i mestatori  franco – inglesi, pronti a provocare conflitti, più o meno allargati, decisi a moltiplicare lo scontro con Cina e Russia da quando si sono trasformati nei difensori di quella finanza speculativa che del furto delle materie prime nel Sud Globale e del dollaro come moneta di scambio planetario ha la sua ragione esistenziale.

In questo senso le ambiguità della nuova Siria e l’indisponibilità di una quota rilevante del mondo curdo a terminare d’essere lo strumento di un separatismo etnico tutto orientato agli interessi dell’imperialismo occidentale potrebbero essere due, tra le molte variabili, protese a far naufragare tanto la pace mediorientale, quanto una nuova e meno insanguinata Palestina.

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The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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