Italiano
Lorenzo Maria Pacini
June 1, 2025
© Photo: Public domain

Il cosiddetto ddl Sicurezza, voluto dal Governo Meloni, è ormai sulla bocca di tutti, anche dei meno addetti ai lavori. La fama di questo disegno di legge, che per 60 giorni si è fatto decreto legge, introdotto con “misure di urgenza”, è quella di rientrare nella top 3 delle leggi più liberticide e contrarie ai diritti fondamentali dell’uomo della storia della Repubblica italiana.

Segue nostro Telegram.

L’escamotage del Decreto Legge

Nel contesto già confuso della normativa emergenziale italiana, si è consumato infatti un passaggio preoccupante: il ddl Sicurezza n. 1660, ampiamente discusso e contestato in Parlamento, è stato improvvisamente svuotato del suo iter ordinario e trasformato in un decreto legge. Un gesto grave, sia sul piano istituzionale che costituzionale, che rappresenta un ulteriore salto verso una deriva autoritaria nel diritto penale italiano.

Come confermato dai principali media, il governo ha deciso di inglobare il contenuto del disegno di legge in un decreto d’urgenza, adottando una strategia che ricorda un vero e proprio colpo di mano legislativo. Dopo i decreti Rave, Cutro e Caivano, ora tocca al DDL Sicurezza essere risucchiato nel vortice della decretazione d’urgenza strumentale.

Ma dov’è, in questo momento, l’effettiva urgenza? Dov’è la straordinaria necessità prevista dall’articolo 77 della Costituzione, che dovrebbe giustificare l’adozione di un decreto legge?

La realtà è che non esiste alcuna situazione nuova o imprevedibile che renda indispensabile l’utilizzo di uno strumento così eccezionale. L’unica vera urgenza per il governo è quella di zittire rapidamente e senza confronto il dibattito pubblico e giuridico che si stava intensificando attorno a un testo pieno di incongruenze, sproporzioni e contraddizioni.

L’urgenza è quella di sottrarre il provvedimento alla dialettica democratica.

È, ancora una volta, la scorciatoia autoritaria dell’esecutivo che impone nuove regole penali — quindi restrizioni alle libertà fondamentali — senza permettere al Parlamento di discutere e deliberare in modo effettivo.

In materia penale, questo procedimento è particolarmente inaccettabile. Il diritto penale riguarda aspetti estremi, deve essere accurato, trasparente e oggetto di ampio confronto. È il ramo del diritto che incide direttamente sulla libertà personale, sulla libertà di espressione e sulla possibilità di protesta civile. In una democrazia, non può essere definito a colpi di decreto.

Eppure, il nuovo decreto legge estende le fattispecie penali, introduce nuove aggravanti e inasprisce le pene, con un chiaro orientamento repressivo verso il dissenso sociale.

Non si tratta più di norme volte a tutelare beni giuridici concreti, ma di un vero e proprio “diritto penale d’autore”, dove conta più la valenza simbolica, ideologica o oppositiva della condotta che il danno effettivo prodotto.

È un diritto penale che punisce le intenzioni più che i fatti, la dissidenza più che il reato.

Basti pensare all’inasprimento delle sanzioni per l’imbrattamento di edifici pubblici: una misura pensata proprio per criminalizzare le forme di disobbedienza civile.

O alle nuove misure preventive, che colpiscono individui prima ancora che abbiano commesso atti illeciti, basandosi su valutazioni “intuitive” e spesso di natura politica. È la normalizzazione del sospetto come presunzione di colpevolezza.

Per questo motivo, la trasformazione del ddl 1660 in decreto legge è una scelta politica — non una mera necessità tecnica — che richiede una valutazione costituzionale severa e senza sconti.

Il governo non ha affrontato un disastro, un crollo dell’ordine pubblico o una reale emergenza. Si è trovato davanti a una crescente opposizione culturale, sociale e giuridica a un impianto normativo pericoloso e per zittirla ha scelto la via più rapida: quella che bypassa il Parlamento, quella che impone anziché discutere.

Chi denuncia questa situazione non è un nemico della sicurezza, ma un difensore delle regole.

Chi si oppone a questa deriva autoritaria non è contro lo Stato, ma contro uno Stato che supera se stesso e si nega.

Approvato alla Camera, desiderato al Senato

Il 30 maggio è arrivata la terribile notizia: la Camera dei Deputati ha approvato il ddl, che ora passa al Senato per l’ultima discussione.

La maggior parte delle modifiche introdotte nel DDL attualmente vigente sono di natura tecnica e avranno un impatto pratico limitato o nullo.

In generale si registra un aumento delle pene, sia detentive che pecuniarie, e una maggiore “specificazione” dei reati: ciò significa che una stessa azione può configurare differenti tipi di reato o aggravanti a seconda del contesto, della persona coinvolta o dell’oggetto dell’azione. Per esempio: se compio un’aggressione contro persone o cose, la pena varia a seconda del momento o del luogo in cui avviene; se accade durante una manifestazione sportiva o politica, oppure vicino a una stazione, la sanzione cambia. Rimane però la punibilità solo se vi è denuncia da parte della vittima, mentre per un cambiamento reale sarebbe necessaria la reintroduzione della punibilità d’ufficio. In questo senso, questa maggiore definizione e specificazione dei reati avrà scarso effetto se non accompagnata da una volontà effettiva di contrastare comportamenti criminosi, una volontà che avrebbe potuto essere esercitata anche prima di questo DDL. Sarebbe invece necessario riscrivere la riforma Cartabia, la vera causa dell’attuale lassismo, ma di questo non si parla affatto.

Per quanto riguarda le occupazioni di immobili, tema molto discusso in tv, il procedimento per sgomberare gli occupanti viene sì semplificato, ma contemporaneamente si introducono clausole poco chiare e discutibili: l’azione può sempre essere sospesa per giusta causa, e può addirittura essere annullata se il pubblico ministero, dopo aver ricevuto il verbale della polizia giudiziaria che ha effettuato il sopralluogo e constatato l’occupazione, non lo trasmette entro 48 ore al giudice per richiedere la convalida e l’ordinanza di reintegro nel possesso, che deve essere emessa entro 10 giorni. Ma in Italia saranno rispettati questi tempi? Per di più, le condizioni per cui sarà effettivo lo sfratto saranno pochissime, cosa che rende la norma insoddisfacente e meramente demagogica.

Vediamo anche alcuni aspetti effettivamente limitativi delle libertà. Per esempio, l’articolo 14, che riguarda i blocchi stradali, ora equiparati a quelli ferroviari e navali: da illecito amministrativo diventano reato penale, con aggravante se commessi in gruppo. In sé non è una misura ingiusta, si pensi a chi blocca strade importanti per ore, impedendo la mobilità di molte persone… chi non vorrebbe vederli puniti severamente? Ma se pensiamo a quando si costringe qualcuno a tagliare ulivi secolari per un rischio sanitario praticamente inesistente, o quando si obbliga a cedere terreni agricoli per favorire grandi aziende fotovoltaiche, o quando si vieta di circolare con un’auto in perfette condizioni solo perché vecchia, la situazione cambia: prima c’era solo una multa, ora c’è il rischio del carcere. Il blocco stradale è comunque una forma di protesta pacifica, accessibile anche ai meno coraggiosi. Trasformarlo in reato penale significa costringere a subire senza poter reagire.

L’articolo 19 riguarda violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale e introduce un’aggravante se tali fatti avvengono per ostacolare la realizzazione di opere pubbliche o infrastrutture strategiche. Però chi decide cosa è strategico? Lo sviluppo delle energie rinnovabili è un obiettivo strategico? Se sì, ora è permesso distruggere terreni agricoli e chi protesta viene punito più severamente.

L’articolo 30 tutela il personale militare impegnato in missioni internazionali, concedendo di fatto un salvacondotto per azioni invasive come violazioni di domicilio, intercettazioni, violazione della corrispondenza privata, tutte considerate in realtà illegali. Viene data prevalenza alle regole d’ingaggio militari rispetto alle leggi nazionali del paese in cui si opera.

L’articolo 2 riguarda il noleggio di autoveicoli a breve o lungo termine. Chi noleggia dovrà comunicare tempestivamente sia i dati personali del cliente sia quelli del veicolo, che saranno inseriti in un database per prevenire attività terroristiche. Chi non lo farà sarà punito con una multa o addirittura con la detenzione. Se davvero serve a prevenire il terrorismo, ben venga, ma attualmente questa misura finisce per schedare automaticamente chiunque noleggi un’auto. L’argomento antiterrorismo sembra solo una scusa: chi mai noleggerebbe un’auto a proprio nome per fini terroristici, con documenti e carta di credito validi? Quindi la comunicazione serve ad altro. Va ricordato che i veicoli noleggiati costituiscono circa il 30% del parco auto circolante.

L’articolo 31 conferma e rende permanenti alcune norme del 2015 che rafforzano le attività di intelligence per la sicurezza nazionale: il personale militare e degli organismi di sicurezza è qualificato come agente di pubblica sicurezza, e pubbliche amministrazioni, università, aziende partecipate dallo Stato devono obbligatoriamente collaborare con questi servizi, anche a livello tecnico e logistico. Prima era una richiesta che poteva essere rifiutata, ora è un obbligo motivato da ragioni di “sicurezza nazionale”. Cosa significa “tutela della sicurezza nazionale”? Potenzialmente qualsiasi cosa, persino la repressione di opinioni o dissenso.

Gli articoli 30 e 31 insieme pongono un serio freno al pensiero critico e al dissenso: con il 30, il potere può usare qualsiasi stratagemma per raccogliere informazioni da usare contro i suoi oppositori, e con il 31 gli spazi deputati al pensiero libero, come le università, vengono controllati e resi sterili, come già avviene in certi ambienti accademici privati dove si formano professionisti incapaci di criticare le teorie economiche che hanno causato molte crisi mondiali.

L’articolo 35 riguarda il lavoro dei detenuti: estende i benefici fiscali già previsti per le cooperative sociali che impiegano detenuti anche alle aziende pubbliche e private che li assumono dentro o fuori le carceri. Tradotto: manodopera a basso costo per tutti. In sé non è una cattiva idea se serve al reinserimento sociale dei detenuti, ma può creare concorrenza sleale per le imprese che devono pagare costi normali.

Quando il governo vuole reprimere, lo fa con efficacia; in altri casi, no. Questo fa pensare che dietro l’applicazione selettiva delle norme ci sia una volontà precisa e ponderata.

Tutte le dittature, d’altronde, hanno giustificato le loro azioni con la “sicurezza nazionale”.

Ricordiamolo con chiarezza e fermezza: non c’è vera sicurezza senza rispetto del diritto, senza proporzionalità, senza Costituzione. Oggi, l’urgenza non si trova nelle strade, ma nei palazzi del potere. Se non verrà bloccata questa deriva, sarà troppo tardi.

Il ddl Sicurezza ci porterà alla più totale insicurezza

Il cosiddetto ddl Sicurezza, voluto dal Governo Meloni, è ormai sulla bocca di tutti, anche dei meno addetti ai lavori. La fama di questo disegno di legge, che per 60 giorni si è fatto decreto legge, introdotto con “misure di urgenza”, è quella di rientrare nella top 3 delle leggi più liberticide e contrarie ai diritti fondamentali dell’uomo della storia della Repubblica italiana.

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L’escamotage del Decreto Legge

Nel contesto già confuso della normativa emergenziale italiana, si è consumato infatti un passaggio preoccupante: il ddl Sicurezza n. 1660, ampiamente discusso e contestato in Parlamento, è stato improvvisamente svuotato del suo iter ordinario e trasformato in un decreto legge. Un gesto grave, sia sul piano istituzionale che costituzionale, che rappresenta un ulteriore salto verso una deriva autoritaria nel diritto penale italiano.

Come confermato dai principali media, il governo ha deciso di inglobare il contenuto del disegno di legge in un decreto d’urgenza, adottando una strategia che ricorda un vero e proprio colpo di mano legislativo. Dopo i decreti Rave, Cutro e Caivano, ora tocca al DDL Sicurezza essere risucchiato nel vortice della decretazione d’urgenza strumentale.

Ma dov’è, in questo momento, l’effettiva urgenza? Dov’è la straordinaria necessità prevista dall’articolo 77 della Costituzione, che dovrebbe giustificare l’adozione di un decreto legge?

La realtà è che non esiste alcuna situazione nuova o imprevedibile che renda indispensabile l’utilizzo di uno strumento così eccezionale. L’unica vera urgenza per il governo è quella di zittire rapidamente e senza confronto il dibattito pubblico e giuridico che si stava intensificando attorno a un testo pieno di incongruenze, sproporzioni e contraddizioni.

L’urgenza è quella di sottrarre il provvedimento alla dialettica democratica.

È, ancora una volta, la scorciatoia autoritaria dell’esecutivo che impone nuove regole penali — quindi restrizioni alle libertà fondamentali — senza permettere al Parlamento di discutere e deliberare in modo effettivo.

In materia penale, questo procedimento è particolarmente inaccettabile. Il diritto penale riguarda aspetti estremi, deve essere accurato, trasparente e oggetto di ampio confronto. È il ramo del diritto che incide direttamente sulla libertà personale, sulla libertà di espressione e sulla possibilità di protesta civile. In una democrazia, non può essere definito a colpi di decreto.

Eppure, il nuovo decreto legge estende le fattispecie penali, introduce nuove aggravanti e inasprisce le pene, con un chiaro orientamento repressivo verso il dissenso sociale.

Non si tratta più di norme volte a tutelare beni giuridici concreti, ma di un vero e proprio “diritto penale d’autore”, dove conta più la valenza simbolica, ideologica o oppositiva della condotta che il danno effettivo prodotto.

È un diritto penale che punisce le intenzioni più che i fatti, la dissidenza più che il reato.

Basti pensare all’inasprimento delle sanzioni per l’imbrattamento di edifici pubblici: una misura pensata proprio per criminalizzare le forme di disobbedienza civile.

O alle nuove misure preventive, che colpiscono individui prima ancora che abbiano commesso atti illeciti, basandosi su valutazioni “intuitive” e spesso di natura politica. È la normalizzazione del sospetto come presunzione di colpevolezza.

Per questo motivo, la trasformazione del ddl 1660 in decreto legge è una scelta politica — non una mera necessità tecnica — che richiede una valutazione costituzionale severa e senza sconti.

Il governo non ha affrontato un disastro, un crollo dell’ordine pubblico o una reale emergenza. Si è trovato davanti a una crescente opposizione culturale, sociale e giuridica a un impianto normativo pericoloso e per zittirla ha scelto la via più rapida: quella che bypassa il Parlamento, quella che impone anziché discutere.

Chi denuncia questa situazione non è un nemico della sicurezza, ma un difensore delle regole.

Chi si oppone a questa deriva autoritaria non è contro lo Stato, ma contro uno Stato che supera se stesso e si nega.

Approvato alla Camera, desiderato al Senato

Il 30 maggio è arrivata la terribile notizia: la Camera dei Deputati ha approvato il ddl, che ora passa al Senato per l’ultima discussione.

La maggior parte delle modifiche introdotte nel DDL attualmente vigente sono di natura tecnica e avranno un impatto pratico limitato o nullo.

In generale si registra un aumento delle pene, sia detentive che pecuniarie, e una maggiore “specificazione” dei reati: ciò significa che una stessa azione può configurare differenti tipi di reato o aggravanti a seconda del contesto, della persona coinvolta o dell’oggetto dell’azione. Per esempio: se compio un’aggressione contro persone o cose, la pena varia a seconda del momento o del luogo in cui avviene; se accade durante una manifestazione sportiva o politica, oppure vicino a una stazione, la sanzione cambia. Rimane però la punibilità solo se vi è denuncia da parte della vittima, mentre per un cambiamento reale sarebbe necessaria la reintroduzione della punibilità d’ufficio. In questo senso, questa maggiore definizione e specificazione dei reati avrà scarso effetto se non accompagnata da una volontà effettiva di contrastare comportamenti criminosi, una volontà che avrebbe potuto essere esercitata anche prima di questo DDL. Sarebbe invece necessario riscrivere la riforma Cartabia, la vera causa dell’attuale lassismo, ma di questo non si parla affatto.

Per quanto riguarda le occupazioni di immobili, tema molto discusso in tv, il procedimento per sgomberare gli occupanti viene sì semplificato, ma contemporaneamente si introducono clausole poco chiare e discutibili: l’azione può sempre essere sospesa per giusta causa, e può addirittura essere annullata se il pubblico ministero, dopo aver ricevuto il verbale della polizia giudiziaria che ha effettuato il sopralluogo e constatato l’occupazione, non lo trasmette entro 48 ore al giudice per richiedere la convalida e l’ordinanza di reintegro nel possesso, che deve essere emessa entro 10 giorni. Ma in Italia saranno rispettati questi tempi? Per di più, le condizioni per cui sarà effettivo lo sfratto saranno pochissime, cosa che rende la norma insoddisfacente e meramente demagogica.

Vediamo anche alcuni aspetti effettivamente limitativi delle libertà. Per esempio, l’articolo 14, che riguarda i blocchi stradali, ora equiparati a quelli ferroviari e navali: da illecito amministrativo diventano reato penale, con aggravante se commessi in gruppo. In sé non è una misura ingiusta, si pensi a chi blocca strade importanti per ore, impedendo la mobilità di molte persone… chi non vorrebbe vederli puniti severamente? Ma se pensiamo a quando si costringe qualcuno a tagliare ulivi secolari per un rischio sanitario praticamente inesistente, o quando si obbliga a cedere terreni agricoli per favorire grandi aziende fotovoltaiche, o quando si vieta di circolare con un’auto in perfette condizioni solo perché vecchia, la situazione cambia: prima c’era solo una multa, ora c’è il rischio del carcere. Il blocco stradale è comunque una forma di protesta pacifica, accessibile anche ai meno coraggiosi. Trasformarlo in reato penale significa costringere a subire senza poter reagire.

L’articolo 19 riguarda violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale e introduce un’aggravante se tali fatti avvengono per ostacolare la realizzazione di opere pubbliche o infrastrutture strategiche. Però chi decide cosa è strategico? Lo sviluppo delle energie rinnovabili è un obiettivo strategico? Se sì, ora è permesso distruggere terreni agricoli e chi protesta viene punito più severamente.

L’articolo 30 tutela il personale militare impegnato in missioni internazionali, concedendo di fatto un salvacondotto per azioni invasive come violazioni di domicilio, intercettazioni, violazione della corrispondenza privata, tutte considerate in realtà illegali. Viene data prevalenza alle regole d’ingaggio militari rispetto alle leggi nazionali del paese in cui si opera.

L’articolo 2 riguarda il noleggio di autoveicoli a breve o lungo termine. Chi noleggia dovrà comunicare tempestivamente sia i dati personali del cliente sia quelli del veicolo, che saranno inseriti in un database per prevenire attività terroristiche. Chi non lo farà sarà punito con una multa o addirittura con la detenzione. Se davvero serve a prevenire il terrorismo, ben venga, ma attualmente questa misura finisce per schedare automaticamente chiunque noleggi un’auto. L’argomento antiterrorismo sembra solo una scusa: chi mai noleggerebbe un’auto a proprio nome per fini terroristici, con documenti e carta di credito validi? Quindi la comunicazione serve ad altro. Va ricordato che i veicoli noleggiati costituiscono circa il 30% del parco auto circolante.

L’articolo 31 conferma e rende permanenti alcune norme del 2015 che rafforzano le attività di intelligence per la sicurezza nazionale: il personale militare e degli organismi di sicurezza è qualificato come agente di pubblica sicurezza, e pubbliche amministrazioni, università, aziende partecipate dallo Stato devono obbligatoriamente collaborare con questi servizi, anche a livello tecnico e logistico. Prima era una richiesta che poteva essere rifiutata, ora è un obbligo motivato da ragioni di “sicurezza nazionale”. Cosa significa “tutela della sicurezza nazionale”? Potenzialmente qualsiasi cosa, persino la repressione di opinioni o dissenso.

Gli articoli 30 e 31 insieme pongono un serio freno al pensiero critico e al dissenso: con il 30, il potere può usare qualsiasi stratagemma per raccogliere informazioni da usare contro i suoi oppositori, e con il 31 gli spazi deputati al pensiero libero, come le università, vengono controllati e resi sterili, come già avviene in certi ambienti accademici privati dove si formano professionisti incapaci di criticare le teorie economiche che hanno causato molte crisi mondiali.

L’articolo 35 riguarda il lavoro dei detenuti: estende i benefici fiscali già previsti per le cooperative sociali che impiegano detenuti anche alle aziende pubbliche e private che li assumono dentro o fuori le carceri. Tradotto: manodopera a basso costo per tutti. In sé non è una cattiva idea se serve al reinserimento sociale dei detenuti, ma può creare concorrenza sleale per le imprese che devono pagare costi normali.

Quando il governo vuole reprimere, lo fa con efficacia; in altri casi, no. Questo fa pensare che dietro l’applicazione selettiva delle norme ci sia una volontà precisa e ponderata.

Tutte le dittature, d’altronde, hanno giustificato le loro azioni con la “sicurezza nazionale”.

Ricordiamolo con chiarezza e fermezza: non c’è vera sicurezza senza rispetto del diritto, senza proporzionalità, senza Costituzione. Oggi, l’urgenza non si trova nelle strade, ma nei palazzi del potere. Se non verrà bloccata questa deriva, sarà troppo tardi.

Il cosiddetto ddl Sicurezza, voluto dal Governo Meloni, è ormai sulla bocca di tutti, anche dei meno addetti ai lavori. La fama di questo disegno di legge, che per 60 giorni si è fatto decreto legge, introdotto con “misure di urgenza”, è quella di rientrare nella top 3 delle leggi più liberticide e contrarie ai diritti fondamentali dell’uomo della storia della Repubblica italiana.

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L’escamotage del Decreto Legge

Nel contesto già confuso della normativa emergenziale italiana, si è consumato infatti un passaggio preoccupante: il ddl Sicurezza n. 1660, ampiamente discusso e contestato in Parlamento, è stato improvvisamente svuotato del suo iter ordinario e trasformato in un decreto legge. Un gesto grave, sia sul piano istituzionale che costituzionale, che rappresenta un ulteriore salto verso una deriva autoritaria nel diritto penale italiano.

Come confermato dai principali media, il governo ha deciso di inglobare il contenuto del disegno di legge in un decreto d’urgenza, adottando una strategia che ricorda un vero e proprio colpo di mano legislativo. Dopo i decreti Rave, Cutro e Caivano, ora tocca al DDL Sicurezza essere risucchiato nel vortice della decretazione d’urgenza strumentale.

Ma dov’è, in questo momento, l’effettiva urgenza? Dov’è la straordinaria necessità prevista dall’articolo 77 della Costituzione, che dovrebbe giustificare l’adozione di un decreto legge?

La realtà è che non esiste alcuna situazione nuova o imprevedibile che renda indispensabile l’utilizzo di uno strumento così eccezionale. L’unica vera urgenza per il governo è quella di zittire rapidamente e senza confronto il dibattito pubblico e giuridico che si stava intensificando attorno a un testo pieno di incongruenze, sproporzioni e contraddizioni.

L’urgenza è quella di sottrarre il provvedimento alla dialettica democratica.

È, ancora una volta, la scorciatoia autoritaria dell’esecutivo che impone nuove regole penali — quindi restrizioni alle libertà fondamentali — senza permettere al Parlamento di discutere e deliberare in modo effettivo.

In materia penale, questo procedimento è particolarmente inaccettabile. Il diritto penale riguarda aspetti estremi, deve essere accurato, trasparente e oggetto di ampio confronto. È il ramo del diritto che incide direttamente sulla libertà personale, sulla libertà di espressione e sulla possibilità di protesta civile. In una democrazia, non può essere definito a colpi di decreto.

Eppure, il nuovo decreto legge estende le fattispecie penali, introduce nuove aggravanti e inasprisce le pene, con un chiaro orientamento repressivo verso il dissenso sociale.

Non si tratta più di norme volte a tutelare beni giuridici concreti, ma di un vero e proprio “diritto penale d’autore”, dove conta più la valenza simbolica, ideologica o oppositiva della condotta che il danno effettivo prodotto.

È un diritto penale che punisce le intenzioni più che i fatti, la dissidenza più che il reato.

Basti pensare all’inasprimento delle sanzioni per l’imbrattamento di edifici pubblici: una misura pensata proprio per criminalizzare le forme di disobbedienza civile.

O alle nuove misure preventive, che colpiscono individui prima ancora che abbiano commesso atti illeciti, basandosi su valutazioni “intuitive” e spesso di natura politica. È la normalizzazione del sospetto come presunzione di colpevolezza.

Per questo motivo, la trasformazione del ddl 1660 in decreto legge è una scelta politica — non una mera necessità tecnica — che richiede una valutazione costituzionale severa e senza sconti.

Il governo non ha affrontato un disastro, un crollo dell’ordine pubblico o una reale emergenza. Si è trovato davanti a una crescente opposizione culturale, sociale e giuridica a un impianto normativo pericoloso e per zittirla ha scelto la via più rapida: quella che bypassa il Parlamento, quella che impone anziché discutere.

Chi denuncia questa situazione non è un nemico della sicurezza, ma un difensore delle regole.

Chi si oppone a questa deriva autoritaria non è contro lo Stato, ma contro uno Stato che supera se stesso e si nega.

Approvato alla Camera, desiderato al Senato

Il 30 maggio è arrivata la terribile notizia: la Camera dei Deputati ha approvato il ddl, che ora passa al Senato per l’ultima discussione.

La maggior parte delle modifiche introdotte nel DDL attualmente vigente sono di natura tecnica e avranno un impatto pratico limitato o nullo.

In generale si registra un aumento delle pene, sia detentive che pecuniarie, e una maggiore “specificazione” dei reati: ciò significa che una stessa azione può configurare differenti tipi di reato o aggravanti a seconda del contesto, della persona coinvolta o dell’oggetto dell’azione. Per esempio: se compio un’aggressione contro persone o cose, la pena varia a seconda del momento o del luogo in cui avviene; se accade durante una manifestazione sportiva o politica, oppure vicino a una stazione, la sanzione cambia. Rimane però la punibilità solo se vi è denuncia da parte della vittima, mentre per un cambiamento reale sarebbe necessaria la reintroduzione della punibilità d’ufficio. In questo senso, questa maggiore definizione e specificazione dei reati avrà scarso effetto se non accompagnata da una volontà effettiva di contrastare comportamenti criminosi, una volontà che avrebbe potuto essere esercitata anche prima di questo DDL. Sarebbe invece necessario riscrivere la riforma Cartabia, la vera causa dell’attuale lassismo, ma di questo non si parla affatto.

Per quanto riguarda le occupazioni di immobili, tema molto discusso in tv, il procedimento per sgomberare gli occupanti viene sì semplificato, ma contemporaneamente si introducono clausole poco chiare e discutibili: l’azione può sempre essere sospesa per giusta causa, e può addirittura essere annullata se il pubblico ministero, dopo aver ricevuto il verbale della polizia giudiziaria che ha effettuato il sopralluogo e constatato l’occupazione, non lo trasmette entro 48 ore al giudice per richiedere la convalida e l’ordinanza di reintegro nel possesso, che deve essere emessa entro 10 giorni. Ma in Italia saranno rispettati questi tempi? Per di più, le condizioni per cui sarà effettivo lo sfratto saranno pochissime, cosa che rende la norma insoddisfacente e meramente demagogica.

Vediamo anche alcuni aspetti effettivamente limitativi delle libertà. Per esempio, l’articolo 14, che riguarda i blocchi stradali, ora equiparati a quelli ferroviari e navali: da illecito amministrativo diventano reato penale, con aggravante se commessi in gruppo. In sé non è una misura ingiusta, si pensi a chi blocca strade importanti per ore, impedendo la mobilità di molte persone… chi non vorrebbe vederli puniti severamente? Ma se pensiamo a quando si costringe qualcuno a tagliare ulivi secolari per un rischio sanitario praticamente inesistente, o quando si obbliga a cedere terreni agricoli per favorire grandi aziende fotovoltaiche, o quando si vieta di circolare con un’auto in perfette condizioni solo perché vecchia, la situazione cambia: prima c’era solo una multa, ora c’è il rischio del carcere. Il blocco stradale è comunque una forma di protesta pacifica, accessibile anche ai meno coraggiosi. Trasformarlo in reato penale significa costringere a subire senza poter reagire.

L’articolo 19 riguarda violenza, minaccia o resistenza a pubblico ufficiale e introduce un’aggravante se tali fatti avvengono per ostacolare la realizzazione di opere pubbliche o infrastrutture strategiche. Però chi decide cosa è strategico? Lo sviluppo delle energie rinnovabili è un obiettivo strategico? Se sì, ora è permesso distruggere terreni agricoli e chi protesta viene punito più severamente.

L’articolo 30 tutela il personale militare impegnato in missioni internazionali, concedendo di fatto un salvacondotto per azioni invasive come violazioni di domicilio, intercettazioni, violazione della corrispondenza privata, tutte considerate in realtà illegali. Viene data prevalenza alle regole d’ingaggio militari rispetto alle leggi nazionali del paese in cui si opera.

L’articolo 2 riguarda il noleggio di autoveicoli a breve o lungo termine. Chi noleggia dovrà comunicare tempestivamente sia i dati personali del cliente sia quelli del veicolo, che saranno inseriti in un database per prevenire attività terroristiche. Chi non lo farà sarà punito con una multa o addirittura con la detenzione. Se davvero serve a prevenire il terrorismo, ben venga, ma attualmente questa misura finisce per schedare automaticamente chiunque noleggi un’auto. L’argomento antiterrorismo sembra solo una scusa: chi mai noleggerebbe un’auto a proprio nome per fini terroristici, con documenti e carta di credito validi? Quindi la comunicazione serve ad altro. Va ricordato che i veicoli noleggiati costituiscono circa il 30% del parco auto circolante.

L’articolo 31 conferma e rende permanenti alcune norme del 2015 che rafforzano le attività di intelligence per la sicurezza nazionale: il personale militare e degli organismi di sicurezza è qualificato come agente di pubblica sicurezza, e pubbliche amministrazioni, università, aziende partecipate dallo Stato devono obbligatoriamente collaborare con questi servizi, anche a livello tecnico e logistico. Prima era una richiesta che poteva essere rifiutata, ora è un obbligo motivato da ragioni di “sicurezza nazionale”. Cosa significa “tutela della sicurezza nazionale”? Potenzialmente qualsiasi cosa, persino la repressione di opinioni o dissenso.

Gli articoli 30 e 31 insieme pongono un serio freno al pensiero critico e al dissenso: con il 30, il potere può usare qualsiasi stratagemma per raccogliere informazioni da usare contro i suoi oppositori, e con il 31 gli spazi deputati al pensiero libero, come le università, vengono controllati e resi sterili, come già avviene in certi ambienti accademici privati dove si formano professionisti incapaci di criticare le teorie economiche che hanno causato molte crisi mondiali.

L’articolo 35 riguarda il lavoro dei detenuti: estende i benefici fiscali già previsti per le cooperative sociali che impiegano detenuti anche alle aziende pubbliche e private che li assumono dentro o fuori le carceri. Tradotto: manodopera a basso costo per tutti. In sé non è una cattiva idea se serve al reinserimento sociale dei detenuti, ma può creare concorrenza sleale per le imprese che devono pagare costi normali.

Quando il governo vuole reprimere, lo fa con efficacia; in altri casi, no. Questo fa pensare che dietro l’applicazione selettiva delle norme ci sia una volontà precisa e ponderata.

Tutte le dittature, d’altronde, hanno giustificato le loro azioni con la “sicurezza nazionale”.

Ricordiamolo con chiarezza e fermezza: non c’è vera sicurezza senza rispetto del diritto, senza proporzionalità, senza Costituzione. Oggi, l’urgenza non si trova nelle strade, ma nei palazzi del potere. Se non verrà bloccata questa deriva, sarà troppo tardi.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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