L’Italia non è il suo governo o la sua subalternità all’euro-atlantismo, e nemmeno soltanto una immensa portaerei geopolitica piantata nel mediterraneo ad uso e consumo delle potenze imperiali pro tempore.
Il 9 aprile scorso, di fronte al parlamento italiano riunito in seduta straordinaria, Re Carlo III di Gran Bretagna ha fatto – secondo l’agenzia stampa nazionale AGI – la sua “dichiarazione d’amore verso l’Italia”:
“Un altro fondamento nel quale il Regno Unito è orgoglioso di aver avuto un ruolo è il sostegno che il nostro Paese diede all’unificazione italiana. Quando Garibaldi sbarcò vicino a Marsala, in Sicilia, nel maggio del 1860, due navi da guerra della Royal Navy erano lì a vegliare.”
Le confessioni d’amore, si sa, sono quasi sempre sincere. Magari meno disinteressate, ma certamente clamorose. Ed il Re d’Inghilterra stavolta ha messo ufficialmente la firma degli Windsor sul contributo all’unità italiana. Un qualcosa che la maggior parte dei nostri connazionali non conosce o rifiuta:
“Garibaldi era, come sapete, molto ammirato nel Regno Unito. Quando visitò il Paese nel 1864 per ringraziare il popolo britannico del sostegno ricevuto, scoppiò una vera e propria Garibaldimania. Circa mezzo milione di persone accorsero a salutarlo a Londra. Gli fu persino dedicato un biscotto – il segno supremo dell’ammirazione britannica! Molti degli eroi del Risorgimento – tra cui Cavour e Mazzini – trascorsero del tempo nel Regno Unito.”
Ma è grazie a Fëdor Dostoevskij, filosofo e scrittore fra i più grandi della storia russa e mondiale, che possiamo delineare e qualificare l’Italia di ieri, ma anche quella di oggi. L’Italia non è il suo governo o la sua subalternità all’euro-atlantismo, e nemmeno soltanto un’immensa portaerei geopolitica piantata nel mediterraneo a uso e consumo delle potenze imperiali pro tempore. l’Italia è molto di più:
“Per duemila anni l’Italia ha portato in sé un’idea universale capace di riunire il mondo, non una qualunque idea astratta, non la speculazione di una mente di gabinetto, ma un’idea reale, organica, frutto della vita della nazione, frutto della vita del mondo: l’idea dell’unione di tutto il mondo, da principio quella romana antica, poi la papale. I popoli cresciuti e scomparsi in questi due millenni e mezzo in Italia comprendevano che erano i portatori di un’idea universale, e quando non lo comprendevano, lo sentivano e lo presentivano. La scienza, l’arte, tutto si rivestiva e penetrava di questo significato mondiale. Ammettiamo pure che questa idea mondiale, alla fine, si era logorata, stremata ed esaurita (ma è stato proprio così?) ma che cosa è venuto al suo posto, per che cosa possiamo congratularci con l’Italia, che cosa ha ottenuto di meglio dopo la diplomazia del conte di Cavour? È sorto un piccolo regno unito di second’ordine, che ha perduto qualsiasi pretesa di valore mondiale, cedendola al più logoro principio borghese – la trentesima ripetizione di questo principio dal tempo della prima rivoluzione francese – un regno soddisfatto della sua unità, che non significa letteralmente nulla, un’unità meccanica e non spirituale (cioè non l’unità mondiale di una volta) e per di più pieno di debiti non pagati e soprattutto soddisfatto del suo essere un regno di second’ordine. Ecco quel che ne è derivato, ecco la creazione del conte di Cavour!” (1)
Proprio quel conte di Cavour che, un paio di decenni prima, aveva inviato almeno 18.000 uomini in Crimea in guerra contro la Russia, quando il Regno di Sardegna dei Savoia si unì all’Impero Ottomano, alla Francia e alla Gran Bretagna nel 1855, poco prima della fine del conflitto.
Nel silenzio dei grandi media, della maggior parte degli storici, degli accademici e degli intellettuali italiani, la “dichiarazione d’amore” del 2025 di Carlo III è in realtà la prova di forza massima e di umiliazione politica e geopolitica della subalternità italiana allo Straniero. Proprio perché è stata fatta sfacciatamente di fronte al parlamento riunito, senza ricevere pubblicamente alcuna reazione patriottica o nazionale di alcun tipo, che non fosse scandalosa piaggeria.
“Il Regno Unito e l’Italia oggi sono uniti nella difesa dei valori democratici che condividiamo. I nostri Paesi sono stati entrambi al fianco dell’Ucraina nel momento del bisogno – accogliendo migliaia di ucraini in cerca di rifugio. Le nostre Forze Armate operano fianco a fianco nell’ambito della NATO. Siamo immensamente grati per il ruolo che l’Italia svolge nell’ospitare basi fondamentali dell’Alleanza e nel guidare numerose operazioni all’estero”.
Dopo un cosiddetto “Risorgimento”, due guerre mondiali, una resa senza condizioni ed una Guerra Fredda ormai defunta, ci ritroviamo ancora così: a dover fare sempre i conti con la nostra Storia ed inevitabilmente con la coscienza del nostro presente. Ciò non ci consente di essere una nazione e neppure un popolo. Magari un sottoprodotto della Rivoluzione industriale, quella del capitalismo globalizzatore, nato da un liberalismo universale che, mentre liberava l’uomo dall’assolutismo dei monarchi, lo imprigionava in quello del mercato, bisognoso non più di servi della gleba e di contado, ma di consumatori e disoccupati.
Persino il fascismo – che fu un prodotto italiano da esportazione in Germania, Austria, Grecia, Portogallo e Spagna, fino addirittura all’odierna Ucraina – ha matrici straniere: per quanta influenza esercitava sua Maestà britannica sulla giovane Italia di Benito Mussolini. Prima di diventare Duce, era “The Count”: nome in codice dell’agente dell’intelligence militare anglosassone finanziato a fondo perduto e primo agitatore di quella Marcia su Roma che oggi sarebbe definita “rivoluzione colorata”, in nero.
Il fascismo (ossia la reazione capitalistica alla Rivoluzione – quella vera – fatta in Russia) fu di nuovo modernità imposta e guerra, che poi avrebbe portato i suoi sconfitti ed i suoi nuovi liberatori; che nel campo occidentale parlano da sempre inglese. Sorry, angloamericano.
Eppure, i ricchi viaggiatori da Germania, Francia e Inghilterra iniziarono ad arrivare in Italia nel Seicento: Italia Caput Mundi, ma soprattutto Roma.
“Dove può un uomo acquistare conoscenze maggiori che a Roma? Dove si parlano tutte le lingue, si insegnano tutte le scienze, dove si incontrano gli uomini più saggi d’Europa, si trovano i migliori documenti, tutti gli spiriti appaiono come sul loro palcoscenico, dove convengono tutti gli ambasciatori stranieri, dove tutti i nunzi apostolici, quando vi fanno ritorno, depongono il fardello delle osservazioni compiute all’estero; e dove quasi ogni pietra è un libro; ogni monumento un maestro; ogni epigrafe una lezione, ogni anticamera un’accademia?”, era il 1670, parole e musica di Richard Lassels in The Voyage of Italy.
Per Johann Wolfgang Goethe vivere l’Italia significava l’incontro con la classicità: “Il coinvolgimento dei sensi e dello spirito che qui fu, è e sarà la grandezza”. Un viaggio nella natura, nello spirito, fra le persone. “Il venir sempre a contatto con nuova gente mi permette di raggiungere pienamente il mio scopo: per aver un’idea viva dell’intero paese, è necessario ascoltare i discorsi che fanno tra loro. È incredibile come nessuno vada d’accordo con l’altro; le rivalità provinciali e cittadine sono accesissime, come pure la reciproca intolleranza; i ceti sociali non fanno che litigare, e tutto ciò con una passionalità così acuta e così immediata che, si può dire, da mane a sera recitano la commedia e fanno mostra si sé”. Arrivato di fronte allo stupore per la grandiosità del millenario acquedotto di Spoleto costruito dagli antichi, che “fa da ponte tra una montagna e l’altra”. “Una seconda natura intesa alla pubblica utilità: questa fu per loro l’architettura. (…) Perché ciò che è privo di vera esistenza interiore è materia senza vita, non può avere né raggiungere la grandezza”.
E diversi anni più tardi: “Pensavo d’aver appreso dalla natura come essa operi in base a precise leggi per produrre strutture viventi quali modelli d’ogni forma creata dall’arte. (…) Le costumanze dei popoli: volevo imparare da esse come dall’incontro di necessità ed arbitrio, istinto e volontà, moto e resistenza, nasca un terzo quid che non è né arte né natura bensì entrambe le cose ad un tempo, necessario e casuale, intenzionale e cieco: intendo la società umana”.
È il 1873, è passato poco più di un secolo dal lungo viaggio in Italia di Johann Wolfgang Goethe, ed è Michail Bakunin che in “Stato e anarchia” descrive la nuova Italia unita, risorgimentale e liberale:
“Malgrado tutte le differenze dei vari dialetti, degli usi e dei costumi, esiste un carattere e un tipo italiano comune che permette di differenziare subito l’italiano dagli individui di qualsiasi altra razza (…). D’altra parte, l’effettiva solidarietà degli interessi materiali e la sorprendente identità delle aspirazioni morali e culturali uniscono nel modo più stretto e saldano fra di loro le province italiane. Si deve poi osservare che tutti questi interessi e queste aspirazioni sono precisamente dirette contro l’unità politica violenta e tendono al contrario all’istaurazione dell’unità sociale; si può quindi affermare e anche dimostrare per mezzo di un gran numero di fatti dell’attuale vita italiana che la sua unità politica o statalista imposta con la violenza avrà per risultato la disunione sociale e, di conseguenza, la distruzione del nuovo Stato italiano avrà come infallibile risultato la sua libera unità sociale. Tutto ciò evidentemente riguarda solo le masse popolari perché negli strati superiori della borghesia italiana, come in tutti gli altri paesi, insieme all’unità statale si è venuta creando, sviluppando, estendendo sempre più l’unità sociale della classe privilegiata degli sfruttatori del lavoro popolare”.
Le previsioni di Bakunin, dopo oltre 150 anni, non si sono proprio realizzate in toto. Sicuramente l’unità è stata imposta con la forza: l’annessione e l’occupazione del Regno Delle Due Sicilie – peraltro disallineato rispetto alle altre potenze occidentali nei confronti della Russia al tempo della guerra di Crimea – sono costati lacrime e sangue ed un divario economico e sociale mai colmato, dove il Mezzogiorno italiano si è trasformato in colonia interna dello Stato italiano trainato dalle regioni del nord, che hanno nel sud mercato di sbocco, esercito di riserva, di intelletto e di manodopera da sfruttare.
Nel 1911, il patriota risorgimentale e primo presidente della Camera dei deputati del Regno di Sardegna, Vincenzo Gioberti tira in qualche modo le somme della rivoluzione liberale, non solo in Italia ma in Europa. Il nuovo sistema si è ormai insediato ed è sfacciatamente oligarchico, che ha sostituto – e magari integrato – un’aristocrazia con un’altra:
“Alla rappresentanza naturale del popolo, che nell’ingegno è riposta, fu surrogata l’artificiale, e la tela parlamentare venne ordita in modo che il merito sottostesse al censo e la sufficienza alla ricchezza. I privilegi feudali si rinnovarono sotto altro nome e si accrebbero: il banco si aggiunse al latifondio, l’officina opulente sottentrò alla gleba per opera di quei borghesi che coll’aiuto del popolo l’avevano abolita. Sorse un’aristocrazia novella poco meno iniqua e più contennenda dell’antica; onde non a torto la guerra mossale assunse nome e spirito di democratica. Ma la corruttela dentro non basta quando l’oppressura non la spalleggia anche di fuori; e poco parve l’assistere spettatore freddo e impassibile allo smembramento e al macello dei popoli, se non si applaudiva e porgeva aiuto a coloro che l’operavano. Che avrebbero potuto fare di peggio gl’illiberali e i retrogradi?”.
Oltre al Regno delle Due Sicilie, ad essere colpita duramente fu la Chiesa cattolica, il Papa ed il suo potere temporale, cioè potere politico, che esercitava peraltro sovranità sul proprio Stato. Ed è forse stata questa la prima finalità dell’Unità italiana aiutata dall’estero:
“La massoneria è stata l’anima del Risorgimento. Come sia i papi che i vertici dell’ordine hanno sempre sostenuto”, ha dichiarato la storica Angela Pellicciari. E ancora: “Non si può continuare a magnificare il Risorgimento che, per la prima volta in più di due millenni, ha trasformato gli italiani in un popolo di mendicanti. I piani della massoneria per l’Italia sono stati antitaliani. La lotta frontale contro la Chiesa cattolica è stata in realtà una guerra contro tutta la popolazione. Contro la sua identità. Questo ha procurato, oltre alla miseria materiale, anche una profonda miseria morale: il senso di inferiorità, di disprezzo per la nostra storia che ci accompagna da quasi due secoli. Un disprezzo che, però, è basato non su dati di fatto, ma su propaganda. Propaganda fatta continuativamente per decenni su tutti i libri di storia, sulla stampa, e, reiteratamente, da tutte o quasi le massime cariche dello Stato”.
Non può essere un caso che, ancora oggi, l’ambasciata britannica a Roma si trovi a pochi metri da Porta Pia, simbolo della presa della città eterna da parte dell’esercito italiano guidato dal generale Raffaele Cadorna, era il 20 settembre 1870. E allora sarà forse un caso, che dal 2022 – e per diversi lunghissimi mesi – sulla cancellata frontale dell’ambasciata accanto alla bandiera della madrepatria, sia stata affiancata la bandiera nazionale ucraina?
Correva il 20 settembre 2024: “Il Grande Oriente d’Italia celebra oggi l’Equinozio d’Autunno che segna la ripresa dei lavori nelle logge e l’anniversario del XX Settembre, a memoria del momento più alto del Risorgimento italiano. Nella mattinata della storica data, che tanto a cuore sta alla Massoneria, a partire dalle ore 10,30 al via le tradizionali cerimonie al Gianicolo presso i monumenti ad Anita e Giuseppe Garibaldi e alla Breccia di Porta Pia”. Così recita il sito ufficiale del GOI, la più antica organizzazione massonica italiana.
Questa è Roma: non più la capitale universale, ma quella “italiana”.
Scrive Angela Pellicciari (I Papi e la Massoneria, edizioni Ares – 2003): “Per caso mi sono imbattuta nel Risorgimento, avvenimento storico verso cui mai avevo provato interesse. Ma quando mi sono accorta che tutte le narrazioni che mi erano arrivate a riguardo erano false, volutamente false, ho passato anni a studiare i fatti del Risorgimento: una guerra di religione furiosa scatenata contro la religione cattolica, cioè contro di noi, dalle potenze protestanti e massoniche che avevano trovato nei Savoia un suddito contento di essere tale. In nome della morale, della libertà, del progresso e della costituzione. Dietro ai Savoia e alla classe dirigente liberale c’era una realtà di cui niente sapevo e di cui pure facevano parte (dopo l’ho capito) non poche delle persone che mi erano parenti ed amici. Di letteratura massonica ed antimassonica ho letto molto. Ho imparato a distinguere il dna che la caratterizza e quindi la riconosco”.
È un Italia liberale e progredita quella che ci porta nella prima guerra mondiale e poi il fascismo, una dittatura imperfetta, visto che il Re aveva l’ultima parola sugli atti del Duce, che poi fu scaricato nel 1943. Tra il Risorgimento e due guerre mondiali si contano milioni di morti: per fare, modernizzare, l’Italia e gli italiani, oggi ormai globalizzati tra smartphone ed intelligenza artificiale.
Così, nel 1951, lo scrittore e saggista Giovanni Papini descriveva la nuova Italia del secondo dopoguerra, diretta verso il boom economico. E l’Italia di Dostoevskij, di Lassels, di Goethe, è quasi scomparsa, ormai sopravvive soltanto nei capolavori che narrano un mondo estinto:
“Ho visto l’Italia, per la prima volta, cinquant’anni fa. Era già intaccata e deturpata dalla cosiddetta civiltà moderna ma era pur sempre la patria bella di uomini umani. V’erano città e regioni intatte, dove si respirava ancora l’aria del beato Ottocento in uno scenario del Trecento o del Cinquecento.
L’Italia era povera ma gl’italiani possedevano ancora quelle ricchezze che nessuna banca può fornire: l’amore, la cordialità, la gentilezza, il buonumore. L’Italia, in alcune sue parti, era sudicia ma di un sudiciume antico e salubre, naturale e paesano, che non offendeva la bellezza della natura e non toglieva all’aria la sua purezza. (…). Addio, vecchia e cara Italia. Addio scugnizzi e lazzaroni di Napoli. Addio fiaccherai e posteggiatori di Firenze. Addio, stornellatori, zampognari, ciociare e fioraie di Roma. Addio, gondolieri e scialletti neri di Venezia. Addio pescatori di Capri e burattinai di Palermo. Addio, popolaresca, festiva, ingegnosa e geniale Italia.
In questi anni, dopo la seconda guerra infernale, anche il dolce paradiso italiano sta diventando un inferno di stile yankee. La civiltà americana, la civiltà del dollaro e della macchina, ha invaso la vecchia adorabile penisola per “incivilirla” a sua immagine e somiglianza. (…)
Fra cinquant’anni, se tanto mi dà tanto, le grazie e le glorie del “giardino d’Europa”, saranno sopraffatte, degradate e nascoste da una cattiva copia della “civiltà barbarica” di questo secolo impazzito” (2).
Così come la civiltà industriale occidentale ha soppiantato quella contadina, sostituendo e trasformando i suoi valori, i suoi miti, il suo Senso, il Lavoro è stato trasformato da necessità a dovere ed il denaro come il fine dell’esistere, l’unico possibile. E la Persona è oggi una risorsa umana che consuma, senza neppure più produrre.
A fine anni settanta Pierpaolo Pasolini lanciava l’allarme generale, un’emergenza che oggi è normalità: “Questa società dei consumi ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo, ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere, altri modelli culturali. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di un’irregolamentazione superficiale, scenografica, ma di una irregolamentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Il che significa, in definitiva, che questa “civiltà dei consumi” è una civiltà dittatoriale. Insomma, se la parola fascismo significa la prepotenza del potere, la società dei consumi ha bene realizzato il fascismo” (3).
Ma come.. la democrazia, la libertà tanto decantata dall’Occidente sarebbe in realtà “una civiltà dittatoriale”? Non siamo costantemente impegnati contro le “dittature” per il globo che mettono a rischio i nostri valori e la nostra società?
C’è qualcosa che non va. Il 9 aprile 2025, Carlo III ha così concluso dal pulpito del parlamento italiano:
“Signore e Signori, I nostri due Paesi si trovano alle estremità del continente europeo. Il nostro è un insieme di isole spazzate dal vento, il vostro una penisola baciata dal sole. Diversi sotto molti aspetti. Ma credo che, nel corso degli anni, abbiamo scoperto che queste differenze si completano a vicenda piuttosto bene. Così è stato nei secoli passati. E lo è, con ancor più forza, oggi.
Che questo sia lo spirito con cui le nostre due nazioni si uniscono per affrontare il futuro. Fiduciosi che, qualunque siano le sfide e le incertezze che inevitabilmente affrontiamo come nazioni, nel nostro continente e oltre, ora e in futuro, possiamo superarle insieme, e lo faremo insieme. E quando lo avremo fatto, potremo dire, con Dante: e quindi uscimmo… a riveder le stelle.”
Unirsi per la guerra? Perchè è quello che il Premier britannico Starmer sta chiedendo da settimane ai volenterosi della Ue contro la Russia. Già, perché – stando alla libertà del capitale – le frontiere italiane tragicamente forgiate dal Risorgimento e da due guerre mondiali sono cadute da un pezzo. Oggi detta legge l’Unione Europea, dove il Nord Italia è ormai diventato a sua volta un Sud, un efficiente ingranaggio dell’indotto industriale facente capo alla Germania euroatlantica.
Ed i volenterosi anglo-europei vogliono “una pace giusta”, cioè soltanto quella dove Mosca perde e loro vincono, a scapito di tutti i popoli, compreso il nostro
Il 19 maggio scorso, UE e UK hanno siglato il Security and Defence Partnership con cui il Regno Unito rientra in pista dopo la Brexit, serrando le fila dei guerrafondai del continente, ora che gli Stati Uniti di Trump si stanno sfilando dal pantano ucraino: quindi più integrazione reciproca, più guerra, più affari, più NATO.
Il Regno Unito potrà beneficiare e/o contribuire al fondo SAFE (Strategic Autonomy for Europe) dell’UE per il riarmo bellico e lo sviluppo industriale del settore. Si parla di un piano che prevede un programma di prestiti da 150 miliardi di euro per investimenti urgenti in capacità di difesa. Questo potrebbe significare una grande torta da spartirsi reciprocamente; sostegno all’industria degli armamenti; libertà di mobilità militare entro i confini UE per l’esercito di sua Maestà, riconoscendo congiuntamente il ruolo fondamentale della sicurezza euro-atlantica: “Il partenariato UE-Regno Unito per la sicurezza e la difesa rafforzerà il contributo europeo alla NATO”.
Lo spazio d’azione e la sovranità limitata dell’Italia dal 1861, anno dell’unità, riflette equilibri interni ma soprattutto esteri, come ci ha ricordato pubblicamente Carlo III°. Oggi come ieri, tra soft power anglosassone e hard power statunitense, Giorgia Meloni può permettersi quel “Non manderemo i soldati italiani in Ucraina”, a proposito di libertà.
E chissà se Carlo III, o qualcuno dei nostri attuali governanti, ha mai letto in vita sua l’eroe risorgimentale italiano Giuseppe Mazzini:
“Non v’è libertà dove una casta, una famiglia, un uomo si assuma il dominio sugli altri in virtù di un preteso diritto divino, in virtù di un privilegio derivato dalla nascita, o in virtù di ricchezza. La libertà dev’essere per tutti e davanti a tutti. Dio non delega la sovranità ad alcun individuo; quella parte di sovranità che può essere rappresentata sulla nostra terra è da Dio affidata all’Umanità, alle Nazioni, alla Società. Ed anche quella cessa e abbandona quelle frazioni collettive dell’Umanità, quand’esse non la dirigano al bene, all’adempimento del disegno provvidenziale.
Non esiste dunque Sovranità di diritto in alcuno; esiste una Sovranità dello scopo e degli atti che vi s’accostano. Gli atti e lo scopo verso cui camminano devono essere sottomessi al giudizio di tutti. Non v’è dunque né può esservi sovranità permanente. Quella istituzione che si chiama Governo non è se non una Direzione; una missione affidata ad alcuni per raggiungere più sollecitamente lo scopo della Nazione; e se quella missione è tradita, il potere di direzione affidato a quei pochi deve cessare. Ogni uomo chiamato al Governo è un amministratore del pensiero comune; deve essere eletto, e sottomesso a revoca ogni qualvolta lo fraintenda o deliberatamente lo combatta. Non può esistere dunque, ripeto, casta o famiglia che ottenga il Potere per diritto proprio, senza violazione della vostra libertà”.
L’Italia non è il suo governo o la sua subalternità all’euro-atlantismo, e nemmeno soltanto una immensa portaerei geopolitica piantata nel mediterraneo ad uso e consumo delle potenze imperiali pro tempore. l’Italia è molto di più, anche se quella che hanno geopoliticamente ingegnerizzato e realizzato con la violenza nel 1861 è tornata tragicamente vicina a quella di oggi, così apprezzata dai potenti, ma mal sopportata dai comuni residenti, per non aver mai seriamente affrontato collettivamente la sua Storia universale.
NOTE
1. Fëdor Dostoevskij, 1877, Diario di uno scrittore – Bompiani, 2007 – pp.925/926
2. “L’imbruttimento dell’Italia”, tratto da Il Libro Nero, Nuovo Diario di GOG, Vallecchi Editore, 1951
3. Pier Paolo Pasolini intervistato da Massimo Fini, L’antifascismo come genere di consumo, L’Europeo, 26 dicembre 1974