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Lorenzo Maria Pacini
March 29, 2025
© Photo: Public domain

In Europa, c’è dai tempi della Prima Guerra Mondiale c’è il detto che “i Balcani sono la polveriera d’Europa”. Purtroppo, quelle parole contengono ancora un fondo di verità.

Segue nostro Telegram.

Nuove tensioni fra Bosnia e Serbia

Il sistema politico disfunzionale della Bosnia, frutto degli accordi di Dayton del 1995 che hanno suddiviso il Paese in due entità governate congiuntamente da serbi, croati (a maggioranza cattolica) e musulmani, con una presidenza a rotazione sotto supervisione internazionale, sta inesorabilmente collassando. In Serbia le proteste contro la corruzione e per un cambio di regime proseguono da mesi, e quelle dello scorso fine settimana sono state le più imponenti fino ad oggi. Le immagini della marea umana che ha invaso le strade di Belgrado hanno fatto il giro del mondo in pochissimo tempo, gettando però anche molta confusione sugli eventi.

In Bosnia, le tensioni recenti sono scaturite dall’emissione di mandati di arresto da parte delle autorità centrali nei confronti del presidente della Republika Srpska  Milorad Dodik, del suo Primo Ministro e del Presidente del parlamento. I provvedimenti derivano dal loro rifiuto di conformarsi alle direttive dell’“alto rappresentante” Christian Schmidt, la cui nomina nel 2021 da parte dell’amministrazione Biden non è stata approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Di conseguenza, né Dodik né la Russia ne riconoscono l’autorità di questo signore, ritenendo che le sue richieste mirino a ridimensionare l’autonomia della Republika Srpska per favorire la centralizzazione dello Stato bosniaco a vantaggio politico della componente islamica.

Uno degli obiettivi principali di Schmidt sarebbe quello di eliminare il veto della Republika Srpska all’ingresso della Bosnia nella NATO, il che spiegherebbe la pressione internazionale su Dodik e il tentativo di rimuoverlo. Nonostante le divergenze tra le amministrazioni Biden e Trump, quest’ultima non sembra opporsi attivamente a questa strategia. Il Segretario di Stato Marco Rubio ha infatti accusato Dodik di minare la stabilità della Bosnia-Erzegovina, dichiarando che il Paese non dovrebbe frammentarsi; parallelamente, Dorothy Shea, incaricata d’affari statunitense all’ONU, ha espresso sostegno all’EUFOR (Forza dell’Unione Europea in Bosnia-Erzegovina), lasciando intendere la possibilità di un intervento contro la leadership della Republika Srpska. Niente di nuovo dal fronte atlantico occidentale.

In risposta a queste spiacevoli provocazioni, Dodik ha invitato Rubio al dialogo per esporre il punto di vista serbo e ha avanzato una proposta interessante: concedere alle aziende americane i diritti esclusivi per l’estrazione di minerali di terre rare della Republika Srpska, un affare dal valore stimato di 100 miliardi di dollari, che potrebbe attrarre l’attenzione del Potus, ed ha sottolineato che la politica statunitense nei Balcani è ancora influenzata dal cosiddetto Deep State, in particolare da elementi dell’ambasciata americana in Bosnia, storicamente ostili a Trump.

Non si può escludere un coinvolgimento britannico nelle tensioni bosniache, considerando che il Servizio Segreto Estero russo, l’SVR, ha recentemente denunciato il ruolo del Regno Unito nel sabotare la politica di Trump di riavvicinamento con la Russia, quasi in concomitanza con l’accusa che Nikolai Patrushev, consigliere di Putin, ha mosso verso Londra, dicendo che ha cercato di destabilizzare i Paesi baltici, lasciando intendere che potrebbe agire in modo simile nei Balcani.

In Serbia non se la passano meglio

La situazione in Serbia è altrettanto delicata. Il Paese è stato scosso dalle proteste, iniziate dopo un incidente ferroviario a Novi Sad lo scorso novembre, alimentate dal malcontento per la corruzione, con richieste di responsabilità che potrebbero sfociare in un cambio di governo. Il  movimento di protesta però è eterogeneo, comprendendo sia gruppi legati all’Occidente che nazionalisti serbi.

I liberali globalisti accusano il presidente Aleksandr Vucic di essere troppo filo-russo per non aver imposto sanzioni a Mosca, mentre i patrioti serbi lo considerano eccessivamente filo-occidentale per le sue posizioni ambigue su Kosovo, Russia e Ucraina. Vucic, dal canto suo, sostiene che le proteste contro di lui siano parte di una strategia occidentale per destabilizzarlo, e la Russia stessa avrebbe confermato un presunto complotto per un colpo di Stato contro di lui.

Nonostante le accuse di ingerenza occidentale, Vucic ha mantenuto una cooperazione con la NATO, firmando nel 2015 un accordo di “Partenariato per la pace” che consente all’Alleanza di transitare attraverso la Serbia e nell’agosto 2024, mentre affrontava proteste su larga scala, ha siglato un accordo da tre miliardi di dollari con la Francia per la fornitura di aerei da guerra, sollevando dubbi sulla reale ostilità dell’Occidente nei suoi confronti. In tutto ciò, gli Stati Uniti continuano ad esercitare pressioni su di lui tramite diversi canali.

Le tensioni in Bosnia e Serbia non sono scollegate: l’obiettivo occidentale sembra essere l’adesione della Bosnia alla NATO e il ridimensionamento dell’influenza russa nei Balcani. Se Trump non si opporrà alla politica attuale o non accetterà l’offerta di Dodik sulle terre rare, il rischio di un’escalation in Bosnia potrebbe aumentare.

Geopoliticamente parlando, la dottrina americana della divisione e del controllo continua ad avere la meglio nei Balcani, cercando di escludere qualsiasi possibile riunificazione di Bosnia e Serbia

L’unica possibilità per i serbi di migliorare la loro posizione sarà una stretta coordinazione tra la Serbia, la Republika Srpska e, se possibile, la Russia, per contrastare le pressioni occidentali e ottenere il miglior risultato possibile.

La NATO ne approfitta

In tutto ciò, la NATO non perde l’occasione di approfittarsene. Il Segretario Generale, Mark Rutte, ha dichiarato che le azioni della Republika Srpska sono inaccettabili e che gli Stati Uniti non offriranno alcun sostegno a Dodik, posizione ribadita anche dall’Ambasciata americana in Bosnia.

L’EUROFOR ha annunciato un rafforzamento del proprio contingente per far fronte alle crescenti tensioni, mandando i rinforzi via terra attraverso i valichi di Svilaj e Bijaca e via aerea all’aeroporto di Sarajevo. Un’ottima scusa per dispiegare un buon numero di soldati a guardia di quella che continua a sembrare, sempre di più, una rivoluzione colorata che vuole coinvolgere ben due Paesi.

Nonostante la crescente pressione internazionale, la Republika Srpska può contare non solo sul sostegno di Mosca e Belgrado, ma anche su quello diplomatico di Budapest e Bratislava, che hanno espresso il loro supporto per una risoluzione pacifica della situazione, evitando di partecipare alle velate minacce di carattere militare.

Il 10 marzo, il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate serbe, Milan Mojsilović, ha incontrato a Belgrado il suo omologo ungherese, Gábor Böröndi, ed hanno discusso assieme della sicurezza regionale e globale, nonché delle attività militari congiunte volte a rafforzare la stabilità nell’area. È stata ribadita l’intensità della cooperazione militare bilaterale, con l’intenzione di ampliarla ulteriormente. Particolare attenzione è stata rivolta alle operazioni congiunte tra le componenti terrestri e aeree dei due eserciti, nonché al contributo delle forze ungheresi alla missione internazionale di sicurezza in Kosovo e Metochia.

Appare chiaro che l’unico modo per la NATO di porre fine alla sovranità serbo-bosniaca sia quello di innescare un nuovo conflitto interno, utilizzando gruppi armati locali sulla falsariga di quanto avvenuto in Siria, oppure una sorta di Maidan sul modello ucraino del 2014.

Il rischio militare alimentato da KFOR

​La Kosovo Force (KFOR) è una missione internazionale guidata dalla NATO, istituita nel 1999 con l’obiettivo di garantire la sicurezza e la stabilità in Kosovo, in conformità con la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

All’inizio dell’operazione contava oltre 50.000 soldati provenienti da 20 Paesi membri della NATO e da nazioni partner. Nel tempo la presenza è stata ridotta. A marzo 2022, la KFOR era costituita da 3.770 soldati provenienti da 28 paesi contributori. ​

Per dare un’idea del tipo di dispiegamento, consideriamo che ci sono:

  • Regional Command West (RC-W): unità con base presso “Villaggio Italia” vicino alla città di Pec/Peja, attualmente costituita dal 62° Reggimento Fanteria “Sicilia” della Brigata “Aosta”. Il RC-W include anche militari di Albania, Bulgaria, Croazia, Macedonia del Nord, Polonia, Turchia, Austria, Moldavia e Svizzera. ​
  • Multinational Specialized Unit (MSU): situata a Pristina e comandata dal Colonnello dell’Arma dei Carabinieri Massimo Rosati, questa unità altamente specializzata dell’Arma dei Carabinieri è presente in Kosovo sin dall’inizio della missione nel 1999. Il reggimento è stato impiegato principalmente nella zona nord del paese, caratterizzata da una forte presenza di popolazione di etnia serba, in particolare nella città di Mitrovica.

Le principali attività operative della KFOR includono:​

  • Pattugliamenti e presenza sul territorio kosovaro attraverso pattugliamenti regolari;
  • L’attività dei Liaison Monitoring Teams (LMT), che hanno il compito di assicurare un continuo contatto con la popolazione locale, le istituzioni governative, le organizzazioni nazionali e internazionali, i partiti politici e i rappresentanti delle diverse etnie e religioni presenti sul territorio. L’obiettivo è acquisire informazioni utili al comando KFOR per lo svolgimento della missione;
  • Il supporto alle istituzioni locali, in ottima di non cessione alle richieste della Serbia.

Si tratta di forze dispiegate e pronte ad intervenire. Questo è un dettaglio che deve essere tenuto in considerazione. La strategicità di quella zona chiave dei Balcani non viene lasciata in secondo piano dalla NATO.

Messi così alle strette, ai governi di Serbia e Republika Srpska non resta molta scelta: dovranno confrontarsi presto con scelte difficili, che potrebbero significare un radicale cambiamento dell’aspetto dei Balcani.

Insomma, siamo di nuovo davanti al rischio di vedere i Balcani scoppiare, come avvenne poco più di 100 anni fa. Chi sarà stavolta il responsabile dell’esplosione?

La Serbia fra destabilizzazione politica e nuovo fronte militare sui Balcani

In Europa, c’è dai tempi della Prima Guerra Mondiale c’è il detto che “i Balcani sono la polveriera d’Europa”. Purtroppo, quelle parole contengono ancora un fondo di verità.

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Nuove tensioni fra Bosnia e Serbia

Il sistema politico disfunzionale della Bosnia, frutto degli accordi di Dayton del 1995 che hanno suddiviso il Paese in due entità governate congiuntamente da serbi, croati (a maggioranza cattolica) e musulmani, con una presidenza a rotazione sotto supervisione internazionale, sta inesorabilmente collassando. In Serbia le proteste contro la corruzione e per un cambio di regime proseguono da mesi, e quelle dello scorso fine settimana sono state le più imponenti fino ad oggi. Le immagini della marea umana che ha invaso le strade di Belgrado hanno fatto il giro del mondo in pochissimo tempo, gettando però anche molta confusione sugli eventi.

In Bosnia, le tensioni recenti sono scaturite dall’emissione di mandati di arresto da parte delle autorità centrali nei confronti del presidente della Republika Srpska  Milorad Dodik, del suo Primo Ministro e del Presidente del parlamento. I provvedimenti derivano dal loro rifiuto di conformarsi alle direttive dell’“alto rappresentante” Christian Schmidt, la cui nomina nel 2021 da parte dell’amministrazione Biden non è stata approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Di conseguenza, né Dodik né la Russia ne riconoscono l’autorità di questo signore, ritenendo che le sue richieste mirino a ridimensionare l’autonomia della Republika Srpska per favorire la centralizzazione dello Stato bosniaco a vantaggio politico della componente islamica.

Uno degli obiettivi principali di Schmidt sarebbe quello di eliminare il veto della Republika Srpska all’ingresso della Bosnia nella NATO, il che spiegherebbe la pressione internazionale su Dodik e il tentativo di rimuoverlo. Nonostante le divergenze tra le amministrazioni Biden e Trump, quest’ultima non sembra opporsi attivamente a questa strategia. Il Segretario di Stato Marco Rubio ha infatti accusato Dodik di minare la stabilità della Bosnia-Erzegovina, dichiarando che il Paese non dovrebbe frammentarsi; parallelamente, Dorothy Shea, incaricata d’affari statunitense all’ONU, ha espresso sostegno all’EUFOR (Forza dell’Unione Europea in Bosnia-Erzegovina), lasciando intendere la possibilità di un intervento contro la leadership della Republika Srpska. Niente di nuovo dal fronte atlantico occidentale.

In risposta a queste spiacevoli provocazioni, Dodik ha invitato Rubio al dialogo per esporre il punto di vista serbo e ha avanzato una proposta interessante: concedere alle aziende americane i diritti esclusivi per l’estrazione di minerali di terre rare della Republika Srpska, un affare dal valore stimato di 100 miliardi di dollari, che potrebbe attrarre l’attenzione del Potus, ed ha sottolineato che la politica statunitense nei Balcani è ancora influenzata dal cosiddetto Deep State, in particolare da elementi dell’ambasciata americana in Bosnia, storicamente ostili a Trump.

Non si può escludere un coinvolgimento britannico nelle tensioni bosniache, considerando che il Servizio Segreto Estero russo, l’SVR, ha recentemente denunciato il ruolo del Regno Unito nel sabotare la politica di Trump di riavvicinamento con la Russia, quasi in concomitanza con l’accusa che Nikolai Patrushev, consigliere di Putin, ha mosso verso Londra, dicendo che ha cercato di destabilizzare i Paesi baltici, lasciando intendere che potrebbe agire in modo simile nei Balcani.

In Serbia non se la passano meglio

La situazione in Serbia è altrettanto delicata. Il Paese è stato scosso dalle proteste, iniziate dopo un incidente ferroviario a Novi Sad lo scorso novembre, alimentate dal malcontento per la corruzione, con richieste di responsabilità che potrebbero sfociare in un cambio di governo. Il  movimento di protesta però è eterogeneo, comprendendo sia gruppi legati all’Occidente che nazionalisti serbi.

I liberali globalisti accusano il presidente Aleksandr Vucic di essere troppo filo-russo per non aver imposto sanzioni a Mosca, mentre i patrioti serbi lo considerano eccessivamente filo-occidentale per le sue posizioni ambigue su Kosovo, Russia e Ucraina. Vucic, dal canto suo, sostiene che le proteste contro di lui siano parte di una strategia occidentale per destabilizzarlo, e la Russia stessa avrebbe confermato un presunto complotto per un colpo di Stato contro di lui.

Nonostante le accuse di ingerenza occidentale, Vucic ha mantenuto una cooperazione con la NATO, firmando nel 2015 un accordo di “Partenariato per la pace” che consente all’Alleanza di transitare attraverso la Serbia e nell’agosto 2024, mentre affrontava proteste su larga scala, ha siglato un accordo da tre miliardi di dollari con la Francia per la fornitura di aerei da guerra, sollevando dubbi sulla reale ostilità dell’Occidente nei suoi confronti. In tutto ciò, gli Stati Uniti continuano ad esercitare pressioni su di lui tramite diversi canali.

Le tensioni in Bosnia e Serbia non sono scollegate: l’obiettivo occidentale sembra essere l’adesione della Bosnia alla NATO e il ridimensionamento dell’influenza russa nei Balcani. Se Trump non si opporrà alla politica attuale o non accetterà l’offerta di Dodik sulle terre rare, il rischio di un’escalation in Bosnia potrebbe aumentare.

Geopoliticamente parlando, la dottrina americana della divisione e del controllo continua ad avere la meglio nei Balcani, cercando di escludere qualsiasi possibile riunificazione di Bosnia e Serbia

L’unica possibilità per i serbi di migliorare la loro posizione sarà una stretta coordinazione tra la Serbia, la Republika Srpska e, se possibile, la Russia, per contrastare le pressioni occidentali e ottenere il miglior risultato possibile.

La NATO ne approfitta

In tutto ciò, la NATO non perde l’occasione di approfittarsene. Il Segretario Generale, Mark Rutte, ha dichiarato che le azioni della Republika Srpska sono inaccettabili e che gli Stati Uniti non offriranno alcun sostegno a Dodik, posizione ribadita anche dall’Ambasciata americana in Bosnia.

L’EUROFOR ha annunciato un rafforzamento del proprio contingente per far fronte alle crescenti tensioni, mandando i rinforzi via terra attraverso i valichi di Svilaj e Bijaca e via aerea all’aeroporto di Sarajevo. Un’ottima scusa per dispiegare un buon numero di soldati a guardia di quella che continua a sembrare, sempre di più, una rivoluzione colorata che vuole coinvolgere ben due Paesi.

Nonostante la crescente pressione internazionale, la Republika Srpska può contare non solo sul sostegno di Mosca e Belgrado, ma anche su quello diplomatico di Budapest e Bratislava, che hanno espresso il loro supporto per una risoluzione pacifica della situazione, evitando di partecipare alle velate minacce di carattere militare.

Il 10 marzo, il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate serbe, Milan Mojsilović, ha incontrato a Belgrado il suo omologo ungherese, Gábor Böröndi, ed hanno discusso assieme della sicurezza regionale e globale, nonché delle attività militari congiunte volte a rafforzare la stabilità nell’area. È stata ribadita l’intensità della cooperazione militare bilaterale, con l’intenzione di ampliarla ulteriormente. Particolare attenzione è stata rivolta alle operazioni congiunte tra le componenti terrestri e aeree dei due eserciti, nonché al contributo delle forze ungheresi alla missione internazionale di sicurezza in Kosovo e Metochia.

Appare chiaro che l’unico modo per la NATO di porre fine alla sovranità serbo-bosniaca sia quello di innescare un nuovo conflitto interno, utilizzando gruppi armati locali sulla falsariga di quanto avvenuto in Siria, oppure una sorta di Maidan sul modello ucraino del 2014.

Il rischio militare alimentato da KFOR

​La Kosovo Force (KFOR) è una missione internazionale guidata dalla NATO, istituita nel 1999 con l’obiettivo di garantire la sicurezza e la stabilità in Kosovo, in conformità con la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

All’inizio dell’operazione contava oltre 50.000 soldati provenienti da 20 Paesi membri della NATO e da nazioni partner. Nel tempo la presenza è stata ridotta. A marzo 2022, la KFOR era costituita da 3.770 soldati provenienti da 28 paesi contributori. ​

Per dare un’idea del tipo di dispiegamento, consideriamo che ci sono:

  • Regional Command West (RC-W): unità con base presso “Villaggio Italia” vicino alla città di Pec/Peja, attualmente costituita dal 62° Reggimento Fanteria “Sicilia” della Brigata “Aosta”. Il RC-W include anche militari di Albania, Bulgaria, Croazia, Macedonia del Nord, Polonia, Turchia, Austria, Moldavia e Svizzera. ​
  • Multinational Specialized Unit (MSU): situata a Pristina e comandata dal Colonnello dell’Arma dei Carabinieri Massimo Rosati, questa unità altamente specializzata dell’Arma dei Carabinieri è presente in Kosovo sin dall’inizio della missione nel 1999. Il reggimento è stato impiegato principalmente nella zona nord del paese, caratterizzata da una forte presenza di popolazione di etnia serba, in particolare nella città di Mitrovica.

Le principali attività operative della KFOR includono:​

  • Pattugliamenti e presenza sul territorio kosovaro attraverso pattugliamenti regolari;
  • L’attività dei Liaison Monitoring Teams (LMT), che hanno il compito di assicurare un continuo contatto con la popolazione locale, le istituzioni governative, le organizzazioni nazionali e internazionali, i partiti politici e i rappresentanti delle diverse etnie e religioni presenti sul territorio. L’obiettivo è acquisire informazioni utili al comando KFOR per lo svolgimento della missione;
  • Il supporto alle istituzioni locali, in ottima di non cessione alle richieste della Serbia.

Si tratta di forze dispiegate e pronte ad intervenire. Questo è un dettaglio che deve essere tenuto in considerazione. La strategicità di quella zona chiave dei Balcani non viene lasciata in secondo piano dalla NATO.

Messi così alle strette, ai governi di Serbia e Republika Srpska non resta molta scelta: dovranno confrontarsi presto con scelte difficili, che potrebbero significare un radicale cambiamento dell’aspetto dei Balcani.

Insomma, siamo di nuovo davanti al rischio di vedere i Balcani scoppiare, come avvenne poco più di 100 anni fa. Chi sarà stavolta il responsabile dell’esplosione?

In Europa, c’è dai tempi della Prima Guerra Mondiale c’è il detto che “i Balcani sono la polveriera d’Europa”. Purtroppo, quelle parole contengono ancora un fondo di verità.

Segue nostro Telegram.

Nuove tensioni fra Bosnia e Serbia

Il sistema politico disfunzionale della Bosnia, frutto degli accordi di Dayton del 1995 che hanno suddiviso il Paese in due entità governate congiuntamente da serbi, croati (a maggioranza cattolica) e musulmani, con una presidenza a rotazione sotto supervisione internazionale, sta inesorabilmente collassando. In Serbia le proteste contro la corruzione e per un cambio di regime proseguono da mesi, e quelle dello scorso fine settimana sono state le più imponenti fino ad oggi. Le immagini della marea umana che ha invaso le strade di Belgrado hanno fatto il giro del mondo in pochissimo tempo, gettando però anche molta confusione sugli eventi.

In Bosnia, le tensioni recenti sono scaturite dall’emissione di mandati di arresto da parte delle autorità centrali nei confronti del presidente della Republika Srpska  Milorad Dodik, del suo Primo Ministro e del Presidente del parlamento. I provvedimenti derivano dal loro rifiuto di conformarsi alle direttive dell’“alto rappresentante” Christian Schmidt, la cui nomina nel 2021 da parte dell’amministrazione Biden non è stata approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Di conseguenza, né Dodik né la Russia ne riconoscono l’autorità di questo signore, ritenendo che le sue richieste mirino a ridimensionare l’autonomia della Republika Srpska per favorire la centralizzazione dello Stato bosniaco a vantaggio politico della componente islamica.

Uno degli obiettivi principali di Schmidt sarebbe quello di eliminare il veto della Republika Srpska all’ingresso della Bosnia nella NATO, il che spiegherebbe la pressione internazionale su Dodik e il tentativo di rimuoverlo. Nonostante le divergenze tra le amministrazioni Biden e Trump, quest’ultima non sembra opporsi attivamente a questa strategia. Il Segretario di Stato Marco Rubio ha infatti accusato Dodik di minare la stabilità della Bosnia-Erzegovina, dichiarando che il Paese non dovrebbe frammentarsi; parallelamente, Dorothy Shea, incaricata d’affari statunitense all’ONU, ha espresso sostegno all’EUFOR (Forza dell’Unione Europea in Bosnia-Erzegovina), lasciando intendere la possibilità di un intervento contro la leadership della Republika Srpska. Niente di nuovo dal fronte atlantico occidentale.

In risposta a queste spiacevoli provocazioni, Dodik ha invitato Rubio al dialogo per esporre il punto di vista serbo e ha avanzato una proposta interessante: concedere alle aziende americane i diritti esclusivi per l’estrazione di minerali di terre rare della Republika Srpska, un affare dal valore stimato di 100 miliardi di dollari, che potrebbe attrarre l’attenzione del Potus, ed ha sottolineato che la politica statunitense nei Balcani è ancora influenzata dal cosiddetto Deep State, in particolare da elementi dell’ambasciata americana in Bosnia, storicamente ostili a Trump.

Non si può escludere un coinvolgimento britannico nelle tensioni bosniache, considerando che il Servizio Segreto Estero russo, l’SVR, ha recentemente denunciato il ruolo del Regno Unito nel sabotare la politica di Trump di riavvicinamento con la Russia, quasi in concomitanza con l’accusa che Nikolai Patrushev, consigliere di Putin, ha mosso verso Londra, dicendo che ha cercato di destabilizzare i Paesi baltici, lasciando intendere che potrebbe agire in modo simile nei Balcani.

In Serbia non se la passano meglio

La situazione in Serbia è altrettanto delicata. Il Paese è stato scosso dalle proteste, iniziate dopo un incidente ferroviario a Novi Sad lo scorso novembre, alimentate dal malcontento per la corruzione, con richieste di responsabilità che potrebbero sfociare in un cambio di governo. Il  movimento di protesta però è eterogeneo, comprendendo sia gruppi legati all’Occidente che nazionalisti serbi.

I liberali globalisti accusano il presidente Aleksandr Vucic di essere troppo filo-russo per non aver imposto sanzioni a Mosca, mentre i patrioti serbi lo considerano eccessivamente filo-occidentale per le sue posizioni ambigue su Kosovo, Russia e Ucraina. Vucic, dal canto suo, sostiene che le proteste contro di lui siano parte di una strategia occidentale per destabilizzarlo, e la Russia stessa avrebbe confermato un presunto complotto per un colpo di Stato contro di lui.

Nonostante le accuse di ingerenza occidentale, Vucic ha mantenuto una cooperazione con la NATO, firmando nel 2015 un accordo di “Partenariato per la pace” che consente all’Alleanza di transitare attraverso la Serbia e nell’agosto 2024, mentre affrontava proteste su larga scala, ha siglato un accordo da tre miliardi di dollari con la Francia per la fornitura di aerei da guerra, sollevando dubbi sulla reale ostilità dell’Occidente nei suoi confronti. In tutto ciò, gli Stati Uniti continuano ad esercitare pressioni su di lui tramite diversi canali.

Le tensioni in Bosnia e Serbia non sono scollegate: l’obiettivo occidentale sembra essere l’adesione della Bosnia alla NATO e il ridimensionamento dell’influenza russa nei Balcani. Se Trump non si opporrà alla politica attuale o non accetterà l’offerta di Dodik sulle terre rare, il rischio di un’escalation in Bosnia potrebbe aumentare.

Geopoliticamente parlando, la dottrina americana della divisione e del controllo continua ad avere la meglio nei Balcani, cercando di escludere qualsiasi possibile riunificazione di Bosnia e Serbia

L’unica possibilità per i serbi di migliorare la loro posizione sarà una stretta coordinazione tra la Serbia, la Republika Srpska e, se possibile, la Russia, per contrastare le pressioni occidentali e ottenere il miglior risultato possibile.

La NATO ne approfitta

In tutto ciò, la NATO non perde l’occasione di approfittarsene. Il Segretario Generale, Mark Rutte, ha dichiarato che le azioni della Republika Srpska sono inaccettabili e che gli Stati Uniti non offriranno alcun sostegno a Dodik, posizione ribadita anche dall’Ambasciata americana in Bosnia.

L’EUROFOR ha annunciato un rafforzamento del proprio contingente per far fronte alle crescenti tensioni, mandando i rinforzi via terra attraverso i valichi di Svilaj e Bijaca e via aerea all’aeroporto di Sarajevo. Un’ottima scusa per dispiegare un buon numero di soldati a guardia di quella che continua a sembrare, sempre di più, una rivoluzione colorata che vuole coinvolgere ben due Paesi.

Nonostante la crescente pressione internazionale, la Republika Srpska può contare non solo sul sostegno di Mosca e Belgrado, ma anche su quello diplomatico di Budapest e Bratislava, che hanno espresso il loro supporto per una risoluzione pacifica della situazione, evitando di partecipare alle velate minacce di carattere militare.

Il 10 marzo, il Capo di Stato Maggiore delle Forze Armate serbe, Milan Mojsilović, ha incontrato a Belgrado il suo omologo ungherese, Gábor Böröndi, ed hanno discusso assieme della sicurezza regionale e globale, nonché delle attività militari congiunte volte a rafforzare la stabilità nell’area. È stata ribadita l’intensità della cooperazione militare bilaterale, con l’intenzione di ampliarla ulteriormente. Particolare attenzione è stata rivolta alle operazioni congiunte tra le componenti terrestri e aeree dei due eserciti, nonché al contributo delle forze ungheresi alla missione internazionale di sicurezza in Kosovo e Metochia.

Appare chiaro che l’unico modo per la NATO di porre fine alla sovranità serbo-bosniaca sia quello di innescare un nuovo conflitto interno, utilizzando gruppi armati locali sulla falsariga di quanto avvenuto in Siria, oppure una sorta di Maidan sul modello ucraino del 2014.

Il rischio militare alimentato da KFOR

​La Kosovo Force (KFOR) è una missione internazionale guidata dalla NATO, istituita nel 1999 con l’obiettivo di garantire la sicurezza e la stabilità in Kosovo, in conformità con la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

All’inizio dell’operazione contava oltre 50.000 soldati provenienti da 20 Paesi membri della NATO e da nazioni partner. Nel tempo la presenza è stata ridotta. A marzo 2022, la KFOR era costituita da 3.770 soldati provenienti da 28 paesi contributori. ​

Per dare un’idea del tipo di dispiegamento, consideriamo che ci sono:

  • Regional Command West (RC-W): unità con base presso “Villaggio Italia” vicino alla città di Pec/Peja, attualmente costituita dal 62° Reggimento Fanteria “Sicilia” della Brigata “Aosta”. Il RC-W include anche militari di Albania, Bulgaria, Croazia, Macedonia del Nord, Polonia, Turchia, Austria, Moldavia e Svizzera. ​
  • Multinational Specialized Unit (MSU): situata a Pristina e comandata dal Colonnello dell’Arma dei Carabinieri Massimo Rosati, questa unità altamente specializzata dell’Arma dei Carabinieri è presente in Kosovo sin dall’inizio della missione nel 1999. Il reggimento è stato impiegato principalmente nella zona nord del paese, caratterizzata da una forte presenza di popolazione di etnia serba, in particolare nella città di Mitrovica.

Le principali attività operative della KFOR includono:​

  • Pattugliamenti e presenza sul territorio kosovaro attraverso pattugliamenti regolari;
  • L’attività dei Liaison Monitoring Teams (LMT), che hanno il compito di assicurare un continuo contatto con la popolazione locale, le istituzioni governative, le organizzazioni nazionali e internazionali, i partiti politici e i rappresentanti delle diverse etnie e religioni presenti sul territorio. L’obiettivo è acquisire informazioni utili al comando KFOR per lo svolgimento della missione;
  • Il supporto alle istituzioni locali, in ottima di non cessione alle richieste della Serbia.

Si tratta di forze dispiegate e pronte ad intervenire. Questo è un dettaglio che deve essere tenuto in considerazione. La strategicità di quella zona chiave dei Balcani non viene lasciata in secondo piano dalla NATO.

Messi così alle strette, ai governi di Serbia e Republika Srpska non resta molta scelta: dovranno confrontarsi presto con scelte difficili, che potrebbero significare un radicale cambiamento dell’aspetto dei Balcani.

Insomma, siamo di nuovo davanti al rischio di vedere i Balcani scoppiare, come avvenne poco più di 100 anni fa. Chi sarà stavolta il responsabile dell’esplosione?

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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