Stiamo assistendo ad una veloce trasformazione delle geometrie del potere in Europa, una cambiamento che apre spiragli di liberazione dal giogo esterno, da un lato, mentre dall’altro paventa un inasprimento della sottomissione.
Stiamo assistendo ad una veloce trasformazione delle geometrie del potere in Europa, una cambiamento che apre spiragli di liberazione dal giogo esterno, da un lato, mentre dall’altro paventa un inasprimento della sottomissione. L’Unione Europea lancia l’allarme e invoca la guerra, proponendo azioni condivise, cooperazione militare per un esercito europeo, una intelligenze europea, il tutto per la modica cifra di 800 miliardi di euro, che ovviamente non ci sono e quindi dovranno essere presi dai contribuenti. Ma è davvero così realizzabile il progetto di una difesa comune europea?
Il (cattivo) esempio italiano
Cominciamo con l’Italia.
Il rapporto militare tra gli Stati Uniti e l’Europa è simile a quello finanziario tra l’Italia e l’Unione Europea: entrambi rappresentano un caso di azzardo morale, che genera fenomeni di parassitismo (free riding) da parte dell’elemento più debole (Europa e Italia), a causa della scarsa credibilità della parte più forte (Usa e Ue). Entrambe le dinamiche possono essere interpretate in termini di credibilità, coerenza temporale e azzardo morale: la teoria economica fornisce strumenti essenziali per l’analisi.
L’Italia è un Paese in stagnazione economica da decenni (sich!), gravato da un elevato debito pubblico, che riesce a sostenersi solo perché le istituzioni europee mantengono basso il costo del finanziamento. Senza l’intervento di Bruxelles e Francoforte, i tassi d’interesse salirebbero, si verificherebbe una fuga di capitali e il sistema clientelare che caratterizza il Paese collasserebbe: l’Italia sarebbe obbligata a scegliere tra riforme profonde e rapide o il default. Eppure, finché l’euro continuerà a garantire la solvibilità del debito italiano, questo scenario non si concretizzerà: la cattiva gestione politica potrà perpetuarsi attraverso il voto di scambio, senza incentivi a rendere sostenibili i conti pubblici o a rilanciare la crescita.
Una domanda da porsi a questo punto della discussione è quanto l’euro sia mantenuto in vita artificialmente, ma non è questo il momento per trattare l’argomento.
L’Europa, ovviamente, ne subisce le conseguenze. L’Eurozona non può contrastare l’inflazione in modo deciso senza far salire troppo i tassi d’interesse, perché ciò metterebbe a rischio la tenuta dei Paesi più fragili, come l’Italia. Di conseguenza, i cittadini europei devono accettare una perdita di potere d’acquisto. Inoltre, per oltre un decennio dopo il 2000, molti Paesi hanno beneficiato di afflussi di capitale a condizioni agevolate per finanziare spese clientelari o alimentare bolle speculative, dissipando miliardi in prepensionamenti invece di investire in infrastrutture tecnologiche, come data center per l’intelligenza artificiale.
L’euro, in sostanza, manca di credibilità: qualsiasi tentativo di imporre condizioni all’Italia si scontra con la sua capacità di rinviare le riforme, contando sul fatto che l’Eurozona continuerà ad acquistare titoli di Stato italiani. L’euro nasceva già con un deficit di credibilità: quando si decise l’ingresso dell’Italia, gli spread sui titoli di Stato italiani e di altri Paesi periferici si azzerarono, nonostante l’esistenza della clausola di “no bail-out” (che nessuno ha mai preso sul serio). I mercati sapevano che, in caso di crisi, l’Europa sarebbe intervenuta, e quindi non avevano motivo di prezzare il rischio-Italia. Da qui si è sviluppata la crisi dell’Eurozona, dal 1999 a oggi.
Ma in che modo questo si collega alla relazione tra Stati Uniti ed Europa? Se nel caso dell’euro il meccanismo dell’azzardo morale è legato alla politica monetaria, nel rapporto transatlantico esso deriva dalla protezione militare. L’Europa ha potuto permettersi di ridurre al minimo le proprie capacità di difesa perché, dal 1945 in poi, tutti i principali problemi di sicurezza sono stati risolti dagli Stati Uniti. Dopo il 1990, la situazione è ulteriormente peggiorata: i Paesi europei hanno smantellato gran parte delle loro forze armate per risparmiare qualche punto percentuale di PIL, destinando le risorse a spese clientelari o a politiche discutibili, come la transizione energetica e l’antinuclearismo.
Gli Stati Uniti possono criticare la scarsa capacità militare degli alleati europei, ma hanno pochi margini di manovra per cambiare la situazione: se minacciassero seriamente di non difendere l’Europa, rischierebbero di perdere influenza sul continente, lasciando spazio ad altre potenze, regionali (Russia) o globali (Cina). Di conseguenza, anche se personaggi come Trump possono lamentarsi dei budget militari europei, risolvere il problema è un’altra questione.
In entrambe le situazioni esiste anche un tema di controllo. Finché l’Italia dipenderà da aiuti e garanzie europee, i governi italiani resteranno deboli e subordinati. Potranno accettare la supervisione europea con rassegnazione, come mendicanti disciplinati, o con risentimento, come mendicanti ingrati, ma non potranno mai realmente opporsi. L’europeismo e l’antieuropeismo italiani sono due manifestazioni dello stesso atteggiamento opportunistico: l’Europa viene vista come uno strumento per mantenere lo status quo e finanziare la cattiva amministrazione.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il loro soft e hard power sull’Europa è ancora più marcato: i Paesi dell’Europa orientale sanno che solo Washington può offrire una protezione credibile contro la Russia, mentre l’industria europea dipende dalle tecnologie americane, dai semiconduttori agli aerei da combattimento, rendendo inevitabile l’acquisto di prodotti statunitensi.
Le scelte diplomatiche degli Stati europei devono quindi tener conto di questa condizione di dipendenza. In teoria, l’Europa potrebbe investire maggiormente nella difesa, se volesse, ma la sicurezza dell’Ucraina dipende comunque dagli arsenali statunitensi.
Infine, la relazione di dipendenza genera anche un problema di corruzione intellettuale, ancora prima che morale. In Italia si è diffusa la convinzione che il deficit sia la soluzione a tutti i problemi, come in un’economia assistita, perché si dà per scontato che alla fine pagherà Bruxelles. In Europa, si pensa che la politica estera possa essere gestita con buone intenzioni, tribunali internazionali e trattati sulle armi vietate, evitando di affrontare la realtà: la deterrenza militare è l’unico strumento efficace per influenzare un avversario. Così, in Italia si considera il parassitismo finanziario un diritto acquisito, mentre in Europa si rifiuta l’idea che la guerra, in certi casi, possa essere necessaria: ma non esiste maturità senza assunzione di responsabilità.
In conclusione, i due problemi sono quasi speculari. Tuttavia, mentre creare un apparato militare adeguato per i Paesi europei richiederebbe solo un modesto aumento della spesa pubblica (1-2 punti di PIL l’anno), risolvere la fragilità finanziaria e l’arretramento economico dell’Italia è una sfida molto più complessa. Probabilmente, il parassitismo militare europeo verrà ridimensionato, ma il parassitismo finanziario italiano è destinato a persistere.
La spesa europea per la difesa
Negli ultimi anni, la spesa per la difesa dei Paesi europei ha registrato un incremento significativo, riflettendo le crescenti preoccupazioni legate alla sicurezza internazionale e alle tensioni geopolitiche. Questo report analizza l’andamento dei bilanci per la difesa in Europa, evidenziando dati chiave e tendenze recenti.
Tra il 2021 e il 2024, la spesa totale per la difesa degli Stati membri dell’Unione Europea (UE) è aumentata di oltre il 30%, raggiungendo una quota stimata di 326 miliardi di euro nel 2024.
Questo incremento è attribuibile principalmente alla necessità di affrontare nuove sfide alla sicurezza, in particolare in seguito all’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. L’aumento della spesa militare è stato particolarmente marcato nel 2024, con una crescita del 17,9% rispetto all’anno precedente.
Secondo un’analisi dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, nel 2024 la spesa militare aggregata dei Paesi europei, secondo la definizione NATO e a parità di potere d’acquisto, è stata di 730 miliardi di dollari internazionali, superando del 58% la spesa russa, stimata a 462 miliardi di dollari internazionali. Anche considerando solo i Paesi dell’UE, la spesa militare ha raggiunto 547,5 miliardi di dollari internazionali, pari all’1,95% del PIL, risultando comunque superiore del 18,6% rispetto a quella russa.
Nonostante l’obiettivo della NATO di destinare il 2% del PIL alla difesa, solo quattro Paesi europei membri dell’Alleanza hanno superato questa soglia nel 2024: Polonia, Lettonia, Estonia e Grecia, con percentuali superiori al 3% del PIL.
In media, la spesa per la difesa nell’UE è stata pari all’1,3% del PIL nel 2021, con una previsione di raggiungere il 2% nel 2024.
In risposta alle crescenti esigenze di sicurezza, la Commissione Europea ha proposto un piano per mobilitare fino a 800 miliardi di euro per il riarmo europeo nei prossimi quattro anni. Questo piano prevede un mix di finanziamenti nazionali e un nuovo strumento che fornirà 150 miliardi di euro in prestiti agli Stati membri, utilizzabili anche per sostenere l’Ucraina.
L’obiettivo è rafforzare le capacità difensive dell’UE, promuovendo l’acquisto congiunto di attrezzature militari e migliorando l’interoperabilità tra gli Stati membri.
Nonostante gli sforzi per promuovere l’acquisizione collaborativa di attrezzature militari, gli Stati membri continuano a rifornirsi prevalentemente su base nazionale. Nel 2020, la spesa per approvvigionamenti militari condotti in un quadro europeo è stata di 4,1 miliardi di euro, con una diminuzione del 13% rispetto al 2019.
Per incentivare la collaborazione, l’UE ha istituito il Fondo Europeo per la Difesa, con un bilancio totale di 8 miliardi di euro per il periodo 2021-2027, di cui 2,7 miliardi destinati al finanziamento della ricerca e 5,3 miliardi allo sviluppo di capacità militari.
Nonostante l’aumento della spesa militare, l’Europa deve affrontare diverse sfide. La frammentazione degli investimenti e la mancanza di coordinamento tra gli Stati membri possono portare a inefficienze e alla duplicazione degli sforzi. Inoltre, la dipendenza dalle capacità militari statunitensi evidenzia la necessità di rafforzare l’autonomia strategica dell’UE. Uno studio condotto dagli istituti Bruegel e Kiel ha stimato che, per difendersi dalla Russia senza l’aiuto degli Stati Uniti, l’UE e il Regno Unito avrebbero bisogno di 300.000 effettivi aggiuntivi e di un aumento della spesa annuale per la difesa di 250 miliardi di euro, portando la spesa totale al 3,5-4% del PIL europeo.
Si comprende come la spesa per la difesa dei Paesi europei è in costante aumento, riflettendo le mutate esigenze di sicurezza. Tuttavia, per garantire un’efficace difesa collettiva, è essenziale migliorare il coordinamento degli investimenti, promuovere la collaborazione nell’acquisizione di attrezzature e rafforzare l’industria della difesa europea. Le recenti iniziative dell’UE rappresentano passi importanti in questa direzione, ma la loro efficacia dipenderà dall’impegno e dalla cooperazione degli Stati membri.
L’ambizioso progetto di un Esercito Unico Europeo
Come ha brillantemente spiegato l’analista geoeconomico Giacomo Gabellini, autore per Strategic Culture Foundation, l’argomento è più complesso di quello che si è soliti ritenere.
L’idea di un esercito europeo ha origini lontane, risalenti ai primi anni Cinquanta, quando il continente si trovava diviso tra i due blocchi della Guerra Fredda e si iniziava a discutere di una possibile difesa comune. In quel contesto storico e politico, Germania e Italia furono tra i principali promotori di una tale iniziativa, con la speranza di rafforzare la sicurezza europea senza dover dipendere esclusivamente dagli Stati Uniti e dalla NATO. Questa prospettiva, però, incontrò una resistenza insormontabile da parte della Francia, che temeva che un riarmo tedesco potesse minare il suo ruolo di potenza dominante nel continente.
La Francia, che nel dopoguerra aveva saputo collocarsi tra i vincitori, aveva tutto l’interesse a mantenere un equilibrio che le fosse favorevole; di conseguenza, la sua strategia consisteva nell’impedire alla Germania di riconquistare una posizione militare significativa, promuovendo invece un modello di difesa in cui Parigi avrebbe mantenuto un ruolo preminente. Tale dinamica si rifletteva anche nei rapporti con gli Stati Uniti: Washington, pur avendo sostenuto la ricostruzione economica della Germania con il Piano Marshall, vedeva con preoccupazione l’eventuale rinascita di una potenza tedesca indipendente. Non a caso, il primo segretario generale della NATO, Lord Ismay, sintetizzò la funzione dell’Alleanza con una frase emblematica: “Tenere fuori i russi, dentro gli americani e sotto i tedeschi” – frase diventata un po’ il motto occulto della UE.
Per tutta la Guerra Fredda, la Francia si adoperò per mantenere la propria superiorità rispetto alla Germania in ambito militare. Tuttavia, con l’ascesa di Charles de Gaulle, la strategia francese subì una svolta: sebbene il generale criticò aspramente l’alleanza con gli Stati Uniti e il Regno Unito, promosse al tempo stesso un’Europa più autonoma, fondata su un asse franco-tedesco in cui la Francia avrebbe comunque detenuto la leadership. Per garantire questa sovranità, Parigi sviluppò la propria forza nucleare indipendente, la force de frappe, e si distaccò progressivamente dalla NATO, fino a ritirarsi dal comando integrato dell’Alleanza nel 1966.
Tuttavia, negli anni Settanta, il progetto di un’Europa militarmente autonoma perse slancio. La stabilità garantita dalla NATO e la crescente integrazione economica portarono i principali partiti politici europei a concentrarsi su altre priorità, relegando la questione della difesa comune a un ruolo marginale. Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991, la questione riemerse con forza: se il principale avversario non esisteva più, a cosa serviva la NATO? Tra i primi a porsi questa domanda fu il leader italiano Giulio Andreotti, che propose lo scioglimento dell’Alleanza, sostenendo che essa aveva ormai esaurito il suo scopo. Gli Stati Uniti – e gli inglesi – non erano purtuttavia dello stesso avviso: la NATO restava un elemento chiave per il contenimento della Germania e il mantenimento di un equilibrio strategico favorevole agli interessi americani.
Nel contesto della riunificazione tedesca, emersero forti resistenze, soprattutto da parte della premier britannica Margaret Thatcher e dello stesso Andreotti, entrambi preoccupati dal ritorno di una Germania troppo potente. Mikhail Gorbaciov, però, in un atto che si rivelò disastroso per la Russia, autorizzò l’unificazione tedesca e la sua inclusione nella NATO senza ottenere garanzie concrete in cambio, se non una vaga promessa americana di non espandere l’Alleanza oltre il fiume Oder. Con il passare degli anni, questa promessa venne ripetutamente disattesa, portando a una crescente tensione tra Russia e Occidente.
Negli anni Novanta, il processo di integrazione europea fece passi avanti con il Trattato di Maastricht, che sancì la creazione dell’Unione Europea e la futura adozione dell’euro. Tuttavia, il tema della difesa comune rimase bloccato da profonde divisioni tra gli Stati membri. Se l’unione economica poteva essere accettata, sebbene tra molteplici compromessi, la creazione di un esercito europeo incontrava ostacoli insormontabili. Da un lato, la NATO continuava a garantire la sicurezza del continente, rendendo superflua un’alternativa autonoma; dall’altro, gli Stati Uniti non avrebbero mai permesso la nascita di un sistema difensivo europeo indipendente, temendo di perdere la propria influenza strategica.
Oggi, il tema dell’esercito europeo è tornato al centro del dibattito a causa delle posizioni di Donald Trump, che ha più volte dichiarato, negli ultimi tre mesi, la NATO obsoleta e non più essenziale per gli interessi statunitensi. Sottolineiamo: statunitensi. È un dettaglio non di poco conto.
Washington si sta progressivamente concentrando su altri scenari globali, come la competizione con la Cina, la promozione del Grande Israele, l’antagonismo con l’Iran, e lascia intendere che l’Europa debba assumersi maggiori responsabilità per la propria difesa.
Ciò d’altronde solleva interrogativi fondamentali: la NATO è ancora un’alleanza solida? Gli Stati Uniti interverrebbero realmente per difendere ogni Stato membro in caso di attacco?
L’amministrazione Trump ha alimentato questi dubbi con il ritiro improvviso e caotico dall’Afghanistan, che ha lasciato l’Europa a gestire le conseguenze senza alcun preavviso. Per di più, le dichiarazioni di alcuni esponenti repubblicani, come J.D. Vance, mettono in discussione la solidità dei legami transatlantici e sottolineano come le élite europee siano state formate per dipendere strategicamente dagli Stati Uniti senza sviluppare un pensiero autonomo sulla difesa.
L’idea di un esercito comune europeo si scontra però con ostacoli concreti: chi dovrebbe guidarlo? Sarebbe accettabile un comando tedesco per i francesi o viceversa? E quale ruolo avrebbero paesi come l’Italia, l’Olanda e le altre nazioni minori? Le rivalità interne tra gli Stati europei, già evidenti durante la crisi libica del 2011 e nelle politiche economiche franco-tedesche, rendono estremamente difficile la creazione di una forza armata realmente unificata.
Un altro problema, per niente secondario, è rappresentato dallo stato attuale delle forze armate europee: molti Paesi hanno ridotto drasticamente i loro arsenali per fornire aiuti militari all’Ucraina e ora si trovano in difficoltà nel rifornire le proprie scorte; la disaffezione dei cittadini verso la carriera militare, unita alla crescente individualizzazione della società, rende difficile il reclutamento di nuovo personale. Un esercito europeo appare quindi più un concetto teorico che una realtà concretamente realizzabile. Perché c’è un dato fondamentale e imprescindibile per avere un esercito… ci vogliono gli uomini da mandare a combattere!
Dal punto di vista industriale, il complesso militare europeo odierno non è strutturato per garantire un’efficace produzione su larga scala. Mentre la Russia riesce a produrre in pochi mesi più munizioni di quante ne fabbrichi l’intera NATO, i paesi europei investono ingenti risorse senza ottenere una reale capacità di deterrenza. Il sistema occidentale, basato sul profitto, non è pensato per una guerra prolungata, e il riarmo rischia di avvantaggiare solo poche grandi aziende senza rafforzare significativamente la sicurezza continentale.
È dunque evidente che il dibattito sull’esercito europeo appare più una risposta alle incertezze geopolitiche attuali che un progetto concretamente realizzabile. Se l’UE lo spingerà politicamente, resterà comunque il problema dei tempi di realizzazione, e la Russia, o la Cina, o l’Iran, o qualsiasi altro “nemico” immaginario dell’Occidente non sarà così stupido da aspettare che venga costruito un esercito comune.
Sebbene la necessità di una maggiore autonomia strategica per l’Europa sia evidente, gli ostacoli politici, economici e culturali rendono improbabile la nascita di una forza armata unificata in tempi brevi. Nel frattempo, l’Europa continua a dipendere dalla NATO e dagli Stati Uniti per la propria sicurezza, senza una chiara visione per il futuro della propria difesa.