Il “nuovo ottomanismo” del presidente Erdogan è in crescita. La Turchia sta modernizzando le sue forze armate e la sua marina per difendere i suoi interessi, per quanto tempo il presidente turco potrà continuare con politiche così aggressive?
Il neo-ottomanesimo di Erdogan, definito da alcuni “forte con i deboli, contorto con i forti”, è tuttavia costantemente in ascesa. Due citazioni potrebbero riassumere la sua politica estera, che conosce solo l’equilibrio delle forze. Innanzitutto: “i minareti saranno le nostre baionette, le cupole i nostri elmetti, le moschee le nostre caserme, i credenti i nostri soldati”. Qui, la scimitarra, la forza in tutte le sue forme, usata contro i Paesi considerati deboli. Quindi: “la democrazia è come un tram, una volta che arrivi alla fine della linea, scendi”; definizione che sembra rivangare quella dell’italiano Enrico Mattei: “Per me i partiti sono come i taxi: li utilizzo, pago il dovuto, e scendo.”
La proiezione geopolitica turca sempre più estesa impone una continua rimodulazione della sua potenza militare, al fine di scoraggiare eventuali rivali regionali dall’ego smisurato come Israele.
Dopo l’avanzamento strategico in Siria, Ankara si trova nuovamente alle prese con le rivendicazioni nazionali curde sostenute dall’asse Washington-Tel Aviv e soltanto un deterrente militare adeguato può consentirle di continuare a nutrire le proprie attuali ambizioni.
La marina turca ha iniziato il nuovo anno annunciando la costruzione di tre navi da guerra basate su progetti nazionali: un sottomarino, una portaerei e la nave principale della tanto attesa serie di cacciatorpediniere antiaerei TF-2000. Questi programmi di costruzione navale sono strettamente collegati alle ambizioni politiche e marittime della Turchia, in particolare per affinare la proiezione di forza a lungo raggio e le capacità di attacco del Paese.
Tale progetto porta il numero totale di navi militari turche in costruzione a 31, secondo le fonti ufficiali, con un investimento che potrebbe superare gli 8 miliardi di dollari. Le aggiunte sono destinate a rafforzare le competenze cantieristiche locali, un elemento chiave nella preferenza del Governo turco per la costruzione di armi in patria, rispetto all’importazione.
La prima saldatura per il sottomarino nazionale (MİLDEN) è stata completata presso il cantiere navale di Gölcük. A causa della segretezza generale che circonda le operazioni sottomarine, la Marina turca ha condiviso solo dettagli limitati. Il MİLDEN è un sottomarino diesel-elettrico con un dislocamento di circa 2.700 tonnellate e una lunghezza superiore a 80 metri. È dotato di un sistema di propulsione indipendente dall’aria (AIP), che consente una maggiore resistenza in immersione rispetto ai sottomarini esistenti, così come di armi, sistemi e sensori sviluppati a livello nazionale e progettati per aumentare la capacità di carico utile e la profondità di immersione.
Una volta schierate, le navi TF-2000 sono destinate a rilevare e intercettare minacce di missili balistici e guidati, offrendo al contempo le tradizionali capacità di combattimento navale. La TF-2000 è alimentata da un sistema di propulsione CODOG, che le consente di raggiungere velocità di 26 nodi o più. È armata con un cannone principale da 127 mm, due stazioni di armi telecomandate da 25 mm e un sistema di armi ravvicinate Gökdeniz da 35 mm. Le capacità di difesa aerea della nave consistono in un sistema di lancio verticale combinato a 96 celle sviluppato nell’ambito del programma MİDLAS della Turchia.
Secondo le informazioni della Marina turca, la portaerei nazionale MUGEN misurerà 285 metri di lunghezza, 75 metri di larghezza e avrà un pescaggio di 10 metri, con un dislocamento previsto di 60.000 tonnellate, più del doppio di quello della più grande nave da guerra turca attuale, la TCG Anadolu.
Se l’obiettivo è indubbiamente quello di modernizzare la flotta, non si può negare che tale incremento non rifletta la proriezione di Ankara fino al Corno d’Africa e all’Oceano Indiano.
Ankara si è resa conto della necessità di una revisione completa della sua marina durante la crisi del Mediterraneo orientale del 2020, quando Turchia e Grecia sono entrate in una disputa marittima per rivendicazioni contrastanti sulla zona economica esclusiva. L’episodio ha evidenziato la necessità di turca di risorse nuove ed aggiuntive per salvaguardare le sue navi per l’esplorazione e la perforazione energetica e, se necessario, affrontare navi da guerra ostili senza innescare un conflitto. È qui che le navi da pattugliamento in mare aperto (OPV) svolgono un ruolo fondamentale.
La tempistica per il completamento di un progetto così ambizioso, incluso il nuovo sottomarino nazionale turco, potrebbe variare da tre a cinque anni, mentre alcune realizzazioni, come la portaerei nazionale, potrebbero richiedere tra sei e otto anni. Ankara cerca di sfruttare la sua esperienza dalla produzione congiunta di sottomarini di classe Reis con la Germania per sviluppare la tecnologia di propulsione indipendente dall’aria (AIP) a livello nazionale ed impedire al nemico l’utilizzo del mare per azioni offensive.
Ciò riflette in pieno il cambiamento nella strategia di sicurezza nazionale della Turchia, secondo quanto postulato dal Ministro degli Esteri Hakan Fidan, che prevede una postura di “difesa avanzata” in conseguenza della quale gli interessi e gli impegni all’estero del Paese sono altrettanto importanti dell’integrità territoriale.
La Turchia mantiene due imperativi in Siria: evitare la creazione di uno Stato quasi curdo e rimandare indietro tutti o gran parte dei quasi 4 milioni di siriani presenti sul suo territorio dallo scoppio del conflitto.
La situazione della minoranza curda, che conta circa 2,5 milioni di residenti, è notevolmente peggiorata dopo il cambio di regime e il principale conflitto militare in Siria è in corso oggi contro la regione autonoma curda nel nord-est. Ankara ha minacciato di espandere le sue operazioni militari in Siria per costringere al ritiro le forze curde dalle aree a est del fiume Eufrate, dopo essere riuscita a espellerle dai punti chiave a ovest. Mazloum Abdi, il leader delle forze curde, ha proposto di istituire “zone libere dalle armi” lungo alcune parti del confine tra Siria e Turchia e ha espresso la volontà di integrare le forze curde in un futuro esercito siriano. Tuttavia, la Turchia ha respinto tali proposte di compromesso e continua a premere per il ritiro delle forze curde dalle aree strategiche della Siria settentrionale. I curdi rimangono in una posizione precaria, fortemente dipendenti dal sostegno statunitense ed israeliano. Tel Aviv, in particolare, ritiene che “la Turchia e altri avvieranno presto iniziative internazionali e potenzialmente militari per far ritirare le forze dell’IDF dai territori appena controllati sulle Alture del Golan. Inoltre, la presenza militare della Turchia in Siria potrebbe aumentare nel tempo (anche sotto la forma di “consulenti”), il che limiterebbe la capacità di Israele di operare lì e potrebbe creare attriti con le forze dell’IDF”[1].
Ciò significa che, pur non rinnegando la sua appartenenza alla NATO, nel nuovo mondo multipolare la Turchia si riserva il diritto di schierarsi a seconda delle opportunità da una parte o dall’altra dei due blocchi geopolitici avversari che inevitabilmente si stanno formando. Tutto sta a capire quanto a lungo lo spregiudicato gioco di Erdogan potrà continuare senza conseguenze e probabilmente l’imminente avvento della nuova Amministrazione Trump aiuterà a comprenderlo.
[1] Carmit Valensi, A New Era in Syria: Winners, Losers, and Implications for Israel, The Institute for Security and National Studies of Tel Aviv University, 12 gennaio 2025.