Se andiamo ad analizzare le possibili mosse su quali possano essere le offerte-contropartite del nuovo Presidente statunitense per convincere i contendenti ad accettare un accordo definitivo o almeno un cessate il fuoco temporaneo, si fatica ad intravederne la via.
Man mano che si avvicina il 20 gennaio 2025, giorno dell’insediamento ufficiale dell’Amministrazione Trump, crescono le comprensibili aspettative sulla possibilità di una fine del conflitto in Ucraina.
Comprensibili perché parliamo di popolazioni che almeno dal 2014 vivono in uno stato di crescente insicurezza e tensione, con conseguenze sociali ed umanitarie devastanti.
Comprensibili perché inizia ad affiorare in tutti i protagonisti del conflitto la naturale stanchezza dovuta a 10 anni di contrapposizioni ideologiche, culturali, economiche crescenti e sopportate solo grazie al patriottismo-nazionalismo in ascesa.
Comprensibili perché anche tra i protagonisti “occulti” di quanto è accaduto, NATO ed Unione Europea, si parla in maniera sempre più esplicita delle difficoltà a portare avanti un progetto anti-russo che è fallito nel suo obiettivo iniziale: la sostituzione di Vladimir Putin ai vertici del Cremlino con un nuovo leader più accondiscendente nei confronti dell’Occidente collettivo e disponibile a rivedere lo stretto legame tra Mosca e Pechino (quest’ultima considerata da Washington il suo vero rivale strategico).
Le carenze energetiche estreme alle quali andranno incontro Paesi europei come Slovacchia, Austria ed Ungheria, se unite alle già notevoli difficoltà economiche manifestate dal nucleo duro dell’Unione composto da Germania e Francia, lascerebbero intravedere la possibilità di una tregua.
Alla stessa Russia, un deciso alleggerimento delle sanzioni occidentali e lo scongelamento di svariati miliardi di euro depositati e poi bloccati nelle banche occidentali non risulterebbe certo sgradito.
A ciò si aggiungano le variegate dichiarazioni di Donald Trump che sul dossier ucraino ha giocato buona parte della sua recente campagna elettorale, manifestando l’intenzione di porre fine al conflitto in 24 ore, in 6 mesi o comunque il prima possibile.
Eppure, se andiamo ad analizzare le possibili mosse su quali possano essere le offerte-contropartite del nuovo Presidente statunitense per convincere i contendenti ad accettare un accordo definitivo o almeno un cessate il fuoco temporaneo, si fatica ad intravederne la via.
Questioni territoriali; la Russia potrebbe certamente accettare un trattato che legittimi la conquista di alcune regioni storiche come la Crimea, il Donbass, Kherson e Zaporozhia avendo già raggiunto il controllo totale del Mare d’Azov grazie a Berdjansk e Mariupol, insieme alle garanzie di un non ingresso dell’Ucraina nella NATO negli anni a venire. Rimarrebbero però aperte difficili margini di trattativa sull’esatta delimitazione dei confini amministrativi, alla luce del fatto che Mosca non controlla in toto queste regioni e pur ammettendo che gli obiettivi economici immediati sono stati raggiunti con il possesso della centrale nucleare di Energodar, del giacimento di litio a Shevchenkovskoye e, a breve, della miniera di carbone coke vicino a Pokrovsk.
Rimarrebbe aperto il problema del Nord, dove forse i russi potrebbero accettare di scambiare la porzione di territorio che controllano nella regione di Kharkov in cambio della restituzione del pezzo di Kursk ancora in mano ucraina. Certamente, per Trump sarebbe una grande successo diplomatico ma a Putin la ripresa di una parte di territorio russo grazie ad una concessione degli Stati Uniti non sarebbe particolarmente gradita per motivi di immagine e rimarrebbe concreta la minaccia di attacchi ucraini contro Belgorod o Bryansk.
Si tratterebbe per la Russia di quella che gli italiani, alla fine della Prima Guerra Mondiale, definirono una “vittoria mutilata”.
Questioni strategiche; sono le più limitanti al raggiungimento di un accordo. Senza tralasciare l’importanza delle parole d’ordine all’inizio dell’Operazione Militare Speciale – denazificazione e demilitarizzazione dell’Ucraina – non bisogna dimenticare che all’origine dell’intervento militare diretto russo il 24 febbraio 2022 sta la mancata risposta da parte di Washington alle richieste di Mosca su un arretramento della NATO in Europa e alla formazione di una nuova architettura di sicurezza in Eurasia.
Due mesi di inutili colloqui tra Lavrov e Sullivan, sintetizzati il 2 febbraio dal giornale spagnolo El País secondo cui tra le risposte fornite da Washington alle richieste russe sulle garanzie di sicurezza figurava la previsione di un impegno congiunto a non schierare in Ucraina missili offensivi basati a terra e forze permanenti per missioni di combattimento; gli USA avrebbero altresì proposto alla Russia una riduzione reciproca bilanciata dell’arsenale missilistico in Europa. Il Cremlino pubblicava poi le 11 pagine di risposte inviate agli Stati Uniti con proposte per un accordo, confermando che uno dei punti centrali era il disimpegno di truppe Usa dall’Europa orientale, lamentando che le proprie linee rosse e i propri interessi strategici sarebbero stati ignorati da USA e NATO e ribadendo come la Russia fosse pronta a reagire in caso di mancanza di garanzie. Tra le richieste che il Cremlino avanzava agli USA nella sua articolata proposta c’erano anche il blocco delle forniture di armi all’Ucraina, la rinuncia di Kiev a entrare nella Nato, il non dispiegamento di armi strategiche nei territori delle ex repubbliche sovietiche e il ritiro di una parte delle truppe USA dall’Est Europa.
Tutte opzioni oggi difficilmente accettabili dall’Amministrazione Trump che dovrebbe iniziare il suo nuovo mandato con un arretramento militare e dallo stesso “nucleo duro” della NATO (la cosiddetta NATO 2 che vede inglesi, polacchi, baltici e gli stessi italiani protagonisti) che punta ancora ad accerchiare la Russia nel Mar Nero grazie al mantenimento di Odessa e ad una probabile futura conquista militare di Pridnestrovie (quest’ultima alle prese con una notevole crisi energetica-economica che coinvolge anche la Moldavia).
Il Presidente USA potrebbe fare tali concessioni soltanto in cambio dello sganciamento di Putin dall’amicizia “senza limiti” che lo lega a Xi Jinping e di una sua rilettura a 360 gradi degli attuali orientamenti internazionali espressi dal leader del Cremlino solo poche settimane fa, in particolare in risposta ai piani degli USA per la fabbricazione e lo schieramento di missili di media e breve gittata non solo in Europa ma anche nella regione dell’Asia-Pacifico e in Medio Oriente, due quadranti al centro degli interessi di Trump. Una postura geopolitica suggellata dai due trattati di partenariato strategico globale, con risvolti anche militari, firmati dalla Russia con Repubblica Popolare Democratica di Corea e Repubblica Islamica dell’Iran.
Ciò spiega anche la decisione annunciata dall’attuale Segretario alla Difesa USA Lloyd J. Austin che riunirà gli otto leader dell’Ukraine Defense Contact Group durante la prossima 25a riunione dell’UDCG presso la base aerea di Ramstein in Germania, al fine di mappare le capacità di difesa dell’Ucraina a sostegno della creazione di una forza deterrente credibile entro il 2027: “I leader di queste coalizioni dovranno approvare roadmap che articolano le esigenze e gli obiettivi dell’aeronautica, dei mezzi corazzati, dell’artiglieria, dello sminamento, dei droni, della difesa aerea e missilistica integrata, della tecnologia informatica e della sicurezza marittima dell’Ucraina fino al 2027. Queste roadmap hanno lo scopo di consentire ai donatori di pianificare e supportare l’Ucraina in modo sostenibile nel futuro”, ha spiegato uno dei funzionari della difesa.
Alla domanda se ci fossero preoccupazioni sul percorso futuro dell’UDCG nel caso in cui il sostegno nordamericano al gruppo dovesse diminuire una volta che la nuova Amministrazione prenderà il potere il 20 gennaio, i funzionari hanno sottolineato che il modo multilaterale in cui l’UDCG e le sue coalizioni sono state costruite contribuirà a rafforzare la futura resilienza del gruppo (1) … “Non posso parlare di ciò che la nuova Amministrazione deciderà sul suo ruolo [all’interno dell’UDCG], ma sono molto fiducioso dell’impegno europeo… capacità… esperienza e straordinaria convinzione nella missione, e [sono] fiducioso che quelle coalizioni di capacità continueranno in un modo o nell’altro”, ha aggiunto il funzionario.
Sottolineando ulteriormente il punto di vista del primo funzionario, il secondo funzionario senior ha sottolineato che, sebbene il 25° UDCG sarà l’ultimo di Austin, il Dipartimento della Difesa non sta “tramontando” e il lavoro del gruppo continuerà: “Grazie al lavoro multilaterale, grazie alle coalizioni di capacità e a tutto ciò che abbiamo fatto, [l’UDCG] resisterà in qualche modo andando avanti, credo, indipendentemente da come esattamente il prossimo team lo perseguirà o meno”, ha affermato il funzionario.
Parole che erano state precedute solo un mese fa da quelle altrettanto eloquenti di Mario Draghi, uomo di punta dell’establishment euro-atlantico, secondo cui il modello continentale tradizionale basato su export e bassi salari sta volgendo al tramonto e l’Unione Europea dovrà adottare un’economia di guerra basata sul forte incremento della spesa militare se vorrà rilanciarsi. Proprio quel 5% del PIL da destinare alla NATO richiesto da Trump ai Paesi europei nei giorni scorsi (con una evidente valenza antirussa) e che consentirebbe agli USA di concentrarsi sulla sfida alla Cina.
Insomma, quella dell’arrivo “messianico” del nuovo inquilino alla Casa Bianca rischia, a tutti gli effetti, di essere una “inutile attesa” per quanti sperano in una pace immediata.
(1) Matthew Olay, Austin to Convene Ukraine Coalition Group to Map Country’s Future Defense Needs, Objectives