Italiano
Giacomo Gabellini
December 23, 2024
© Photo: Public domain

Secondo il piano di chi è caduta la Siria e chi ne trarrà il massimo beneficio?

Segue nostro Telegram.

Nel 2012, il gruppo paramilitare Hay’at Tahrir al-Sham e il suo leader Mohammed al-Golani agivano in Siria nell’ambito di Jabhat al-Nusra, gruppo jihadista impegnato nella distruzione del governo baathista al potere e designato come organizzazione terroristica dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, che ne sottolineava «la visione violenta e settaria» foriera di attacchi suicidi che «hanno ucciso molti civili siriani innocenti». Lo stesso al-Golani, incluso nell’elenco degli Specially Designated Global Terrorist fin dal maggio 2013, perseguiva secondo il Dipartimento di Stato «l’obiettivo finale di rovesciare il regime siriano e instaurare la legge islamica della sharia».

Nell’aprile 2021, l’ambasciatore James Jeffrey, diplomatico di lungo corso che fino a pochi mesi prima aveva supervisionato la politica siriana degli Stati Uniti per conto dell’amministrazione Trump, dichiarò in un’intervista che Hay’at Tahrir al-Sham costituiva nonostante tutto «l’opzione meno peggiore di cui disponiamo nella zona di Idlib, e Idlib rappresenta uno dei luoghi più importanti in Siria, che è a sua volta uno dei luoghi più importanti in questo momento in Medio Oriente». Specialmente alla luce della del distanziamento da al-Nusra che secondo Jeffrey il gruppo aveva nel frattempo varato sotto la guida di al-Golani. Quest’ultimo riteneva quindi “ingiusta” la designazione di terrorista nei confronti di Hay’at Tharir al-Sham, il quale «non rappresenta una minaccia per la sicurezza dell’Europa e dell’America», ​​ed è sempre stato «contrario allo svolgimento di operazioni al di fuori della Siria».

Appena un mese dopo, la «Tass» rivelò che, stando alle confidenze rese da un’anonima fonte diplomatica, l’agente dell’Mi-6 britannico Jonathan Powell aveva caldeggiato il “reclutamento” di Hay’at Tahrir al-Sham, e segnatamente del suo leader al-Golani. Secondo la fonte, l’intelligence britannica aveva posto l’accento sulla necessità di indurre la formazione jihadista e il suo dominus ad «abbandonare le attività sovversive contro i Paesi occidentali e instaurarvi piuttosto una stretta cooperazione. Mohammad al-Golani ha ricevuto raccomandazioni di rilasciare un’intervista a un giornalista statunitense per promuovere un’immagine positiva del gruppo che guida in un’ottica di riabilitazione futura. Sono stati definiti alcuni piani intesi a coinvolgere alcuni degli alleati della Gran Bretagna negli sforzi miranti a rinnovare il marchio del gruppo, a partire dagli Stati Uniti». Nell’agosto 2023, il rappresentante permanente aggiunto della Siria presso le Nazioni Unite Hakam Dandi accusò le forze di occupazione statunitensi di fornire armi chimiche e addestramento ai gruppi terroristici presso la base al-Tanf, situata al confine tra Siria, Giordania e Iraq. Vale a dire la stessa struttura di cui, stando ai rilievi mossi dal direttore del servizio segreto estero russo Sergey Naryshkin, gli istruttori statunitensi si avvalevano per impartire ai guerriglieri inquadrati in Daesh l’addestramento necessario a condurre sabotaggi e operazioni terroristiche non soltanto in Siria, ma anche in Russia.

A poco più di un anno di distanza, al-Golani e la sua formazione hanno giocato un ruolo chiave nel provocare il fragoroso e fulmineo cedimento della Siria baathista, caratterizzato dalla totale arrendevolezza delle forze armate e dal collasso semi-istantaneo delle strutture amministrative. Segno che Hay’at Tahrir al-Sham era stato accuratamente “coltivato” dall’asse anglo-statunitense, prima che la Turchia lo integrasse nella propria operazione di cambio di regime elaborata con ogni probabilità dal ministro degli Esteri (ed ex direttore del Mit) Hakan Fidan e avviata una volta assodata l’indisponibilità di Bashar al-Assad ad accogliere quelli che il presidente Recep Tayyp Erdoğan ha definito «appelli a determinare insieme il futuro della Siria». Le aree settentrionali del Paese, sottoposte per circa quattro secoli all’autorità della Sublime Porta di cui la classe dirigente di Ankara anela a recuperare il prestigio, rappresentano nell’ottica di Erdoğan e Fidan la via d’accesso per espandere l’influenza turca nei territori arabi inquadrati a suo tempo nell’Impero Ottomano e sui quali si registra attualmente l’ingombrante presenza persiana. La manovra di Hay’at Tahrir al-Sham accresce il peso areale della Turchia (che sembra incline a sfruttarne le implicazioni per procedere al rimpatrio degli oltre 3 milioni di profughi siriani che ospita attualmente, divenuti fonte di forte malumore popolare) a scapito dell’Iran, perché va a disintegrare l’anello centrale – la Siria baathista – della catena sciita che garantiva la continuità territoriale dell’Asse della Resistenza agevolando il trasferimento di materiale militare dalla Repubblica Islamica a Hezbollah.

Si è così venuto a delineare il tipo di scenario “ideale” per Israele tratteggiato nel dicembre 2012 dall’allora segretario di Stato Hillary Clinton in una e-mail pubblicata da «WikiLeaks», in cui si legge che «è la relazione strategica tra l’Iran e il regime di Bashar al-Assad che permette all’Iran di minare la sicurezza di Israele, non attraverso un attacco diretto ma per tramite dei suoi alleati in Libano, come gli Hezbollah […]. Il miglior modo di sostenere Israele consiste nel supportare la ribellione in Siria che ormai dura da oltre un anno». Mentre la Clinton scriveva, l’amministrazione Obama di cui faceva aveva già incaricato la Cia di David Petraeus – come confermato anche dalle rivelazioni del generale Michael T. Flynn ad «al-Jazeera» nel 2015 – di avviare l’Operazione Tymber Sycamore, implicante la fornitura alle forze jihadiste operanti in Siria di armamenti acquistati in Croazia e in altri Paesi dell’Europa centrale e orientale con il fondi messi a disposizione anche da Qatar e Arabia Saudita.

Il piano prevedeva anche l’addestramento e la concessione supporto logistico, oltre che una stretta collaborazione con l’MI-6 britannico per l’allestimento di una ratline volta a garantire il trasferimento in Siria di guerriglieri e persino armi chimiche dalle scorte libiche cadute in mano ai jihadisti dopo la caduta della Jamahiriya. «Il rovesciamento di Assad – concludeva la Clinton nella e-mail – costituirebbe non solo un immenso beneficio per la sicurezza di Israele, ma provocherebbe anche una diminuzione del comprensibile timore che Israele ha di perdere il monopolio nucleare». Valutazioni dello stesso tenore si riscontrano all’interno di un documento redatto per conto del Pentagono dalla Defense Intelligence Agency (Dia) nell’agosto del 2012, in cui si identificava nei gruppi islamisti radicali supportati dalla Turchia e dai Paesi sunniti del Golfo Persico il nucleo dell’insorgenza siriana, e si accoglieva con favore la prospettiva di un principato salafita a cavallo tra Siria orientale ed Iraq in sostituzione del regime siriano, considerato «la profondità strategica dell’espansionismo sciita».

Le pianificazioni dell’amministrazione Obama in merito alla ristrutturazione del Medio Oriente risultavano in larga parte sovrapponibili a quelle concepite verso la metà degli anni ’90 in un memorandum cruciale intitolato Clean break: a new strategy for securing the realm. A redigerlo erano stati alcuni strateghi neoconservatori addentro agli “apparati” di Washington e dotati in molti casi di doppia cittadinanza (statunitense e israeliana). Personaggi distintisi in molti casi come ideatori di punta del progetto del Grande Medio Oriente, e che, come scriveva il quotidiano «Haaretz» nel 2002, stavano «camminando lungo la linea sottile che separa la lealtà al governo degli Stati Uniti dagli interessi israeliani». Proprio in quel periodo, il generale Wesley Clark, con trascorsi come comandante delle forze Nato in Europa, rivelò che, stando alle confidenze resegli già nel novembre 2001 da un fonte di alto livello all’interno del Pentagono, l’amministrazione Bush aveva elaborato una piano strategico inteso a «liquidare sette Paesi in cinque anni», individuati in Iraq, Siria, Libano, Libia, Iran, Somalia e Sudan.

Il progetto descritto da Clark risultava perfettamente compatibile con un altro piano strategico da cui traeva palesemente ispirazine, definito tempo addietro da Oded Yinon, analista molto vicino al Ministero degli Esteri di Tel Aviv. In un saggio per la rivista «Kivunim» nel febbraio 1982, Yinon aveva sviscerato i punti cardine del suo progetto, il quale designava come finalità fondamentale per Israele la riconfigurazione integrale della carta geopolitica del Medio Oriente, attraverso quella balcanizzazione degli Stati arabi che sia in senso geografico-territoriale che nell’accezione etno-sociale sarebbe divenuta l’asse portante della dottrina strategica israeliana. Yinon era pervenuto alla conclusione che le nuove entità statali di piccole dimensioni e forza ridotta che si sarebbero venute a creare con l’applicazione del suo piano sarebbero state attratte in un confronto serrato e logorante con i loro vicini altrettanto deboli e ridimensionati, rinforzando di fatto la posizione dello Stato ebraico. «Ciò che vogliamo – scriveva Yinon – non è un mondo arabo, ma un mondo di frammenti arabi destinato a soccombere all’egemonia israeliana». Occorreva pertanto favorire «la frammentazione della Siria e dell’Iraq secondo linee etniche e religiose, così come avviene oggi in Libano […]. Nei territori corrispondenti all’attuale Siria nascerà uno Stato alawita [gruppo sincretico filo-sciita] lungo la costa, uno Stato sunnita intorno ad Aleppo, un altro Stato sunnita nell’area di Damasco ostile al suo vicino settentrionale e uno Stato druso nell’Hauran e nel nord della Giordania». Quanto all’Iraq, «la sua dissoluzione è persino più importante di quella della Siria […]. Qui è possibile attuare una suddivisione in province su base etnica e confessionale analoga a quella della Siria all’epoca dell’Impero Ottomano. Si verranno così a creare tre o più Stati attorno alle tre città principali: Bassora, Baghdad e Mosul, mentre le regioni sciite del sud del Paese saranno separate dal nord sunnita e kurdo». Le valutazioni di Yinon erano sostanzialmente condivise da Tareq Aziz, che in qualità di vice di Saddam Hussein affermò nel corso di un’intervista rilasciata a «Le Monde» nell’estate del 1982 che «affinché questo piano di atomizzazione possa riuscire appieno, occorre aggredire il punto centrale del dispositivo, vale a dire l’Iraq, l’unico Paese che possiede sia l’acqua che il petrolio, e che persegue con determinazione l’obiettivo del proprio sviluppo. Occorre dunque partire con lo smembramento dell’Iraq, a cui si sta tentando di procedere da più di vent’anni». Conformemente alle raccomandazioni di Yinon, l’Iraq è stato attaccato per ben due volte nell’arco di tredici anni dagli Stati Uniti, prima che Israele aggredisse il Libano (2006) nell’ambito di una guerra che spinse l’allora segretario di Stato Condoleezza Rice a parlare di «doglie di un Nuovo Medio Oriente».

Nei giorni scorsi, i jihadisti comandati da al-Golani sono dilagati dalla regione di Idlib verso sud senza incontrare alcuna resistenza significativa, approfittando non solo della totale passività dell’esercito siriano – presumibilmente “irrigata” dal denaro turco – ma anche del “lavoro preparatorio” svolto da Israele, i cui obiettivi in materia di indebolimento dell’Asse della Resistenza risultavano convergenti sul piano tattico con quelli turchi. L’avanzata di Hay’at Tahrir al-Sham è scattata infatti a coronamento di una campagna di bombardamenti aerei israeliani contro strutture militari, depositi di munizioni e canali di comunicazione vitali disseminati nelle aree cruciali della Siria, e poche ore dopo la formalizzazione della tregua provvisoria siglata dal governo Netanyahu con i vertici di Hezbollah. Un accordo cruciale, di cui Israele necessitava per ricostituire le scorte militari ormai vicine alla soglia critica e mitigare il processo di logoramento del proprio dispositivo bellico.

Il caos dilagante scatenato dalla caduta delle istituzioni statali baathiste ha aperto una finestra di opportunità che Netanyahu ha colto con la consueta spregiudicatezza. Mentre le forze armate siriane si squagliavano letteralmente di fronte all’offensiva jihadista, l’aeronautica e la marina israeliane lanciavano una devastante campagna di bombardamento contro le strutture militari siriane per prevenire una loro possibile cattura ad opera di forze “ostili”. L’Israeli Defense Force ha parlato di oltre 480 attacchi, che avrebbero portato alla distruzione del 70-80% delle risorse militari strategiche siriane da Damasco a Latakia, tra cui aerei, radar e siti di difesa aerea, navi militari e depositi di armi e munizioni.

Allo stesso tempo, le forze armate israeliane oltrepassavano la linea di demarcazione stabilita nel 1974, che pose fine alla Guerra dello Yom Kippur. L’obiettivo, recita un comunicato dell’Israeli Defense Force, consisteva nel creare un’ampia zona-cuscinetto e garantire così «la sicurezza delle comunità delle Alture del Golan e dei cittadini di Israele». Tsahal ha quindi occupato il versante siriano del Monte Hermon, tra le proteste di decine di Paesi che Netanyahu ha puntualmente ignorato, proclamando le alture del Golan parte integrante di Israele «per l’eternità». Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha rimarcato la “provvisorietà” dello sconfinamento israeliano, senza tuttavia indicare alcun orizzonte temporale previsto per la smobilitazione.

Le ragioni alla base della vaghezza dei comunicati ufficiali israeliani sul punto possono essere desunte dal contenuto di alcune riflessioni comparse negli ultimi giorni sulla stampa israeliana. È il caso del «Times of Israel», che il 4 dicembre ha pubblicato un editoriale a firma di Dan Ehrlich in cui si sosteneva apertamente la necessità di ricavare un lebensraum sufficientemente ampio da sostenere la crescita della popolazione israeliana, che secondo le proiezioni dovrebbe raggiungere gli 11,1 milioni entro il 2030, i 13,2 milioni entro il 2040 e i 15,2 milioni entro il 2048. Nel pezzo, poi rimosso dal sito del quotidiano presumibilmente per effetto degli inquietanti parallelismi suscitati con la strumentalizzazione del concetto di lebensraum ad opera del regime nazista, l’autore poneva l’accento sull’eccessiva esiguità della massa terrestre disponibile rispetto alle tendenze demografiche della popolazione che la abita. E adombrava pertanto l’incorporazione di Giudea e Samaria (cioè della Cisgiordania) come possibile soluzione al problema. La situazione di caos venutasi a determinare in Siria potrebbe verosimilmente indurre il governo di Tel Aviv a espandere le mire annessionistiche israeliane anche sulle aree meridionali del Paese. Forse, non limitatamente alle alture del Golan.

Il crollo della Repubblica Araba Siriana riattualizza il Piano Yinon

Secondo il piano di chi è caduta la Siria e chi ne trarrà il massimo beneficio?

Segue nostro Telegram.

Nel 2012, il gruppo paramilitare Hay’at Tahrir al-Sham e il suo leader Mohammed al-Golani agivano in Siria nell’ambito di Jabhat al-Nusra, gruppo jihadista impegnato nella distruzione del governo baathista al potere e designato come organizzazione terroristica dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, che ne sottolineava «la visione violenta e settaria» foriera di attacchi suicidi che «hanno ucciso molti civili siriani innocenti». Lo stesso al-Golani, incluso nell’elenco degli Specially Designated Global Terrorist fin dal maggio 2013, perseguiva secondo il Dipartimento di Stato «l’obiettivo finale di rovesciare il regime siriano e instaurare la legge islamica della sharia».

Nell’aprile 2021, l’ambasciatore James Jeffrey, diplomatico di lungo corso che fino a pochi mesi prima aveva supervisionato la politica siriana degli Stati Uniti per conto dell’amministrazione Trump, dichiarò in un’intervista che Hay’at Tahrir al-Sham costituiva nonostante tutto «l’opzione meno peggiore di cui disponiamo nella zona di Idlib, e Idlib rappresenta uno dei luoghi più importanti in Siria, che è a sua volta uno dei luoghi più importanti in questo momento in Medio Oriente». Specialmente alla luce della del distanziamento da al-Nusra che secondo Jeffrey il gruppo aveva nel frattempo varato sotto la guida di al-Golani. Quest’ultimo riteneva quindi “ingiusta” la designazione di terrorista nei confronti di Hay’at Tharir al-Sham, il quale «non rappresenta una minaccia per la sicurezza dell’Europa e dell’America», ​​ed è sempre stato «contrario allo svolgimento di operazioni al di fuori della Siria».

Appena un mese dopo, la «Tass» rivelò che, stando alle confidenze rese da un’anonima fonte diplomatica, l’agente dell’Mi-6 britannico Jonathan Powell aveva caldeggiato il “reclutamento” di Hay’at Tahrir al-Sham, e segnatamente del suo leader al-Golani. Secondo la fonte, l’intelligence britannica aveva posto l’accento sulla necessità di indurre la formazione jihadista e il suo dominus ad «abbandonare le attività sovversive contro i Paesi occidentali e instaurarvi piuttosto una stretta cooperazione. Mohammad al-Golani ha ricevuto raccomandazioni di rilasciare un’intervista a un giornalista statunitense per promuovere un’immagine positiva del gruppo che guida in un’ottica di riabilitazione futura. Sono stati definiti alcuni piani intesi a coinvolgere alcuni degli alleati della Gran Bretagna negli sforzi miranti a rinnovare il marchio del gruppo, a partire dagli Stati Uniti». Nell’agosto 2023, il rappresentante permanente aggiunto della Siria presso le Nazioni Unite Hakam Dandi accusò le forze di occupazione statunitensi di fornire armi chimiche e addestramento ai gruppi terroristici presso la base al-Tanf, situata al confine tra Siria, Giordania e Iraq. Vale a dire la stessa struttura di cui, stando ai rilievi mossi dal direttore del servizio segreto estero russo Sergey Naryshkin, gli istruttori statunitensi si avvalevano per impartire ai guerriglieri inquadrati in Daesh l’addestramento necessario a condurre sabotaggi e operazioni terroristiche non soltanto in Siria, ma anche in Russia.

A poco più di un anno di distanza, al-Golani e la sua formazione hanno giocato un ruolo chiave nel provocare il fragoroso e fulmineo cedimento della Siria baathista, caratterizzato dalla totale arrendevolezza delle forze armate e dal collasso semi-istantaneo delle strutture amministrative. Segno che Hay’at Tahrir al-Sham era stato accuratamente “coltivato” dall’asse anglo-statunitense, prima che la Turchia lo integrasse nella propria operazione di cambio di regime elaborata con ogni probabilità dal ministro degli Esteri (ed ex direttore del Mit) Hakan Fidan e avviata una volta assodata l’indisponibilità di Bashar al-Assad ad accogliere quelli che il presidente Recep Tayyp Erdoğan ha definito «appelli a determinare insieme il futuro della Siria». Le aree settentrionali del Paese, sottoposte per circa quattro secoli all’autorità della Sublime Porta di cui la classe dirigente di Ankara anela a recuperare il prestigio, rappresentano nell’ottica di Erdoğan e Fidan la via d’accesso per espandere l’influenza turca nei territori arabi inquadrati a suo tempo nell’Impero Ottomano e sui quali si registra attualmente l’ingombrante presenza persiana. La manovra di Hay’at Tahrir al-Sham accresce il peso areale della Turchia (che sembra incline a sfruttarne le implicazioni per procedere al rimpatrio degli oltre 3 milioni di profughi siriani che ospita attualmente, divenuti fonte di forte malumore popolare) a scapito dell’Iran, perché va a disintegrare l’anello centrale – la Siria baathista – della catena sciita che garantiva la continuità territoriale dell’Asse della Resistenza agevolando il trasferimento di materiale militare dalla Repubblica Islamica a Hezbollah.

Si è così venuto a delineare il tipo di scenario “ideale” per Israele tratteggiato nel dicembre 2012 dall’allora segretario di Stato Hillary Clinton in una e-mail pubblicata da «WikiLeaks», in cui si legge che «è la relazione strategica tra l’Iran e il regime di Bashar al-Assad che permette all’Iran di minare la sicurezza di Israele, non attraverso un attacco diretto ma per tramite dei suoi alleati in Libano, come gli Hezbollah […]. Il miglior modo di sostenere Israele consiste nel supportare la ribellione in Siria che ormai dura da oltre un anno». Mentre la Clinton scriveva, l’amministrazione Obama di cui faceva aveva già incaricato la Cia di David Petraeus – come confermato anche dalle rivelazioni del generale Michael T. Flynn ad «al-Jazeera» nel 2015 – di avviare l’Operazione Tymber Sycamore, implicante la fornitura alle forze jihadiste operanti in Siria di armamenti acquistati in Croazia e in altri Paesi dell’Europa centrale e orientale con il fondi messi a disposizione anche da Qatar e Arabia Saudita.

Il piano prevedeva anche l’addestramento e la concessione supporto logistico, oltre che una stretta collaborazione con l’MI-6 britannico per l’allestimento di una ratline volta a garantire il trasferimento in Siria di guerriglieri e persino armi chimiche dalle scorte libiche cadute in mano ai jihadisti dopo la caduta della Jamahiriya. «Il rovesciamento di Assad – concludeva la Clinton nella e-mail – costituirebbe non solo un immenso beneficio per la sicurezza di Israele, ma provocherebbe anche una diminuzione del comprensibile timore che Israele ha di perdere il monopolio nucleare». Valutazioni dello stesso tenore si riscontrano all’interno di un documento redatto per conto del Pentagono dalla Defense Intelligence Agency (Dia) nell’agosto del 2012, in cui si identificava nei gruppi islamisti radicali supportati dalla Turchia e dai Paesi sunniti del Golfo Persico il nucleo dell’insorgenza siriana, e si accoglieva con favore la prospettiva di un principato salafita a cavallo tra Siria orientale ed Iraq in sostituzione del regime siriano, considerato «la profondità strategica dell’espansionismo sciita».

Le pianificazioni dell’amministrazione Obama in merito alla ristrutturazione del Medio Oriente risultavano in larga parte sovrapponibili a quelle concepite verso la metà degli anni ’90 in un memorandum cruciale intitolato Clean break: a new strategy for securing the realm. A redigerlo erano stati alcuni strateghi neoconservatori addentro agli “apparati” di Washington e dotati in molti casi di doppia cittadinanza (statunitense e israeliana). Personaggi distintisi in molti casi come ideatori di punta del progetto del Grande Medio Oriente, e che, come scriveva il quotidiano «Haaretz» nel 2002, stavano «camminando lungo la linea sottile che separa la lealtà al governo degli Stati Uniti dagli interessi israeliani». Proprio in quel periodo, il generale Wesley Clark, con trascorsi come comandante delle forze Nato in Europa, rivelò che, stando alle confidenze resegli già nel novembre 2001 da un fonte di alto livello all’interno del Pentagono, l’amministrazione Bush aveva elaborato una piano strategico inteso a «liquidare sette Paesi in cinque anni», individuati in Iraq, Siria, Libano, Libia, Iran, Somalia e Sudan.

Il progetto descritto da Clark risultava perfettamente compatibile con un altro piano strategico da cui traeva palesemente ispirazine, definito tempo addietro da Oded Yinon, analista molto vicino al Ministero degli Esteri di Tel Aviv. In un saggio per la rivista «Kivunim» nel febbraio 1982, Yinon aveva sviscerato i punti cardine del suo progetto, il quale designava come finalità fondamentale per Israele la riconfigurazione integrale della carta geopolitica del Medio Oriente, attraverso quella balcanizzazione degli Stati arabi che sia in senso geografico-territoriale che nell’accezione etno-sociale sarebbe divenuta l’asse portante della dottrina strategica israeliana. Yinon era pervenuto alla conclusione che le nuove entità statali di piccole dimensioni e forza ridotta che si sarebbero venute a creare con l’applicazione del suo piano sarebbero state attratte in un confronto serrato e logorante con i loro vicini altrettanto deboli e ridimensionati, rinforzando di fatto la posizione dello Stato ebraico. «Ciò che vogliamo – scriveva Yinon – non è un mondo arabo, ma un mondo di frammenti arabi destinato a soccombere all’egemonia israeliana». Occorreva pertanto favorire «la frammentazione della Siria e dell’Iraq secondo linee etniche e religiose, così come avviene oggi in Libano […]. Nei territori corrispondenti all’attuale Siria nascerà uno Stato alawita [gruppo sincretico filo-sciita] lungo la costa, uno Stato sunnita intorno ad Aleppo, un altro Stato sunnita nell’area di Damasco ostile al suo vicino settentrionale e uno Stato druso nell’Hauran e nel nord della Giordania». Quanto all’Iraq, «la sua dissoluzione è persino più importante di quella della Siria […]. Qui è possibile attuare una suddivisione in province su base etnica e confessionale analoga a quella della Siria all’epoca dell’Impero Ottomano. Si verranno così a creare tre o più Stati attorno alle tre città principali: Bassora, Baghdad e Mosul, mentre le regioni sciite del sud del Paese saranno separate dal nord sunnita e kurdo». Le valutazioni di Yinon erano sostanzialmente condivise da Tareq Aziz, che in qualità di vice di Saddam Hussein affermò nel corso di un’intervista rilasciata a «Le Monde» nell’estate del 1982 che «affinché questo piano di atomizzazione possa riuscire appieno, occorre aggredire il punto centrale del dispositivo, vale a dire l’Iraq, l’unico Paese che possiede sia l’acqua che il petrolio, e che persegue con determinazione l’obiettivo del proprio sviluppo. Occorre dunque partire con lo smembramento dell’Iraq, a cui si sta tentando di procedere da più di vent’anni». Conformemente alle raccomandazioni di Yinon, l’Iraq è stato attaccato per ben due volte nell’arco di tredici anni dagli Stati Uniti, prima che Israele aggredisse il Libano (2006) nell’ambito di una guerra che spinse l’allora segretario di Stato Condoleezza Rice a parlare di «doglie di un Nuovo Medio Oriente».

Nei giorni scorsi, i jihadisti comandati da al-Golani sono dilagati dalla regione di Idlib verso sud senza incontrare alcuna resistenza significativa, approfittando non solo della totale passività dell’esercito siriano – presumibilmente “irrigata” dal denaro turco – ma anche del “lavoro preparatorio” svolto da Israele, i cui obiettivi in materia di indebolimento dell’Asse della Resistenza risultavano convergenti sul piano tattico con quelli turchi. L’avanzata di Hay’at Tahrir al-Sham è scattata infatti a coronamento di una campagna di bombardamenti aerei israeliani contro strutture militari, depositi di munizioni e canali di comunicazione vitali disseminati nelle aree cruciali della Siria, e poche ore dopo la formalizzazione della tregua provvisoria siglata dal governo Netanyahu con i vertici di Hezbollah. Un accordo cruciale, di cui Israele necessitava per ricostituire le scorte militari ormai vicine alla soglia critica e mitigare il processo di logoramento del proprio dispositivo bellico.

Il caos dilagante scatenato dalla caduta delle istituzioni statali baathiste ha aperto una finestra di opportunità che Netanyahu ha colto con la consueta spregiudicatezza. Mentre le forze armate siriane si squagliavano letteralmente di fronte all’offensiva jihadista, l’aeronautica e la marina israeliane lanciavano una devastante campagna di bombardamento contro le strutture militari siriane per prevenire una loro possibile cattura ad opera di forze “ostili”. L’Israeli Defense Force ha parlato di oltre 480 attacchi, che avrebbero portato alla distruzione del 70-80% delle risorse militari strategiche siriane da Damasco a Latakia, tra cui aerei, radar e siti di difesa aerea, navi militari e depositi di armi e munizioni.

Allo stesso tempo, le forze armate israeliane oltrepassavano la linea di demarcazione stabilita nel 1974, che pose fine alla Guerra dello Yom Kippur. L’obiettivo, recita un comunicato dell’Israeli Defense Force, consisteva nel creare un’ampia zona-cuscinetto e garantire così «la sicurezza delle comunità delle Alture del Golan e dei cittadini di Israele». Tsahal ha quindi occupato il versante siriano del Monte Hermon, tra le proteste di decine di Paesi che Netanyahu ha puntualmente ignorato, proclamando le alture del Golan parte integrante di Israele «per l’eternità». Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha rimarcato la “provvisorietà” dello sconfinamento israeliano, senza tuttavia indicare alcun orizzonte temporale previsto per la smobilitazione.

Le ragioni alla base della vaghezza dei comunicati ufficiali israeliani sul punto possono essere desunte dal contenuto di alcune riflessioni comparse negli ultimi giorni sulla stampa israeliana. È il caso del «Times of Israel», che il 4 dicembre ha pubblicato un editoriale a firma di Dan Ehrlich in cui si sosteneva apertamente la necessità di ricavare un lebensraum sufficientemente ampio da sostenere la crescita della popolazione israeliana, che secondo le proiezioni dovrebbe raggiungere gli 11,1 milioni entro il 2030, i 13,2 milioni entro il 2040 e i 15,2 milioni entro il 2048. Nel pezzo, poi rimosso dal sito del quotidiano presumibilmente per effetto degli inquietanti parallelismi suscitati con la strumentalizzazione del concetto di lebensraum ad opera del regime nazista, l’autore poneva l’accento sull’eccessiva esiguità della massa terrestre disponibile rispetto alle tendenze demografiche della popolazione che la abita. E adombrava pertanto l’incorporazione di Giudea e Samaria (cioè della Cisgiordania) come possibile soluzione al problema. La situazione di caos venutasi a determinare in Siria potrebbe verosimilmente indurre il governo di Tel Aviv a espandere le mire annessionistiche israeliane anche sulle aree meridionali del Paese. Forse, non limitatamente alle alture del Golan.

Secondo il piano di chi è caduta la Siria e chi ne trarrà il massimo beneficio?

Segue nostro Telegram.

Nel 2012, il gruppo paramilitare Hay’at Tahrir al-Sham e il suo leader Mohammed al-Golani agivano in Siria nell’ambito di Jabhat al-Nusra, gruppo jihadista impegnato nella distruzione del governo baathista al potere e designato come organizzazione terroristica dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, che ne sottolineava «la visione violenta e settaria» foriera di attacchi suicidi che «hanno ucciso molti civili siriani innocenti». Lo stesso al-Golani, incluso nell’elenco degli Specially Designated Global Terrorist fin dal maggio 2013, perseguiva secondo il Dipartimento di Stato «l’obiettivo finale di rovesciare il regime siriano e instaurare la legge islamica della sharia».

Nell’aprile 2021, l’ambasciatore James Jeffrey, diplomatico di lungo corso che fino a pochi mesi prima aveva supervisionato la politica siriana degli Stati Uniti per conto dell’amministrazione Trump, dichiarò in un’intervista che Hay’at Tahrir al-Sham costituiva nonostante tutto «l’opzione meno peggiore di cui disponiamo nella zona di Idlib, e Idlib rappresenta uno dei luoghi più importanti in Siria, che è a sua volta uno dei luoghi più importanti in questo momento in Medio Oriente». Specialmente alla luce della del distanziamento da al-Nusra che secondo Jeffrey il gruppo aveva nel frattempo varato sotto la guida di al-Golani. Quest’ultimo riteneva quindi “ingiusta” la designazione di terrorista nei confronti di Hay’at Tharir al-Sham, il quale «non rappresenta una minaccia per la sicurezza dell’Europa e dell’America», ​​ed è sempre stato «contrario allo svolgimento di operazioni al di fuori della Siria».

Appena un mese dopo, la «Tass» rivelò che, stando alle confidenze rese da un’anonima fonte diplomatica, l’agente dell’Mi-6 britannico Jonathan Powell aveva caldeggiato il “reclutamento” di Hay’at Tahrir al-Sham, e segnatamente del suo leader al-Golani. Secondo la fonte, l’intelligence britannica aveva posto l’accento sulla necessità di indurre la formazione jihadista e il suo dominus ad «abbandonare le attività sovversive contro i Paesi occidentali e instaurarvi piuttosto una stretta cooperazione. Mohammad al-Golani ha ricevuto raccomandazioni di rilasciare un’intervista a un giornalista statunitense per promuovere un’immagine positiva del gruppo che guida in un’ottica di riabilitazione futura. Sono stati definiti alcuni piani intesi a coinvolgere alcuni degli alleati della Gran Bretagna negli sforzi miranti a rinnovare il marchio del gruppo, a partire dagli Stati Uniti». Nell’agosto 2023, il rappresentante permanente aggiunto della Siria presso le Nazioni Unite Hakam Dandi accusò le forze di occupazione statunitensi di fornire armi chimiche e addestramento ai gruppi terroristici presso la base al-Tanf, situata al confine tra Siria, Giordania e Iraq. Vale a dire la stessa struttura di cui, stando ai rilievi mossi dal direttore del servizio segreto estero russo Sergey Naryshkin, gli istruttori statunitensi si avvalevano per impartire ai guerriglieri inquadrati in Daesh l’addestramento necessario a condurre sabotaggi e operazioni terroristiche non soltanto in Siria, ma anche in Russia.

A poco più di un anno di distanza, al-Golani e la sua formazione hanno giocato un ruolo chiave nel provocare il fragoroso e fulmineo cedimento della Siria baathista, caratterizzato dalla totale arrendevolezza delle forze armate e dal collasso semi-istantaneo delle strutture amministrative. Segno che Hay’at Tahrir al-Sham era stato accuratamente “coltivato” dall’asse anglo-statunitense, prima che la Turchia lo integrasse nella propria operazione di cambio di regime elaborata con ogni probabilità dal ministro degli Esteri (ed ex direttore del Mit) Hakan Fidan e avviata una volta assodata l’indisponibilità di Bashar al-Assad ad accogliere quelli che il presidente Recep Tayyp Erdoğan ha definito «appelli a determinare insieme il futuro della Siria». Le aree settentrionali del Paese, sottoposte per circa quattro secoli all’autorità della Sublime Porta di cui la classe dirigente di Ankara anela a recuperare il prestigio, rappresentano nell’ottica di Erdoğan e Fidan la via d’accesso per espandere l’influenza turca nei territori arabi inquadrati a suo tempo nell’Impero Ottomano e sui quali si registra attualmente l’ingombrante presenza persiana. La manovra di Hay’at Tahrir al-Sham accresce il peso areale della Turchia (che sembra incline a sfruttarne le implicazioni per procedere al rimpatrio degli oltre 3 milioni di profughi siriani che ospita attualmente, divenuti fonte di forte malumore popolare) a scapito dell’Iran, perché va a disintegrare l’anello centrale – la Siria baathista – della catena sciita che garantiva la continuità territoriale dell’Asse della Resistenza agevolando il trasferimento di materiale militare dalla Repubblica Islamica a Hezbollah.

Si è così venuto a delineare il tipo di scenario “ideale” per Israele tratteggiato nel dicembre 2012 dall’allora segretario di Stato Hillary Clinton in una e-mail pubblicata da «WikiLeaks», in cui si legge che «è la relazione strategica tra l’Iran e il regime di Bashar al-Assad che permette all’Iran di minare la sicurezza di Israele, non attraverso un attacco diretto ma per tramite dei suoi alleati in Libano, come gli Hezbollah […]. Il miglior modo di sostenere Israele consiste nel supportare la ribellione in Siria che ormai dura da oltre un anno». Mentre la Clinton scriveva, l’amministrazione Obama di cui faceva aveva già incaricato la Cia di David Petraeus – come confermato anche dalle rivelazioni del generale Michael T. Flynn ad «al-Jazeera» nel 2015 – di avviare l’Operazione Tymber Sycamore, implicante la fornitura alle forze jihadiste operanti in Siria di armamenti acquistati in Croazia e in altri Paesi dell’Europa centrale e orientale con il fondi messi a disposizione anche da Qatar e Arabia Saudita.

Il piano prevedeva anche l’addestramento e la concessione supporto logistico, oltre che una stretta collaborazione con l’MI-6 britannico per l’allestimento di una ratline volta a garantire il trasferimento in Siria di guerriglieri e persino armi chimiche dalle scorte libiche cadute in mano ai jihadisti dopo la caduta della Jamahiriya. «Il rovesciamento di Assad – concludeva la Clinton nella e-mail – costituirebbe non solo un immenso beneficio per la sicurezza di Israele, ma provocherebbe anche una diminuzione del comprensibile timore che Israele ha di perdere il monopolio nucleare». Valutazioni dello stesso tenore si riscontrano all’interno di un documento redatto per conto del Pentagono dalla Defense Intelligence Agency (Dia) nell’agosto del 2012, in cui si identificava nei gruppi islamisti radicali supportati dalla Turchia e dai Paesi sunniti del Golfo Persico il nucleo dell’insorgenza siriana, e si accoglieva con favore la prospettiva di un principato salafita a cavallo tra Siria orientale ed Iraq in sostituzione del regime siriano, considerato «la profondità strategica dell’espansionismo sciita».

Le pianificazioni dell’amministrazione Obama in merito alla ristrutturazione del Medio Oriente risultavano in larga parte sovrapponibili a quelle concepite verso la metà degli anni ’90 in un memorandum cruciale intitolato Clean break: a new strategy for securing the realm. A redigerlo erano stati alcuni strateghi neoconservatori addentro agli “apparati” di Washington e dotati in molti casi di doppia cittadinanza (statunitense e israeliana). Personaggi distintisi in molti casi come ideatori di punta del progetto del Grande Medio Oriente, e che, come scriveva il quotidiano «Haaretz» nel 2002, stavano «camminando lungo la linea sottile che separa la lealtà al governo degli Stati Uniti dagli interessi israeliani». Proprio in quel periodo, il generale Wesley Clark, con trascorsi come comandante delle forze Nato in Europa, rivelò che, stando alle confidenze resegli già nel novembre 2001 da un fonte di alto livello all’interno del Pentagono, l’amministrazione Bush aveva elaborato una piano strategico inteso a «liquidare sette Paesi in cinque anni», individuati in Iraq, Siria, Libano, Libia, Iran, Somalia e Sudan.

Il progetto descritto da Clark risultava perfettamente compatibile con un altro piano strategico da cui traeva palesemente ispirazine, definito tempo addietro da Oded Yinon, analista molto vicino al Ministero degli Esteri di Tel Aviv. In un saggio per la rivista «Kivunim» nel febbraio 1982, Yinon aveva sviscerato i punti cardine del suo progetto, il quale designava come finalità fondamentale per Israele la riconfigurazione integrale della carta geopolitica del Medio Oriente, attraverso quella balcanizzazione degli Stati arabi che sia in senso geografico-territoriale che nell’accezione etno-sociale sarebbe divenuta l’asse portante della dottrina strategica israeliana. Yinon era pervenuto alla conclusione che le nuove entità statali di piccole dimensioni e forza ridotta che si sarebbero venute a creare con l’applicazione del suo piano sarebbero state attratte in un confronto serrato e logorante con i loro vicini altrettanto deboli e ridimensionati, rinforzando di fatto la posizione dello Stato ebraico. «Ciò che vogliamo – scriveva Yinon – non è un mondo arabo, ma un mondo di frammenti arabi destinato a soccombere all’egemonia israeliana». Occorreva pertanto favorire «la frammentazione della Siria e dell’Iraq secondo linee etniche e religiose, così come avviene oggi in Libano […]. Nei territori corrispondenti all’attuale Siria nascerà uno Stato alawita [gruppo sincretico filo-sciita] lungo la costa, uno Stato sunnita intorno ad Aleppo, un altro Stato sunnita nell’area di Damasco ostile al suo vicino settentrionale e uno Stato druso nell’Hauran e nel nord della Giordania». Quanto all’Iraq, «la sua dissoluzione è persino più importante di quella della Siria […]. Qui è possibile attuare una suddivisione in province su base etnica e confessionale analoga a quella della Siria all’epoca dell’Impero Ottomano. Si verranno così a creare tre o più Stati attorno alle tre città principali: Bassora, Baghdad e Mosul, mentre le regioni sciite del sud del Paese saranno separate dal nord sunnita e kurdo». Le valutazioni di Yinon erano sostanzialmente condivise da Tareq Aziz, che in qualità di vice di Saddam Hussein affermò nel corso di un’intervista rilasciata a «Le Monde» nell’estate del 1982 che «affinché questo piano di atomizzazione possa riuscire appieno, occorre aggredire il punto centrale del dispositivo, vale a dire l’Iraq, l’unico Paese che possiede sia l’acqua che il petrolio, e che persegue con determinazione l’obiettivo del proprio sviluppo. Occorre dunque partire con lo smembramento dell’Iraq, a cui si sta tentando di procedere da più di vent’anni». Conformemente alle raccomandazioni di Yinon, l’Iraq è stato attaccato per ben due volte nell’arco di tredici anni dagli Stati Uniti, prima che Israele aggredisse il Libano (2006) nell’ambito di una guerra che spinse l’allora segretario di Stato Condoleezza Rice a parlare di «doglie di un Nuovo Medio Oriente».

Nei giorni scorsi, i jihadisti comandati da al-Golani sono dilagati dalla regione di Idlib verso sud senza incontrare alcuna resistenza significativa, approfittando non solo della totale passività dell’esercito siriano – presumibilmente “irrigata” dal denaro turco – ma anche del “lavoro preparatorio” svolto da Israele, i cui obiettivi in materia di indebolimento dell’Asse della Resistenza risultavano convergenti sul piano tattico con quelli turchi. L’avanzata di Hay’at Tahrir al-Sham è scattata infatti a coronamento di una campagna di bombardamenti aerei israeliani contro strutture militari, depositi di munizioni e canali di comunicazione vitali disseminati nelle aree cruciali della Siria, e poche ore dopo la formalizzazione della tregua provvisoria siglata dal governo Netanyahu con i vertici di Hezbollah. Un accordo cruciale, di cui Israele necessitava per ricostituire le scorte militari ormai vicine alla soglia critica e mitigare il processo di logoramento del proprio dispositivo bellico.

Il caos dilagante scatenato dalla caduta delle istituzioni statali baathiste ha aperto una finestra di opportunità che Netanyahu ha colto con la consueta spregiudicatezza. Mentre le forze armate siriane si squagliavano letteralmente di fronte all’offensiva jihadista, l’aeronautica e la marina israeliane lanciavano una devastante campagna di bombardamento contro le strutture militari siriane per prevenire una loro possibile cattura ad opera di forze “ostili”. L’Israeli Defense Force ha parlato di oltre 480 attacchi, che avrebbero portato alla distruzione del 70-80% delle risorse militari strategiche siriane da Damasco a Latakia, tra cui aerei, radar e siti di difesa aerea, navi militari e depositi di armi e munizioni.

Allo stesso tempo, le forze armate israeliane oltrepassavano la linea di demarcazione stabilita nel 1974, che pose fine alla Guerra dello Yom Kippur. L’obiettivo, recita un comunicato dell’Israeli Defense Force, consisteva nel creare un’ampia zona-cuscinetto e garantire così «la sicurezza delle comunità delle Alture del Golan e dei cittadini di Israele». Tsahal ha quindi occupato il versante siriano del Monte Hermon, tra le proteste di decine di Paesi che Netanyahu ha puntualmente ignorato, proclamando le alture del Golan parte integrante di Israele «per l’eternità». Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz ha rimarcato la “provvisorietà” dello sconfinamento israeliano, senza tuttavia indicare alcun orizzonte temporale previsto per la smobilitazione.

Le ragioni alla base della vaghezza dei comunicati ufficiali israeliani sul punto possono essere desunte dal contenuto di alcune riflessioni comparse negli ultimi giorni sulla stampa israeliana. È il caso del «Times of Israel», che il 4 dicembre ha pubblicato un editoriale a firma di Dan Ehrlich in cui si sosteneva apertamente la necessità di ricavare un lebensraum sufficientemente ampio da sostenere la crescita della popolazione israeliana, che secondo le proiezioni dovrebbe raggiungere gli 11,1 milioni entro il 2030, i 13,2 milioni entro il 2040 e i 15,2 milioni entro il 2048. Nel pezzo, poi rimosso dal sito del quotidiano presumibilmente per effetto degli inquietanti parallelismi suscitati con la strumentalizzazione del concetto di lebensraum ad opera del regime nazista, l’autore poneva l’accento sull’eccessiva esiguità della massa terrestre disponibile rispetto alle tendenze demografiche della popolazione che la abita. E adombrava pertanto l’incorporazione di Giudea e Samaria (cioè della Cisgiordania) come possibile soluzione al problema. La situazione di caos venutasi a determinare in Siria potrebbe verosimilmente indurre il governo di Tel Aviv a espandere le mire annessionistiche israeliane anche sulle aree meridionali del Paese. Forse, non limitatamente alle alture del Golan.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

See also

See also

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.