Italiano
Giulio Chinappi
October 23, 2025
© Photo: Public domain

Dopo gli attacchi ai pescherecci venezuelani e l’esclusione di Caracas, L’Avana e Managua dal Vertice delle Americhe, il Nobel a María Corina Machado appare come un nuovo tassello propagandistico per legittimare un’aggressione statunitense contro il Venezuela e la sua sovranità.

Segue nostro Telegram.

La traiettoria politica di María Corina Machado, recentemente insignita del Premio Nobel per la Pace, è inseparabile dalle principali offensive contro la democrazia venezuelana degli ultimi ventitré anni. La sua figura emerge pubblicamente nel 2002, nel pieno del golpe contro Hugo Chávez, quando firma il cosiddetto “Decreto Carmona”, un atto che pretendeva di dissolvere tutti i poteri pubblici cancellando in un colpo solo Costituzione, istituzioni e volontà popolare. Quella firma, che la storia bolivariana ha scolpito come emblema dell’avventurismo golpista, non fu un incidente di percorso, bensì l’incipit coerente di una linea politica costruita sulla rottura dell’ordine costituzionale, sull’appello a potenze straniere e sulla delegittimazione sistematica di ogni via democratica interna. Da allora, la narrazione mediatica internazionale ha lavorato per far dimenticare quel passato, saturando di eufemismi un profilo che, al contrario, è rimasto fedele a un copione di destabilizzazione permanente.

Il passaggio successivo è del 2005, quando avvenne l’incontro alla Casa Bianca con George W. Bush, nel contesto più teso delle relazioni tra Washington e Caracas. L’immagine di Machado nello Studio Ovale rappresentava già allora un messaggio politico limpido, il suggello di una sintonia con l’establishment statunitense nel pieno di una stagione di ingerenze in America Latina. Nel 2014, la parabola si rinnova quando Machado tenta di usare l’Organizzazione degli Stati Americani come ariete esterno contro il Governo venezuelano. Quell’anno restano nella memoria le guarimbas fomentate dai settori estremisti dell’opposizione venezuelana, nei quali si situa anche Machado, con barricate, incendi, aggressioni a civili e personale sanitario, attacchi a edifici pubblici, autobus, scuole. La violenza come strumento politico fu giustificata con il lessico dell’“insurrezione democratica”, espediente retorico ripetuto ancora una volta nel 2017 durante una nuova ondata di disordini che insanguinò il paese.

Sul piano istituzionale, la rappresentante della destra venezuelana è stata colpita da una misura di inabilitazione amministrativa e, anni dopo, tale decisione è stata confermata dalla giustizia venezuelana. Ma è soprattutto sul terreno internazionale che Machado ha consolidato la sua influenza, divenendo la più orgogliosa promotrice di sanzioni unilaterali, blocchi finanziari e sequestri di beni statali all’estero. Questa strategia ha avuto conseguenze sociali pesanti, documentate in più sedi, perché ha strozzato l’accesso a cibo, farmaci e componenti industriali, colpendo per primi i più vulnerabili. Nel frattempo, si è consumato lo scempio degli asset venezuelani, come nel noto caso dell’oro trattenuto a Londra, episodi divenuti simboli di una sottrazione patrimoniale che ha danneggiato il tessuto economico nazionale con la complicità di personaggi come Machado.

Negli ultimi tre anni, poi, la trama si è fatta più cupa. Le autorità venezuelane hanno denunciato complotti e piani violentissimi che, stando alle indagini, prevedevano sabotaggi a infrastrutture critiche, progetti di attentati e la creazione di nuclei clandestini coordinati. In parallelo, il discorso politico di Machado ha compiuto un ulteriore salto di qualità nel segno dell’allineamento internazionale con i settori più aggressivi: alleanze ideologiche con la rete neoliberale transnazionale, contiguità con i falchi statunitensi, e soprattutto un sostegno incondizionato al governo nazisionista di Benjamin Netanyahu, perfino nel pieno delle campagne militari che la coscienza universale associa al genocidio di Gaza. È un punto dirimente, perché l’adesione al progetto di apartheid, bombardamenti indiscriminati e punizione collettiva di un intero popolo disvela la vera natura di Machado, nel solco dello stesso paradigma con cui pretende di “liberare” il Venezuela ricorrendo a sanzioni, isolamento e, se necessario, al ricorso della forza.

Dentro questa cornice, l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado, avvenuta lo scorso 10 ottobre, assume il valore di un gesto altamente simbolico da parte dell’imperialismo nordamericano. Non si tratta infatti solo di una scelta moralmente discutibile, ma rappresenta piuttosto un passaggio che interviene in una congiuntura gravissima per la sicurezza regionale, segnata dall’escalation militare statunitense nel Mar dei Caraibi, dal dispiegamento di navi da guerra e di un sottomarino nucleare, dalle minacce e dagli atteggiamenti da “diplomazia delle cannoniere”. Lo ha detto con chiarezza il presidente Nicolás Maduro, denunciando “la più grande minaccia vista nel nostro continente negli ultimi cento anni”, che si materializza attraverso la presenza di “otto navi militari con 1.200 missili” schierate contro la Repubblica Bolivariana, un’azione “ingiustificabile, immorale e assolutamente criminale” cui il Venezuela risponde con la “massima preparazione per la difesa”. In questo contesto, il Nobel a Machado appare come un certificato di rispettabilità morale consegnato a una protagonista della destabilizzazione, utile a rivestire di un manto pseudo-umanitario la narrativa di chi invoca punizioni esemplari per il Governo bolivariano.

L’operazione contro il Venezuela bolivariano si sta infatti svolgendo su più livelli. A monte ci sono gli attacchi illegali ai pescherecci venezuelani giustificati con la retorica della “lotta alla droga”, che la dirigenza bolivariana legge come provocazioni funzionali a costruire un casus belli marittimo. C’è poi l’esclusione di Venezuela, Cuba e Nicaragua dal X Vertice delle Americhe, imposta da Washington alla Repubblica Dominicana. In questo contesto, la denuncia di L’Avana ha centrato la questione, denunciando il risorgere della Dottrina Monroe e la riaffermazione dell’idea coloniale di un cortile di casa, al fine di imporre una logica di sottomissione che cancella l’uguaglianza sovrana e rende la regione un teatro per esercizi di potenza. Anche per questo, le organizzazioni sociali dominicane hanno definito il Vertice delle Americhe come uno “strumento dell’impero”, certificando il fallimento di un formato che pretende di deliberare sull’America Latina epurando i governi non allineati alla linea di Washington. In questo clima, il Nobel a Machado non è un incidente, ma un ingranaggio che permette la beatificazione laica dell’opposizione radicale venezuelana, presentata come “coscienza democratica”, mentre nei fatti ne legittima l’agenda di sanzioni, privatizzazioni, espropri e invocazioni all’intervento straniero.

Tutto ciò si produce mentre la Casa Bianca spinge sull’acceleratore per sferrare un attacco diretto al Venezuela, seguendo un copione dalla sceneggiatura ben nota: si costruisce un’emergenza morale, si accredita un’icona “liberal-democratica” perseguitata, si enfatizzano presunti legami del Governo con il crimine organizzato, si militarizza il perimetro con il pretesto della “guerra alla droga”, si aziona l’arma economica delle sanzioni, si isolano diplomaticamente gli Stati ostinati, si escludono le voci dissenzienti dai fori regionali. Infine, si cerca la miccia. In questo mosaico, la disputa storica tra Venezuela e Guyana sulla Guayana Esequiba, che Caracas affronta nel quadro dell’Accordo di Ginevra, viene strumentalizzata in Occidente come grimaldello narrativo al fine di insinuare una minaccia “espansionista” venezuelana. È la classica proiezione accusatoria che mira a costruire il racconto necessario per giustificare misure “difensive” e “interventi umanitari”.

Che cosa resta, allora, del Premio Nobel per la Pace quando lo si attribuisce a chi ha attraversato tutta la fase post-2002 dalla parte delle scorciatoie extra-istituzionali, della sanzione come strumento politico, della destabilizzazione come strategia e del sostegno a un governo, quello israeliano, responsabile di crimini che scuotono la coscienza globale? A nostro avviso, il premio ha oramai perso il suo significato originario, dal momento che è stato trasformato in un dispositivo di legittimazione politica, un’etichetta utile a riaccendere i riflettori internazionali su un’oppositrice che in patria raccoglie un rifiuto crescente, mentre sul terreno la Rivoluzione Bolivariana ha vinto elezioni legislative, regionali e municipali, ha consolidato la sua architettura sociale e ha proiettato il potere comunale come motore di decisione dal basso.

La nostra tesi, a questo punto, non è più azzardata ma ragionevole: Washington sta predisponendo, sul piano simbolico, mediatico e militare, le condizioni per una futura aggressione al Venezuela. Gli attacchi ai pescherecci, la militarizzazione del Caribe, l’espulsione dal Vertice delle Americhe e la santificazione mediatica di Machado costituiscono segmenti di una stessa concatenazione. Di fronte a tutto questo, la risposta venezuelana ha due registri complementari. Da un lato, la diplomazia e il diritto internazionale: la denuncia all’ONU di un comportamento contrario al Trattato di Tlatelolco e alla Carta delle Nazioni Unite, il richiamo alla Zona di Pace latinoamericana, la richiesta di garanzie verificabili sul non impiego di armi nucleari nella regione. Dall’altro, la mobilitazione popolare e la dottrina della difesa integrale, con lo stato d’allerta della Milizia Bolivariana, l’unità civico-militare e la preparazione del Sistema Difensivo Nazionale.

Premio Nobel per la Guerra: gli Stati Uniti preparano l’invasione del Venezuela

Dopo gli attacchi ai pescherecci venezuelani e l’esclusione di Caracas, L’Avana e Managua dal Vertice delle Americhe, il Nobel a María Corina Machado appare come un nuovo tassello propagandistico per legittimare un’aggressione statunitense contro il Venezuela e la sua sovranità.

Segue nostro Telegram.

La traiettoria politica di María Corina Machado, recentemente insignita del Premio Nobel per la Pace, è inseparabile dalle principali offensive contro la democrazia venezuelana degli ultimi ventitré anni. La sua figura emerge pubblicamente nel 2002, nel pieno del golpe contro Hugo Chávez, quando firma il cosiddetto “Decreto Carmona”, un atto che pretendeva di dissolvere tutti i poteri pubblici cancellando in un colpo solo Costituzione, istituzioni e volontà popolare. Quella firma, che la storia bolivariana ha scolpito come emblema dell’avventurismo golpista, non fu un incidente di percorso, bensì l’incipit coerente di una linea politica costruita sulla rottura dell’ordine costituzionale, sull’appello a potenze straniere e sulla delegittimazione sistematica di ogni via democratica interna. Da allora, la narrazione mediatica internazionale ha lavorato per far dimenticare quel passato, saturando di eufemismi un profilo che, al contrario, è rimasto fedele a un copione di destabilizzazione permanente.

Il passaggio successivo è del 2005, quando avvenne l’incontro alla Casa Bianca con George W. Bush, nel contesto più teso delle relazioni tra Washington e Caracas. L’immagine di Machado nello Studio Ovale rappresentava già allora un messaggio politico limpido, il suggello di una sintonia con l’establishment statunitense nel pieno di una stagione di ingerenze in America Latina. Nel 2014, la parabola si rinnova quando Machado tenta di usare l’Organizzazione degli Stati Americani come ariete esterno contro il Governo venezuelano. Quell’anno restano nella memoria le guarimbas fomentate dai settori estremisti dell’opposizione venezuelana, nei quali si situa anche Machado, con barricate, incendi, aggressioni a civili e personale sanitario, attacchi a edifici pubblici, autobus, scuole. La violenza come strumento politico fu giustificata con il lessico dell’“insurrezione democratica”, espediente retorico ripetuto ancora una volta nel 2017 durante una nuova ondata di disordini che insanguinò il paese.

Sul piano istituzionale, la rappresentante della destra venezuelana è stata colpita da una misura di inabilitazione amministrativa e, anni dopo, tale decisione è stata confermata dalla giustizia venezuelana. Ma è soprattutto sul terreno internazionale che Machado ha consolidato la sua influenza, divenendo la più orgogliosa promotrice di sanzioni unilaterali, blocchi finanziari e sequestri di beni statali all’estero. Questa strategia ha avuto conseguenze sociali pesanti, documentate in più sedi, perché ha strozzato l’accesso a cibo, farmaci e componenti industriali, colpendo per primi i più vulnerabili. Nel frattempo, si è consumato lo scempio degli asset venezuelani, come nel noto caso dell’oro trattenuto a Londra, episodi divenuti simboli di una sottrazione patrimoniale che ha danneggiato il tessuto economico nazionale con la complicità di personaggi come Machado.

Negli ultimi tre anni, poi, la trama si è fatta più cupa. Le autorità venezuelane hanno denunciato complotti e piani violentissimi che, stando alle indagini, prevedevano sabotaggi a infrastrutture critiche, progetti di attentati e la creazione di nuclei clandestini coordinati. In parallelo, il discorso politico di Machado ha compiuto un ulteriore salto di qualità nel segno dell’allineamento internazionale con i settori più aggressivi: alleanze ideologiche con la rete neoliberale transnazionale, contiguità con i falchi statunitensi, e soprattutto un sostegno incondizionato al governo nazisionista di Benjamin Netanyahu, perfino nel pieno delle campagne militari che la coscienza universale associa al genocidio di Gaza. È un punto dirimente, perché l’adesione al progetto di apartheid, bombardamenti indiscriminati e punizione collettiva di un intero popolo disvela la vera natura di Machado, nel solco dello stesso paradigma con cui pretende di “liberare” il Venezuela ricorrendo a sanzioni, isolamento e, se necessario, al ricorso della forza.

Dentro questa cornice, l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado, avvenuta lo scorso 10 ottobre, assume il valore di un gesto altamente simbolico da parte dell’imperialismo nordamericano. Non si tratta infatti solo di una scelta moralmente discutibile, ma rappresenta piuttosto un passaggio che interviene in una congiuntura gravissima per la sicurezza regionale, segnata dall’escalation militare statunitense nel Mar dei Caraibi, dal dispiegamento di navi da guerra e di un sottomarino nucleare, dalle minacce e dagli atteggiamenti da “diplomazia delle cannoniere”. Lo ha detto con chiarezza il presidente Nicolás Maduro, denunciando “la più grande minaccia vista nel nostro continente negli ultimi cento anni”, che si materializza attraverso la presenza di “otto navi militari con 1.200 missili” schierate contro la Repubblica Bolivariana, un’azione “ingiustificabile, immorale e assolutamente criminale” cui il Venezuela risponde con la “massima preparazione per la difesa”. In questo contesto, il Nobel a Machado appare come un certificato di rispettabilità morale consegnato a una protagonista della destabilizzazione, utile a rivestire di un manto pseudo-umanitario la narrativa di chi invoca punizioni esemplari per il Governo bolivariano.

L’operazione contro il Venezuela bolivariano si sta infatti svolgendo su più livelli. A monte ci sono gli attacchi illegali ai pescherecci venezuelani giustificati con la retorica della “lotta alla droga”, che la dirigenza bolivariana legge come provocazioni funzionali a costruire un casus belli marittimo. C’è poi l’esclusione di Venezuela, Cuba e Nicaragua dal X Vertice delle Americhe, imposta da Washington alla Repubblica Dominicana. In questo contesto, la denuncia di L’Avana ha centrato la questione, denunciando il risorgere della Dottrina Monroe e la riaffermazione dell’idea coloniale di un cortile di casa, al fine di imporre una logica di sottomissione che cancella l’uguaglianza sovrana e rende la regione un teatro per esercizi di potenza. Anche per questo, le organizzazioni sociali dominicane hanno definito il Vertice delle Americhe come uno “strumento dell’impero”, certificando il fallimento di un formato che pretende di deliberare sull’America Latina epurando i governi non allineati alla linea di Washington. In questo clima, il Nobel a Machado non è un incidente, ma un ingranaggio che permette la beatificazione laica dell’opposizione radicale venezuelana, presentata come “coscienza democratica”, mentre nei fatti ne legittima l’agenda di sanzioni, privatizzazioni, espropri e invocazioni all’intervento straniero.

Tutto ciò si produce mentre la Casa Bianca spinge sull’acceleratore per sferrare un attacco diretto al Venezuela, seguendo un copione dalla sceneggiatura ben nota: si costruisce un’emergenza morale, si accredita un’icona “liberal-democratica” perseguitata, si enfatizzano presunti legami del Governo con il crimine organizzato, si militarizza il perimetro con il pretesto della “guerra alla droga”, si aziona l’arma economica delle sanzioni, si isolano diplomaticamente gli Stati ostinati, si escludono le voci dissenzienti dai fori regionali. Infine, si cerca la miccia. In questo mosaico, la disputa storica tra Venezuela e Guyana sulla Guayana Esequiba, che Caracas affronta nel quadro dell’Accordo di Ginevra, viene strumentalizzata in Occidente come grimaldello narrativo al fine di insinuare una minaccia “espansionista” venezuelana. È la classica proiezione accusatoria che mira a costruire il racconto necessario per giustificare misure “difensive” e “interventi umanitari”.

Che cosa resta, allora, del Premio Nobel per la Pace quando lo si attribuisce a chi ha attraversato tutta la fase post-2002 dalla parte delle scorciatoie extra-istituzionali, della sanzione come strumento politico, della destabilizzazione come strategia e del sostegno a un governo, quello israeliano, responsabile di crimini che scuotono la coscienza globale? A nostro avviso, il premio ha oramai perso il suo significato originario, dal momento che è stato trasformato in un dispositivo di legittimazione politica, un’etichetta utile a riaccendere i riflettori internazionali su un’oppositrice che in patria raccoglie un rifiuto crescente, mentre sul terreno la Rivoluzione Bolivariana ha vinto elezioni legislative, regionali e municipali, ha consolidato la sua architettura sociale e ha proiettato il potere comunale come motore di decisione dal basso.

La nostra tesi, a questo punto, non è più azzardata ma ragionevole: Washington sta predisponendo, sul piano simbolico, mediatico e militare, le condizioni per una futura aggressione al Venezuela. Gli attacchi ai pescherecci, la militarizzazione del Caribe, l’espulsione dal Vertice delle Americhe e la santificazione mediatica di Machado costituiscono segmenti di una stessa concatenazione. Di fronte a tutto questo, la risposta venezuelana ha due registri complementari. Da un lato, la diplomazia e il diritto internazionale: la denuncia all’ONU di un comportamento contrario al Trattato di Tlatelolco e alla Carta delle Nazioni Unite, il richiamo alla Zona di Pace latinoamericana, la richiesta di garanzie verificabili sul non impiego di armi nucleari nella regione. Dall’altro, la mobilitazione popolare e la dottrina della difesa integrale, con lo stato d’allerta della Milizia Bolivariana, l’unità civico-militare e la preparazione del Sistema Difensivo Nazionale.

Dopo gli attacchi ai pescherecci venezuelani e l’esclusione di Caracas, L’Avana e Managua dal Vertice delle Americhe, il Nobel a María Corina Machado appare come un nuovo tassello propagandistico per legittimare un’aggressione statunitense contro il Venezuela e la sua sovranità.

Segue nostro Telegram.

La traiettoria politica di María Corina Machado, recentemente insignita del Premio Nobel per la Pace, è inseparabile dalle principali offensive contro la democrazia venezuelana degli ultimi ventitré anni. La sua figura emerge pubblicamente nel 2002, nel pieno del golpe contro Hugo Chávez, quando firma il cosiddetto “Decreto Carmona”, un atto che pretendeva di dissolvere tutti i poteri pubblici cancellando in un colpo solo Costituzione, istituzioni e volontà popolare. Quella firma, che la storia bolivariana ha scolpito come emblema dell’avventurismo golpista, non fu un incidente di percorso, bensì l’incipit coerente di una linea politica costruita sulla rottura dell’ordine costituzionale, sull’appello a potenze straniere e sulla delegittimazione sistematica di ogni via democratica interna. Da allora, la narrazione mediatica internazionale ha lavorato per far dimenticare quel passato, saturando di eufemismi un profilo che, al contrario, è rimasto fedele a un copione di destabilizzazione permanente.

Il passaggio successivo è del 2005, quando avvenne l’incontro alla Casa Bianca con George W. Bush, nel contesto più teso delle relazioni tra Washington e Caracas. L’immagine di Machado nello Studio Ovale rappresentava già allora un messaggio politico limpido, il suggello di una sintonia con l’establishment statunitense nel pieno di una stagione di ingerenze in America Latina. Nel 2014, la parabola si rinnova quando Machado tenta di usare l’Organizzazione degli Stati Americani come ariete esterno contro il Governo venezuelano. Quell’anno restano nella memoria le guarimbas fomentate dai settori estremisti dell’opposizione venezuelana, nei quali si situa anche Machado, con barricate, incendi, aggressioni a civili e personale sanitario, attacchi a edifici pubblici, autobus, scuole. La violenza come strumento politico fu giustificata con il lessico dell’“insurrezione democratica”, espediente retorico ripetuto ancora una volta nel 2017 durante una nuova ondata di disordini che insanguinò il paese.

Sul piano istituzionale, la rappresentante della destra venezuelana è stata colpita da una misura di inabilitazione amministrativa e, anni dopo, tale decisione è stata confermata dalla giustizia venezuelana. Ma è soprattutto sul terreno internazionale che Machado ha consolidato la sua influenza, divenendo la più orgogliosa promotrice di sanzioni unilaterali, blocchi finanziari e sequestri di beni statali all’estero. Questa strategia ha avuto conseguenze sociali pesanti, documentate in più sedi, perché ha strozzato l’accesso a cibo, farmaci e componenti industriali, colpendo per primi i più vulnerabili. Nel frattempo, si è consumato lo scempio degli asset venezuelani, come nel noto caso dell’oro trattenuto a Londra, episodi divenuti simboli di una sottrazione patrimoniale che ha danneggiato il tessuto economico nazionale con la complicità di personaggi come Machado.

Negli ultimi tre anni, poi, la trama si è fatta più cupa. Le autorità venezuelane hanno denunciato complotti e piani violentissimi che, stando alle indagini, prevedevano sabotaggi a infrastrutture critiche, progetti di attentati e la creazione di nuclei clandestini coordinati. In parallelo, il discorso politico di Machado ha compiuto un ulteriore salto di qualità nel segno dell’allineamento internazionale con i settori più aggressivi: alleanze ideologiche con la rete neoliberale transnazionale, contiguità con i falchi statunitensi, e soprattutto un sostegno incondizionato al governo nazisionista di Benjamin Netanyahu, perfino nel pieno delle campagne militari che la coscienza universale associa al genocidio di Gaza. È un punto dirimente, perché l’adesione al progetto di apartheid, bombardamenti indiscriminati e punizione collettiva di un intero popolo disvela la vera natura di Machado, nel solco dello stesso paradigma con cui pretende di “liberare” il Venezuela ricorrendo a sanzioni, isolamento e, se necessario, al ricorso della forza.

Dentro questa cornice, l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado, avvenuta lo scorso 10 ottobre, assume il valore di un gesto altamente simbolico da parte dell’imperialismo nordamericano. Non si tratta infatti solo di una scelta moralmente discutibile, ma rappresenta piuttosto un passaggio che interviene in una congiuntura gravissima per la sicurezza regionale, segnata dall’escalation militare statunitense nel Mar dei Caraibi, dal dispiegamento di navi da guerra e di un sottomarino nucleare, dalle minacce e dagli atteggiamenti da “diplomazia delle cannoniere”. Lo ha detto con chiarezza il presidente Nicolás Maduro, denunciando “la più grande minaccia vista nel nostro continente negli ultimi cento anni”, che si materializza attraverso la presenza di “otto navi militari con 1.200 missili” schierate contro la Repubblica Bolivariana, un’azione “ingiustificabile, immorale e assolutamente criminale” cui il Venezuela risponde con la “massima preparazione per la difesa”. In questo contesto, il Nobel a Machado appare come un certificato di rispettabilità morale consegnato a una protagonista della destabilizzazione, utile a rivestire di un manto pseudo-umanitario la narrativa di chi invoca punizioni esemplari per il Governo bolivariano.

L’operazione contro il Venezuela bolivariano si sta infatti svolgendo su più livelli. A monte ci sono gli attacchi illegali ai pescherecci venezuelani giustificati con la retorica della “lotta alla droga”, che la dirigenza bolivariana legge come provocazioni funzionali a costruire un casus belli marittimo. C’è poi l’esclusione di Venezuela, Cuba e Nicaragua dal X Vertice delle Americhe, imposta da Washington alla Repubblica Dominicana. In questo contesto, la denuncia di L’Avana ha centrato la questione, denunciando il risorgere della Dottrina Monroe e la riaffermazione dell’idea coloniale di un cortile di casa, al fine di imporre una logica di sottomissione che cancella l’uguaglianza sovrana e rende la regione un teatro per esercizi di potenza. Anche per questo, le organizzazioni sociali dominicane hanno definito il Vertice delle Americhe come uno “strumento dell’impero”, certificando il fallimento di un formato che pretende di deliberare sull’America Latina epurando i governi non allineati alla linea di Washington. In questo clima, il Nobel a Machado non è un incidente, ma un ingranaggio che permette la beatificazione laica dell’opposizione radicale venezuelana, presentata come “coscienza democratica”, mentre nei fatti ne legittima l’agenda di sanzioni, privatizzazioni, espropri e invocazioni all’intervento straniero.

Tutto ciò si produce mentre la Casa Bianca spinge sull’acceleratore per sferrare un attacco diretto al Venezuela, seguendo un copione dalla sceneggiatura ben nota: si costruisce un’emergenza morale, si accredita un’icona “liberal-democratica” perseguitata, si enfatizzano presunti legami del Governo con il crimine organizzato, si militarizza il perimetro con il pretesto della “guerra alla droga”, si aziona l’arma economica delle sanzioni, si isolano diplomaticamente gli Stati ostinati, si escludono le voci dissenzienti dai fori regionali. Infine, si cerca la miccia. In questo mosaico, la disputa storica tra Venezuela e Guyana sulla Guayana Esequiba, che Caracas affronta nel quadro dell’Accordo di Ginevra, viene strumentalizzata in Occidente come grimaldello narrativo al fine di insinuare una minaccia “espansionista” venezuelana. È la classica proiezione accusatoria che mira a costruire il racconto necessario per giustificare misure “difensive” e “interventi umanitari”.

Che cosa resta, allora, del Premio Nobel per la Pace quando lo si attribuisce a chi ha attraversato tutta la fase post-2002 dalla parte delle scorciatoie extra-istituzionali, della sanzione come strumento politico, della destabilizzazione come strategia e del sostegno a un governo, quello israeliano, responsabile di crimini che scuotono la coscienza globale? A nostro avviso, il premio ha oramai perso il suo significato originario, dal momento che è stato trasformato in un dispositivo di legittimazione politica, un’etichetta utile a riaccendere i riflettori internazionali su un’oppositrice che in patria raccoglie un rifiuto crescente, mentre sul terreno la Rivoluzione Bolivariana ha vinto elezioni legislative, regionali e municipali, ha consolidato la sua architettura sociale e ha proiettato il potere comunale come motore di decisione dal basso.

La nostra tesi, a questo punto, non è più azzardata ma ragionevole: Washington sta predisponendo, sul piano simbolico, mediatico e militare, le condizioni per una futura aggressione al Venezuela. Gli attacchi ai pescherecci, la militarizzazione del Caribe, l’espulsione dal Vertice delle Americhe e la santificazione mediatica di Machado costituiscono segmenti di una stessa concatenazione. Di fronte a tutto questo, la risposta venezuelana ha due registri complementari. Da un lato, la diplomazia e il diritto internazionale: la denuncia all’ONU di un comportamento contrario al Trattato di Tlatelolco e alla Carta delle Nazioni Unite, il richiamo alla Zona di Pace latinoamericana, la richiesta di garanzie verificabili sul non impiego di armi nucleari nella regione. Dall’altro, la mobilitazione popolare e la dottrina della difesa integrale, con lo stato d’allerta della Milizia Bolivariana, l’unità civico-militare e la preparazione del Sistema Difensivo Nazionale.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

See also

See also

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.