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Davide Rossi
September 21, 2025
© Photo: Public domain

Gli huthi yemeniti hanno organizzato a metà settembre 2025 un convegno mondiale dedicato alla pace, ma le bombe sioniste, che ogni giorno mietono morti, feriti e distruzioni non solo nella capitale, sbarrano la strada verso Sana’a, lasciando alcuni partecipanti a Jizan

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Gli huthi yemeniti hanno organizzato a metà settembre 2025 un convegno mondiale dedicato alla pace, ma le bombe sioniste, che ogni giorno mietono morti, feriti e distruzioni non solo nella capitale, sbarrano la strada verso Sana’a, lasciando alcuni partecipanti a Jizan ultimo lembo di terra saudita nel mar Rosso, non lontano da quell’incrocio economico, politico e geografico rappresentato dallo stretto di Bab el Mandeb, porta d’ingresso verso l’Europa dall’Indo – Pacifico, vigilata ufficialmente dalle quattro nazioni che ne governano il passaggio: Gibuti, Eritrea, Somalia e Yemen, in realtà la Somalia è quella anglofona a controllo statunitense detta Somaliland, per parte yemenita dipende dalle giornate sapere se la pertinenza dello stretto sia degli huthi del Consiglio Politico Supremo, oppure dello screditato Consiglio Direttivo Presidenziale, o ancora del confuso Consiglio di Transizione Meridionale sostenuto sempre più stancamente dagli emiratini, o ancora dai pericolosi rappresentanti di al-Qaida nella Penisola Arabica – AQAP e dei loro alleati di Ansar al-Sharia, per non dire del Congresso Generale del Popolo e della Resistenza Nazionale Yemenita, anch’essi alla ricerca di uno spazio per molti aspetti più tribale che politico. Tra i gibutini è risaputo che più del loro esercito contino le basi straniere, non solo la statunitense e la cinese, ma anche – forse non tutti lo ricordano – le forze militari presenti di Francia, Giappone, Italia, Germania, Spagna e Arabia Saudita. Solo l’Eritrea dal ridente porto commerciale di Assab oggi ingolfato di navi porta – container in transito, ceduto nel 1882 dalla Compagnia Rubattino per quattrocentomila lire, duecento euro odierni, al governo sabaudo, dopo averla rilevata dai signori locali nel 1869 e all’origine delle avventure coloniali italiane, guarda con un certo distacco l’intricato affollamento commerciale e militare intorno a quello specchio d’acqua.

Nel 1882 Assab contava 162 abitanti, undici italiani, cinquantacinque arabi e novantatré eritrei, distinti con rigoroso censimento, oggi gli oltre ventimila cittadini del porto eritreo confidano negli accordi stretti tra il loro presidente Isaias Afewerki, da un trentennio alla guida del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia che fa dell’Eritrea un’originale esperienza socialista, con Mohammad bin Salman, al fine di inserire il porto e la cittadina all’interno di un partenariato con i sauditi volto a promuovere un generale ammodernamento infrastrutturale ed edilizio, il tutto dentro il progetto saudita “Visione 2030”.

A Jizan è un caldissimo settembre anche carico di pesante umidità, le notti sono illuminate da comete poco natalizie, volano infatti costantemente, seppure all’apparenza lontani e fiochi all’orizzonte, i missili tra Israele e Yemen in entrambe le direzioni e il loro ritmo è incessante, sebbene Jizan e i suoi centocinquantamila abitanti e gli oltre un milione e mezzo nella regione circostante, pare guardino distrattamente questo dardeggiare nei cieli stellati.

Riyad, Jedda, Mecca e Medina, queste sono le principali città saudite e al contempo è in effervescente sviluppo turistico il nord di questa nazione, con i suoi resti archeologici e le sue civiltà, tanto quelle contemporanee dei popoli mesopotamici, quanto quella più tarda dei nabatei, noti per l’oggi giordana Petra.

Jizan è poco frequentata, estrema propaggine di una nazione che in ogni caso ha deciso di correre verso la modernità, stretta tra l’irruenza del deserto, con colline e dune che si approssimano alla città, e la bellezza cristallina del mar Rosso. Inaspettatamente è terra capace di produrre in abbondanza datteri e fichi, ma anche caffè, mango e papaya, non solo dunque polo infrastrutturale per la navigazione nel Mar Rosso, ma anche turistico con le isole ricche di barriere coralline antistanti la cittadina portuale, senza disdegnare una vocazione per l’agricoltura e la pastorizia, con capre e cammelli al pascolo nei dintorni e sul limitare della zona abitata e per altro in espansione.

Di fatto tutta Jizan è una città in evoluzione, porto, servizi, case, moschee, alberghi, spazi turistici, infrastrutture, tutto è un moltiplicarsi di cantieri, non mancano per le strade cartelloni con svettanti grattacieli, qui ancora non edificati ma già promessi, immagine di un futuro a detta di tutti imminente, pinnacoli chiamati a sorgere rapidamente in ragione della citata “Visione 2030”, come confermano gli operai della fonderia di alluminio all’opera per i progetti cittadini e la componentistica di complemento dei pannelli solari.

Per il momento è la Saudi Aramco, per esteso “Arabian American Oil Company”, anche se da tempo è totalmente statale e il termine “American” inserito alla fondazione nel 1933 è solo un lontano ricordo, ad aver costruito in tempi recenti una raffineria capace di produrre mezzo milione di barili di petrolio al giorno, certo solo un ventesimo rispetto ai dieci milioni di barili complessivamente prodotti dalla compagnia petrolifera e di gas tra le più grandi del mondo, a pari merito con le due cinesi China Petrochemical Corporation Increase e China National Petroleum Corporation, tuttavia non poco per la società che dall’altra parte di questa vasta nazione ha la sede centrale, sulle rive del golfo Persico a Dhahran.

Qui opera anche l’italiana SAIPEM che ha realizzato una centrale elettrica funzionante attraverso la tecnologia della gassificazione, alimentata principalmente con i residui della distillazione ottenuti nella raffineria di Saudi Aramco, nonché con olio combustibile ad alto tasso di zolfo, la centrale non solo provvede al fabbisogno di energia elettrica della raffineria, ma garantisce anche una interessante quantità di energia per la rete elettrica nazionale saudita.

Vivace dinamicità della società saudita, formata da giovani, in cui l’emancipazione femminile ha compiuto notevoli progressi negli ultimi anni e in cui le speranze di pace e di benessere si proiettano verso il futuro con tutto quel carico di speranze tanto difficili da riscontrare nelle società occidentali, una speranza alimentata anche dalla partecipazione recente ma altrettanto convinta al progetto multipolare sino – russo.

L’ottimismo sul futuro del Medioriente è un vero e proprio atto di coraggio, mentre la tragedia palestinese pare senza fine e il terrorismo sionista si espande coinvolgendo ogni giorno nuove nazioni della regione, vedasi negli stessi giorni il brutale assassinio dei negoziatori palestinesi a Doha in Qatar.

Sulle televisioni saudite scorrono le immagini dello sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, primo ministro del Qatar, mentre presiede nella capitale qatarina unìassise internazionale convocata d’urgenza in cui sono presenti rappresentanti d’alto livello del mondo arabo e più in generale di quello islamico, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, l’iraniano Masoud Pezeshkian, l’egiziano Abdel-Fattah al-Sisi, il libanese Joseph Aoun, il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo di Stato del Sudan, il primo ministro iracheno Mohammed Shia al-Sudani, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il re di Giordania Abdullah II, il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif, nonché il presidente post – golpista siriano Ahmed al-Sharaa, più la presenza di svariati ministri degli esteri.

Il documento finale sottoscritto dai presenti a Doha riconosce l’entità statuale sionista responsabile di genocidio, pulizia etnica, carestia, assedio, attività colonizzatrici e politiche di espansione territoriale a danno dei palestinesi e delle nazioni della regione, nonché di terrorismo, come quello messo in atto contro il Qatar. La titubanza, non tanto di turchi e iraniani, quanto dei membri della Lega Araba, dovrebbero portare, se non a un ufficiale disconoscimento degli “Accordi di Abramo”, voluti da Trump del 2020, almeno a una loro effettiva archiviazione.

Tutto questo appare lontano agli occhi delle giovani coppie che cercano l’ultimo raggio del sole calante passeggiando per il lungomare di Jizan, apparentemente lontane dalla complessità del tempo presente e assolutamente interessate a un futuro di cui sentono di poter essere protagoniste nel solco della portentosa modernizzazione condotta dall’attuale governo saudita.

La saudita Jizan e lo stretto conteso di Bab el Mandeb

Gli huthi yemeniti hanno organizzato a metà settembre 2025 un convegno mondiale dedicato alla pace, ma le bombe sioniste, che ogni giorno mietono morti, feriti e distruzioni non solo nella capitale, sbarrano la strada verso Sana’a, lasciando alcuni partecipanti a Jizan

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Gli huthi yemeniti hanno organizzato a metà settembre 2025 un convegno mondiale dedicato alla pace, ma le bombe sioniste, che ogni giorno mietono morti, feriti e distruzioni non solo nella capitale, sbarrano la strada verso Sana’a, lasciando alcuni partecipanti a Jizan ultimo lembo di terra saudita nel mar Rosso, non lontano da quell’incrocio economico, politico e geografico rappresentato dallo stretto di Bab el Mandeb, porta d’ingresso verso l’Europa dall’Indo – Pacifico, vigilata ufficialmente dalle quattro nazioni che ne governano il passaggio: Gibuti, Eritrea, Somalia e Yemen, in realtà la Somalia è quella anglofona a controllo statunitense detta Somaliland, per parte yemenita dipende dalle giornate sapere se la pertinenza dello stretto sia degli huthi del Consiglio Politico Supremo, oppure dello screditato Consiglio Direttivo Presidenziale, o ancora del confuso Consiglio di Transizione Meridionale sostenuto sempre più stancamente dagli emiratini, o ancora dai pericolosi rappresentanti di al-Qaida nella Penisola Arabica – AQAP e dei loro alleati di Ansar al-Sharia, per non dire del Congresso Generale del Popolo e della Resistenza Nazionale Yemenita, anch’essi alla ricerca di uno spazio per molti aspetti più tribale che politico. Tra i gibutini è risaputo che più del loro esercito contino le basi straniere, non solo la statunitense e la cinese, ma anche – forse non tutti lo ricordano – le forze militari presenti di Francia, Giappone, Italia, Germania, Spagna e Arabia Saudita. Solo l’Eritrea dal ridente porto commerciale di Assab oggi ingolfato di navi porta – container in transito, ceduto nel 1882 dalla Compagnia Rubattino per quattrocentomila lire, duecento euro odierni, al governo sabaudo, dopo averla rilevata dai signori locali nel 1869 e all’origine delle avventure coloniali italiane, guarda con un certo distacco l’intricato affollamento commerciale e militare intorno a quello specchio d’acqua.

Nel 1882 Assab contava 162 abitanti, undici italiani, cinquantacinque arabi e novantatré eritrei, distinti con rigoroso censimento, oggi gli oltre ventimila cittadini del porto eritreo confidano negli accordi stretti tra il loro presidente Isaias Afewerki, da un trentennio alla guida del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia che fa dell’Eritrea un’originale esperienza socialista, con Mohammad bin Salman, al fine di inserire il porto e la cittadina all’interno di un partenariato con i sauditi volto a promuovere un generale ammodernamento infrastrutturale ed edilizio, il tutto dentro il progetto saudita “Visione 2030”.

A Jizan è un caldissimo settembre anche carico di pesante umidità, le notti sono illuminate da comete poco natalizie, volano infatti costantemente, seppure all’apparenza lontani e fiochi all’orizzonte, i missili tra Israele e Yemen in entrambe le direzioni e il loro ritmo è incessante, sebbene Jizan e i suoi centocinquantamila abitanti e gli oltre un milione e mezzo nella regione circostante, pare guardino distrattamente questo dardeggiare nei cieli stellati.

Riyad, Jedda, Mecca e Medina, queste sono le principali città saudite e al contempo è in effervescente sviluppo turistico il nord di questa nazione, con i suoi resti archeologici e le sue civiltà, tanto quelle contemporanee dei popoli mesopotamici, quanto quella più tarda dei nabatei, noti per l’oggi giordana Petra.

Jizan è poco frequentata, estrema propaggine di una nazione che in ogni caso ha deciso di correre verso la modernità, stretta tra l’irruenza del deserto, con colline e dune che si approssimano alla città, e la bellezza cristallina del mar Rosso. Inaspettatamente è terra capace di produrre in abbondanza datteri e fichi, ma anche caffè, mango e papaya, non solo dunque polo infrastrutturale per la navigazione nel Mar Rosso, ma anche turistico con le isole ricche di barriere coralline antistanti la cittadina portuale, senza disdegnare una vocazione per l’agricoltura e la pastorizia, con capre e cammelli al pascolo nei dintorni e sul limitare della zona abitata e per altro in espansione.

Di fatto tutta Jizan è una città in evoluzione, porto, servizi, case, moschee, alberghi, spazi turistici, infrastrutture, tutto è un moltiplicarsi di cantieri, non mancano per le strade cartelloni con svettanti grattacieli, qui ancora non edificati ma già promessi, immagine di un futuro a detta di tutti imminente, pinnacoli chiamati a sorgere rapidamente in ragione della citata “Visione 2030”, come confermano gli operai della fonderia di alluminio all’opera per i progetti cittadini e la componentistica di complemento dei pannelli solari.

Per il momento è la Saudi Aramco, per esteso “Arabian American Oil Company”, anche se da tempo è totalmente statale e il termine “American” inserito alla fondazione nel 1933 è solo un lontano ricordo, ad aver costruito in tempi recenti una raffineria capace di produrre mezzo milione di barili di petrolio al giorno, certo solo un ventesimo rispetto ai dieci milioni di barili complessivamente prodotti dalla compagnia petrolifera e di gas tra le più grandi del mondo, a pari merito con le due cinesi China Petrochemical Corporation Increase e China National Petroleum Corporation, tuttavia non poco per la società che dall’altra parte di questa vasta nazione ha la sede centrale, sulle rive del golfo Persico a Dhahran.

Qui opera anche l’italiana SAIPEM che ha realizzato una centrale elettrica funzionante attraverso la tecnologia della gassificazione, alimentata principalmente con i residui della distillazione ottenuti nella raffineria di Saudi Aramco, nonché con olio combustibile ad alto tasso di zolfo, la centrale non solo provvede al fabbisogno di energia elettrica della raffineria, ma garantisce anche una interessante quantità di energia per la rete elettrica nazionale saudita.

Vivace dinamicità della società saudita, formata da giovani, in cui l’emancipazione femminile ha compiuto notevoli progressi negli ultimi anni e in cui le speranze di pace e di benessere si proiettano verso il futuro con tutto quel carico di speranze tanto difficili da riscontrare nelle società occidentali, una speranza alimentata anche dalla partecipazione recente ma altrettanto convinta al progetto multipolare sino – russo.

L’ottimismo sul futuro del Medioriente è un vero e proprio atto di coraggio, mentre la tragedia palestinese pare senza fine e il terrorismo sionista si espande coinvolgendo ogni giorno nuove nazioni della regione, vedasi negli stessi giorni il brutale assassinio dei negoziatori palestinesi a Doha in Qatar.

Sulle televisioni saudite scorrono le immagini dello sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, primo ministro del Qatar, mentre presiede nella capitale qatarina unìassise internazionale convocata d’urgenza in cui sono presenti rappresentanti d’alto livello del mondo arabo e più in generale di quello islamico, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, l’iraniano Masoud Pezeshkian, l’egiziano Abdel-Fattah al-Sisi, il libanese Joseph Aoun, il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo di Stato del Sudan, il primo ministro iracheno Mohammed Shia al-Sudani, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il re di Giordania Abdullah II, il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif, nonché il presidente post – golpista siriano Ahmed al-Sharaa, più la presenza di svariati ministri degli esteri.

Il documento finale sottoscritto dai presenti a Doha riconosce l’entità statuale sionista responsabile di genocidio, pulizia etnica, carestia, assedio, attività colonizzatrici e politiche di espansione territoriale a danno dei palestinesi e delle nazioni della regione, nonché di terrorismo, come quello messo in atto contro il Qatar. La titubanza, non tanto di turchi e iraniani, quanto dei membri della Lega Araba, dovrebbero portare, se non a un ufficiale disconoscimento degli “Accordi di Abramo”, voluti da Trump del 2020, almeno a una loro effettiva archiviazione.

Tutto questo appare lontano agli occhi delle giovani coppie che cercano l’ultimo raggio del sole calante passeggiando per il lungomare di Jizan, apparentemente lontane dalla complessità del tempo presente e assolutamente interessate a un futuro di cui sentono di poter essere protagoniste nel solco della portentosa modernizzazione condotta dall’attuale governo saudita.

Gli huthi yemeniti hanno organizzato a metà settembre 2025 un convegno mondiale dedicato alla pace, ma le bombe sioniste, che ogni giorno mietono morti, feriti e distruzioni non solo nella capitale, sbarrano la strada verso Sana’a, lasciando alcuni partecipanti a Jizan

Segue nostro Telegram.

Gli huthi yemeniti hanno organizzato a metà settembre 2025 un convegno mondiale dedicato alla pace, ma le bombe sioniste, che ogni giorno mietono morti, feriti e distruzioni non solo nella capitale, sbarrano la strada verso Sana’a, lasciando alcuni partecipanti a Jizan ultimo lembo di terra saudita nel mar Rosso, non lontano da quell’incrocio economico, politico e geografico rappresentato dallo stretto di Bab el Mandeb, porta d’ingresso verso l’Europa dall’Indo – Pacifico, vigilata ufficialmente dalle quattro nazioni che ne governano il passaggio: Gibuti, Eritrea, Somalia e Yemen, in realtà la Somalia è quella anglofona a controllo statunitense detta Somaliland, per parte yemenita dipende dalle giornate sapere se la pertinenza dello stretto sia degli huthi del Consiglio Politico Supremo, oppure dello screditato Consiglio Direttivo Presidenziale, o ancora del confuso Consiglio di Transizione Meridionale sostenuto sempre più stancamente dagli emiratini, o ancora dai pericolosi rappresentanti di al-Qaida nella Penisola Arabica – AQAP e dei loro alleati di Ansar al-Sharia, per non dire del Congresso Generale del Popolo e della Resistenza Nazionale Yemenita, anch’essi alla ricerca di uno spazio per molti aspetti più tribale che politico. Tra i gibutini è risaputo che più del loro esercito contino le basi straniere, non solo la statunitense e la cinese, ma anche – forse non tutti lo ricordano – le forze militari presenti di Francia, Giappone, Italia, Germania, Spagna e Arabia Saudita. Solo l’Eritrea dal ridente porto commerciale di Assab oggi ingolfato di navi porta – container in transito, ceduto nel 1882 dalla Compagnia Rubattino per quattrocentomila lire, duecento euro odierni, al governo sabaudo, dopo averla rilevata dai signori locali nel 1869 e all’origine delle avventure coloniali italiane, guarda con un certo distacco l’intricato affollamento commerciale e militare intorno a quello specchio d’acqua.

Nel 1882 Assab contava 162 abitanti, undici italiani, cinquantacinque arabi e novantatré eritrei, distinti con rigoroso censimento, oggi gli oltre ventimila cittadini del porto eritreo confidano negli accordi stretti tra il loro presidente Isaias Afewerki, da un trentennio alla guida del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia che fa dell’Eritrea un’originale esperienza socialista, con Mohammad bin Salman, al fine di inserire il porto e la cittadina all’interno di un partenariato con i sauditi volto a promuovere un generale ammodernamento infrastrutturale ed edilizio, il tutto dentro il progetto saudita “Visione 2030”.

A Jizan è un caldissimo settembre anche carico di pesante umidità, le notti sono illuminate da comete poco natalizie, volano infatti costantemente, seppure all’apparenza lontani e fiochi all’orizzonte, i missili tra Israele e Yemen in entrambe le direzioni e il loro ritmo è incessante, sebbene Jizan e i suoi centocinquantamila abitanti e gli oltre un milione e mezzo nella regione circostante, pare guardino distrattamente questo dardeggiare nei cieli stellati.

Riyad, Jedda, Mecca e Medina, queste sono le principali città saudite e al contempo è in effervescente sviluppo turistico il nord di questa nazione, con i suoi resti archeologici e le sue civiltà, tanto quelle contemporanee dei popoli mesopotamici, quanto quella più tarda dei nabatei, noti per l’oggi giordana Petra.

Jizan è poco frequentata, estrema propaggine di una nazione che in ogni caso ha deciso di correre verso la modernità, stretta tra l’irruenza del deserto, con colline e dune che si approssimano alla città, e la bellezza cristallina del mar Rosso. Inaspettatamente è terra capace di produrre in abbondanza datteri e fichi, ma anche caffè, mango e papaya, non solo dunque polo infrastrutturale per la navigazione nel Mar Rosso, ma anche turistico con le isole ricche di barriere coralline antistanti la cittadina portuale, senza disdegnare una vocazione per l’agricoltura e la pastorizia, con capre e cammelli al pascolo nei dintorni e sul limitare della zona abitata e per altro in espansione.

Di fatto tutta Jizan è una città in evoluzione, porto, servizi, case, moschee, alberghi, spazi turistici, infrastrutture, tutto è un moltiplicarsi di cantieri, non mancano per le strade cartelloni con svettanti grattacieli, qui ancora non edificati ma già promessi, immagine di un futuro a detta di tutti imminente, pinnacoli chiamati a sorgere rapidamente in ragione della citata “Visione 2030”, come confermano gli operai della fonderia di alluminio all’opera per i progetti cittadini e la componentistica di complemento dei pannelli solari.

Per il momento è la Saudi Aramco, per esteso “Arabian American Oil Company”, anche se da tempo è totalmente statale e il termine “American” inserito alla fondazione nel 1933 è solo un lontano ricordo, ad aver costruito in tempi recenti una raffineria capace di produrre mezzo milione di barili di petrolio al giorno, certo solo un ventesimo rispetto ai dieci milioni di barili complessivamente prodotti dalla compagnia petrolifera e di gas tra le più grandi del mondo, a pari merito con le due cinesi China Petrochemical Corporation Increase e China National Petroleum Corporation, tuttavia non poco per la società che dall’altra parte di questa vasta nazione ha la sede centrale, sulle rive del golfo Persico a Dhahran.

Qui opera anche l’italiana SAIPEM che ha realizzato una centrale elettrica funzionante attraverso la tecnologia della gassificazione, alimentata principalmente con i residui della distillazione ottenuti nella raffineria di Saudi Aramco, nonché con olio combustibile ad alto tasso di zolfo, la centrale non solo provvede al fabbisogno di energia elettrica della raffineria, ma garantisce anche una interessante quantità di energia per la rete elettrica nazionale saudita.

Vivace dinamicità della società saudita, formata da giovani, in cui l’emancipazione femminile ha compiuto notevoli progressi negli ultimi anni e in cui le speranze di pace e di benessere si proiettano verso il futuro con tutto quel carico di speranze tanto difficili da riscontrare nelle società occidentali, una speranza alimentata anche dalla partecipazione recente ma altrettanto convinta al progetto multipolare sino – russo.

L’ottimismo sul futuro del Medioriente è un vero e proprio atto di coraggio, mentre la tragedia palestinese pare senza fine e il terrorismo sionista si espande coinvolgendo ogni giorno nuove nazioni della regione, vedasi negli stessi giorni il brutale assassinio dei negoziatori palestinesi a Doha in Qatar.

Sulle televisioni saudite scorrono le immagini dello sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al Thani, primo ministro del Qatar, mentre presiede nella capitale qatarina unìassise internazionale convocata d’urgenza in cui sono presenti rappresentanti d’alto livello del mondo arabo e più in generale di quello islamico, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, l’iraniano Masoud Pezeshkian, l’egiziano Abdel-Fattah al-Sisi, il libanese Joseph Aoun, il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo di Stato del Sudan, il primo ministro iracheno Mohammed Shia al-Sudani, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, il re di Giordania Abdullah II, il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif, nonché il presidente post – golpista siriano Ahmed al-Sharaa, più la presenza di svariati ministri degli esteri.

Il documento finale sottoscritto dai presenti a Doha riconosce l’entità statuale sionista responsabile di genocidio, pulizia etnica, carestia, assedio, attività colonizzatrici e politiche di espansione territoriale a danno dei palestinesi e delle nazioni della regione, nonché di terrorismo, come quello messo in atto contro il Qatar. La titubanza, non tanto di turchi e iraniani, quanto dei membri della Lega Araba, dovrebbero portare, se non a un ufficiale disconoscimento degli “Accordi di Abramo”, voluti da Trump del 2020, almeno a una loro effettiva archiviazione.

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The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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