Italiano
Giacomo Gabellini
September 9, 2025
© Photo: Public domain

La Meloni attacca l’Unione Europea ma evita di guardarsi allo specchio

Segue nostro Telegram. 

Lo scorso agosto, in occasione dell’appuntamento annuale del meeting di Rimini (organizzato dall’associazione cattolica Comunione e Liberazione), il primo ministro italiano Giorgia Meloni ha tenuto un discorso piuttosto articolato, protrattosi per ben 40 minuti. Nel corso dell’intervento, la premier ha toccato vari temi legati tra loto da un unico filo conduttore: il declino strutturale e apparentemente senza fine dell’Unione Europea. Più specificamente, la Meloni ha invocato non solo una profonda riconsiderazione non soltanto delle linee guida che orientano la politica comunitaria, ma anche e soprattutto una riscoperta delle “radici profonde” delle civiltà europea. In assenza di un’autocritica di simile portata, l’Unione Europea sarà «sempre più condannata all’insignificanza geopolitica» perché «incapace di rispondere efficacemente alle sfide alla competitività poste da Cina e Stati Uniti, come ha giustamente rilevato Mario Draghi da questo palco».

Occorre pertanto «delineare una Europa del pragmatismo, andando oltre il dibattito stantio tra “più Europa” o “meno Europa”. La vera sfida è creare una Europa che faccia meno e meglio. “Uniti nella diversità” è del resto il motto dell’Unione Europea cui dovremmo tutti ispirarci davvero».  A suo avviso, «essere conservatori non vuol dire costruire con mattoni vecchi ma con mattoni nuovi, la nostra casa da costruire con mattoni nuovi è l’Occidente».

L’attacco frontale sferrato contro i continui sconfinamenti dell’Unione Europea in affari che non le competono (come sottolineato di recente dal ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius), l’enfasi posta sulla necessità di ridurne statutariamente compiti e funzioni e i richiami a garantire un maggiore rispetto nei confronti delle peculiarità di ogni singolo Paese membro costituiscono i capisaldi fondamentali del discorso pronunciato dalla Meloni.

Il suo approccio è tuttavia apparso alquanto deficitario quando si è trattato di individuare le cause specifiche del declino europeo, riconducibili anzitutto all’appiattimento dell’Unione Europea e dei governi dei singoli Paesi membri e sulle posizioni anti-russe sposate dall’amministrazione Biden ancor prima che scoppiasse il conflitto in Ucraina.

In particolare, l’Europa ha assecondato la concretizzazione dell’antico progetto statunitense – ispirato alle teorizzazioni di Zbigniew Brzezinski – inteso a tagliare l’arteria energetica attraverso cui il “vecchio continente” si approvvigionava di idrocarburi russi a basso costo, sui quali era stata costruita la competitività dell’industria europea.

Il disegno prevedeva anzitutto la trasformazione dell’Ucraina in un’arma contundente puntata contro il fianco occidentale della Federazione Russa, realizzata dapprima attraverso la fomentazione di Jevromajdan, e successivamente mediante la strumentalizzazione degli Accordi di Minsk. Intese, cioè, sottoscritte con il chiaro intento di assicurare all’Ucraina la finestra temporale necessaria ad assorbire la disfatta de facto subita contro le Repubbliche indipendentiste di Donec’k e Lugans’k, riorganizzarsi e riarmarsi. Lo hanno riconosciuto sia il presidente Porošenko, firmatario degli Accordi, sia i suoi garanti occidentali, vale a dire il cancelliere Merkel e il presidente francese Hollande.

Un ulteriore passaggio è consistito nell’accettazione passiva del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2, minacciato apertamente da Biden nei primi giorni del febbraio 2022 durante una conferenza stampa congiunta con il cancelliere Scholz e posto concretamente in essere secondo modalità ancora poco chiare. Seymour Hersh ha fornito una ricostruzione degli eventi che riconduce la paternità dell’operazione a Stati Uniti e Norvegia, e appare di gran lunga più convincente rispetto a quella delineata dagli inquirenti tedeschi.

Le sanzioni “da fine di mondo” irrogate nei confronti della Russia hanno chiuso il cerchio, generando “colli di bottiglia” nelle catene di approvvigionamento e fomentando instabilità sui mercati internazionali. Ne è scaturito un colossale rincaro dei costi energetici, rapidamente declinatosi in crollo verticale della prodizione industriale europea. Significativamente, l’ispiratore della misura punitiva implicante il congelamento di circa 300 miliardi di dollari di riserve valutarie che la Bank of Russia deteneva presso istituzioni finanziarie occidentale sarebbe da individuare proprio in Mario Draghi, all’epoca primo ministro italiano in un governo di larghe intese di cui Fratelli d’Italia rappresentava un’opposizione meramente “di facciata”. Rispetto ai provvedimenti riguardanti la fornitura di armi all’Ucraina e più in generale alla postura italiana nel conflitto russo-ucraino, l’allineamento tra l’allora presidente del consiglio Mario Draghi e l’opposizione costituita dal partito di riferimento di Giorgia Meloni fu tutale.

Allo stato attuale, la premier Meloni si è distanziata esplicitamente dalla compagine dei “volenterosi” (facente capo al presidente Macron, al primo ministro Starmer e al cancelliere Merz), salvo farsi promotrice della proposta che mira a fornire “garanzie di sicurezza” all’Ucraina applicando a favore di Kiev un meccanismo di consultazione intra-“volenterosi” chiamato ad attivarsi a fronte di un’eventuale, nuova aggressione russa. «Bloomberg» ha parlato in proposito di “Nato light” alludendo alla somiglianza del meccanismo in questione a quello previsto dall’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica. A Rimini, la Meloni ha affermato che quella da lei avanzata rappresenta «la principale proposta sul tavolo, un possibile contributo alla pace fornito dalla nostra nazione. Penso che dobbiamo esserne fieri». Poco importa che i massimi rappresentanti russi abbiano più e più volte respinto qualsiasi prospettiva implicante lo schieramento di truppe appartenenti a Paesi membri della Nato in Ucraina. Per sgombrare il campo da qualsiasi fraintendimento, il presidente Putin ha specificato che eventuali truppe occidentali in Ucraina verrebbero considerate bersagli legittimi da Mosca.

Un contributo fondamentale alla progressiva irrilevanza europea proviene indubbiamente dall’incapacità/indisponibilità a prendere in considerazione le esigenze di sicurezza delle controparti, plasticamente emblemizzata dalla proposta avanzata dalla Meloni e del collaborazionismo de facto alla hybris israeliana. Dal palco di Rimini, la premier ha condannato «l’ingiustificabile uccisione dei giornalisti a Gaza, un inaccettabile attacco alla libertà di stampa e a tutti coloro che rischiano la vita per raccontare il dramma della guerra […]. Non abbiamo esitato un solo minuto a sostenere il diritto all’autodifesa di Israele dopo l’orrore del 7 ottobre, ma allo stesso tempo non possiamo tacere di fronte a una reazione che è andata oltre il principio di proporzionalità mietendo troppe vittime innocenti arrivando a coinvolgere anche le comunità cristiane». Senonché, l’Europa non è stata in grado di adottare alcuna sanzione minimamente significativa nei confronti di Israele in quasi due anni di massacri. Per imporre misure punitive di durezza mai vista e gravide di contraccolpi come quelle irrogate nei confronti della Russia, ha impiegato pochissimi giorni.

E ora che, sotto l’amministrazione Trump, gli Stati Uniti si orientano verso un disimpegno graduale dal conflitto in Ucraina in nome della costruzione di rapporti collaborativi con la Russia, l’Europa manifesta la disponibilità ad accettare qualsiasi privazione pur di tenere Washington inchiodata al sostegno a Kiev. Lo ha confermato il presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa. Riferendosi al disastroso accordo commerciale siglato tra l’amministrazione Trump e la delegazione europea recatasi appositamente in Scozia al seguito della presidente della Commissione Von der Leyen, Costa ha chiarito che «di certo non celebriamo il ritorno dei dazi. Ma l’escalation delle tensioni con un alleato chiave sui dazi, mentre il nostro confine orientale è minacciato, sarebbe stato un rischio imprudente. Stabilizzare le relazioni transatlantiche e garantire l’impegno degli Stati Uniti nella sicurezza dell’Ucraina è stata una priorità assoluta».

Chissà cosa pensa la Meloni in proposit…

Il discorso del primo ministro a Rimini

La Meloni attacca l’Unione Europea ma evita di guardarsi allo specchio

Segue nostro Telegram. 

Lo scorso agosto, in occasione dell’appuntamento annuale del meeting di Rimini (organizzato dall’associazione cattolica Comunione e Liberazione), il primo ministro italiano Giorgia Meloni ha tenuto un discorso piuttosto articolato, protrattosi per ben 40 minuti. Nel corso dell’intervento, la premier ha toccato vari temi legati tra loto da un unico filo conduttore: il declino strutturale e apparentemente senza fine dell’Unione Europea. Più specificamente, la Meloni ha invocato non solo una profonda riconsiderazione non soltanto delle linee guida che orientano la politica comunitaria, ma anche e soprattutto una riscoperta delle “radici profonde” delle civiltà europea. In assenza di un’autocritica di simile portata, l’Unione Europea sarà «sempre più condannata all’insignificanza geopolitica» perché «incapace di rispondere efficacemente alle sfide alla competitività poste da Cina e Stati Uniti, come ha giustamente rilevato Mario Draghi da questo palco».

Occorre pertanto «delineare una Europa del pragmatismo, andando oltre il dibattito stantio tra “più Europa” o “meno Europa”. La vera sfida è creare una Europa che faccia meno e meglio. “Uniti nella diversità” è del resto il motto dell’Unione Europea cui dovremmo tutti ispirarci davvero».  A suo avviso, «essere conservatori non vuol dire costruire con mattoni vecchi ma con mattoni nuovi, la nostra casa da costruire con mattoni nuovi è l’Occidente».

L’attacco frontale sferrato contro i continui sconfinamenti dell’Unione Europea in affari che non le competono (come sottolineato di recente dal ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius), l’enfasi posta sulla necessità di ridurne statutariamente compiti e funzioni e i richiami a garantire un maggiore rispetto nei confronti delle peculiarità di ogni singolo Paese membro costituiscono i capisaldi fondamentali del discorso pronunciato dalla Meloni.

Il suo approccio è tuttavia apparso alquanto deficitario quando si è trattato di individuare le cause specifiche del declino europeo, riconducibili anzitutto all’appiattimento dell’Unione Europea e dei governi dei singoli Paesi membri e sulle posizioni anti-russe sposate dall’amministrazione Biden ancor prima che scoppiasse il conflitto in Ucraina.

In particolare, l’Europa ha assecondato la concretizzazione dell’antico progetto statunitense – ispirato alle teorizzazioni di Zbigniew Brzezinski – inteso a tagliare l’arteria energetica attraverso cui il “vecchio continente” si approvvigionava di idrocarburi russi a basso costo, sui quali era stata costruita la competitività dell’industria europea.

Il disegno prevedeva anzitutto la trasformazione dell’Ucraina in un’arma contundente puntata contro il fianco occidentale della Federazione Russa, realizzata dapprima attraverso la fomentazione di Jevromajdan, e successivamente mediante la strumentalizzazione degli Accordi di Minsk. Intese, cioè, sottoscritte con il chiaro intento di assicurare all’Ucraina la finestra temporale necessaria ad assorbire la disfatta de facto subita contro le Repubbliche indipendentiste di Donec’k e Lugans’k, riorganizzarsi e riarmarsi. Lo hanno riconosciuto sia il presidente Porošenko, firmatario degli Accordi, sia i suoi garanti occidentali, vale a dire il cancelliere Merkel e il presidente francese Hollande.

Un ulteriore passaggio è consistito nell’accettazione passiva del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2, minacciato apertamente da Biden nei primi giorni del febbraio 2022 durante una conferenza stampa congiunta con il cancelliere Scholz e posto concretamente in essere secondo modalità ancora poco chiare. Seymour Hersh ha fornito una ricostruzione degli eventi che riconduce la paternità dell’operazione a Stati Uniti e Norvegia, e appare di gran lunga più convincente rispetto a quella delineata dagli inquirenti tedeschi.

Le sanzioni “da fine di mondo” irrogate nei confronti della Russia hanno chiuso il cerchio, generando “colli di bottiglia” nelle catene di approvvigionamento e fomentando instabilità sui mercati internazionali. Ne è scaturito un colossale rincaro dei costi energetici, rapidamente declinatosi in crollo verticale della prodizione industriale europea. Significativamente, l’ispiratore della misura punitiva implicante il congelamento di circa 300 miliardi di dollari di riserve valutarie che la Bank of Russia deteneva presso istituzioni finanziarie occidentale sarebbe da individuare proprio in Mario Draghi, all’epoca primo ministro italiano in un governo di larghe intese di cui Fratelli d’Italia rappresentava un’opposizione meramente “di facciata”. Rispetto ai provvedimenti riguardanti la fornitura di armi all’Ucraina e più in generale alla postura italiana nel conflitto russo-ucraino, l’allineamento tra l’allora presidente del consiglio Mario Draghi e l’opposizione costituita dal partito di riferimento di Giorgia Meloni fu tutale.

Allo stato attuale, la premier Meloni si è distanziata esplicitamente dalla compagine dei “volenterosi” (facente capo al presidente Macron, al primo ministro Starmer e al cancelliere Merz), salvo farsi promotrice della proposta che mira a fornire “garanzie di sicurezza” all’Ucraina applicando a favore di Kiev un meccanismo di consultazione intra-“volenterosi” chiamato ad attivarsi a fronte di un’eventuale, nuova aggressione russa. «Bloomberg» ha parlato in proposito di “Nato light” alludendo alla somiglianza del meccanismo in questione a quello previsto dall’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica. A Rimini, la Meloni ha affermato che quella da lei avanzata rappresenta «la principale proposta sul tavolo, un possibile contributo alla pace fornito dalla nostra nazione. Penso che dobbiamo esserne fieri». Poco importa che i massimi rappresentanti russi abbiano più e più volte respinto qualsiasi prospettiva implicante lo schieramento di truppe appartenenti a Paesi membri della Nato in Ucraina. Per sgombrare il campo da qualsiasi fraintendimento, il presidente Putin ha specificato che eventuali truppe occidentali in Ucraina verrebbero considerate bersagli legittimi da Mosca.

Un contributo fondamentale alla progressiva irrilevanza europea proviene indubbiamente dall’incapacità/indisponibilità a prendere in considerazione le esigenze di sicurezza delle controparti, plasticamente emblemizzata dalla proposta avanzata dalla Meloni e del collaborazionismo de facto alla hybris israeliana. Dal palco di Rimini, la premier ha condannato «l’ingiustificabile uccisione dei giornalisti a Gaza, un inaccettabile attacco alla libertà di stampa e a tutti coloro che rischiano la vita per raccontare il dramma della guerra […]. Non abbiamo esitato un solo minuto a sostenere il diritto all’autodifesa di Israele dopo l’orrore del 7 ottobre, ma allo stesso tempo non possiamo tacere di fronte a una reazione che è andata oltre il principio di proporzionalità mietendo troppe vittime innocenti arrivando a coinvolgere anche le comunità cristiane». Senonché, l’Europa non è stata in grado di adottare alcuna sanzione minimamente significativa nei confronti di Israele in quasi due anni di massacri. Per imporre misure punitive di durezza mai vista e gravide di contraccolpi come quelle irrogate nei confronti della Russia, ha impiegato pochissimi giorni.

E ora che, sotto l’amministrazione Trump, gli Stati Uniti si orientano verso un disimpegno graduale dal conflitto in Ucraina in nome della costruzione di rapporti collaborativi con la Russia, l’Europa manifesta la disponibilità ad accettare qualsiasi privazione pur di tenere Washington inchiodata al sostegno a Kiev. Lo ha confermato il presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa. Riferendosi al disastroso accordo commerciale siglato tra l’amministrazione Trump e la delegazione europea recatasi appositamente in Scozia al seguito della presidente della Commissione Von der Leyen, Costa ha chiarito che «di certo non celebriamo il ritorno dei dazi. Ma l’escalation delle tensioni con un alleato chiave sui dazi, mentre il nostro confine orientale è minacciato, sarebbe stato un rischio imprudente. Stabilizzare le relazioni transatlantiche e garantire l’impegno degli Stati Uniti nella sicurezza dell’Ucraina è stata una priorità assoluta».

Chissà cosa pensa la Meloni in proposit…

La Meloni attacca l’Unione Europea ma evita di guardarsi allo specchio

Segue nostro Telegram. 

Lo scorso agosto, in occasione dell’appuntamento annuale del meeting di Rimini (organizzato dall’associazione cattolica Comunione e Liberazione), il primo ministro italiano Giorgia Meloni ha tenuto un discorso piuttosto articolato, protrattosi per ben 40 minuti. Nel corso dell’intervento, la premier ha toccato vari temi legati tra loto da un unico filo conduttore: il declino strutturale e apparentemente senza fine dell’Unione Europea. Più specificamente, la Meloni ha invocato non solo una profonda riconsiderazione non soltanto delle linee guida che orientano la politica comunitaria, ma anche e soprattutto una riscoperta delle “radici profonde” delle civiltà europea. In assenza di un’autocritica di simile portata, l’Unione Europea sarà «sempre più condannata all’insignificanza geopolitica» perché «incapace di rispondere efficacemente alle sfide alla competitività poste da Cina e Stati Uniti, come ha giustamente rilevato Mario Draghi da questo palco».

Occorre pertanto «delineare una Europa del pragmatismo, andando oltre il dibattito stantio tra “più Europa” o “meno Europa”. La vera sfida è creare una Europa che faccia meno e meglio. “Uniti nella diversità” è del resto il motto dell’Unione Europea cui dovremmo tutti ispirarci davvero».  A suo avviso, «essere conservatori non vuol dire costruire con mattoni vecchi ma con mattoni nuovi, la nostra casa da costruire con mattoni nuovi è l’Occidente».

L’attacco frontale sferrato contro i continui sconfinamenti dell’Unione Europea in affari che non le competono (come sottolineato di recente dal ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius), l’enfasi posta sulla necessità di ridurne statutariamente compiti e funzioni e i richiami a garantire un maggiore rispetto nei confronti delle peculiarità di ogni singolo Paese membro costituiscono i capisaldi fondamentali del discorso pronunciato dalla Meloni.

Il suo approccio è tuttavia apparso alquanto deficitario quando si è trattato di individuare le cause specifiche del declino europeo, riconducibili anzitutto all’appiattimento dell’Unione Europea e dei governi dei singoli Paesi membri e sulle posizioni anti-russe sposate dall’amministrazione Biden ancor prima che scoppiasse il conflitto in Ucraina.

In particolare, l’Europa ha assecondato la concretizzazione dell’antico progetto statunitense – ispirato alle teorizzazioni di Zbigniew Brzezinski – inteso a tagliare l’arteria energetica attraverso cui il “vecchio continente” si approvvigionava di idrocarburi russi a basso costo, sui quali era stata costruita la competitività dell’industria europea.

Il disegno prevedeva anzitutto la trasformazione dell’Ucraina in un’arma contundente puntata contro il fianco occidentale della Federazione Russa, realizzata dapprima attraverso la fomentazione di Jevromajdan, e successivamente mediante la strumentalizzazione degli Accordi di Minsk. Intese, cioè, sottoscritte con il chiaro intento di assicurare all’Ucraina la finestra temporale necessaria ad assorbire la disfatta de facto subita contro le Repubbliche indipendentiste di Donec’k e Lugans’k, riorganizzarsi e riarmarsi. Lo hanno riconosciuto sia il presidente Porošenko, firmatario degli Accordi, sia i suoi garanti occidentali, vale a dire il cancelliere Merkel e il presidente francese Hollande.

Un ulteriore passaggio è consistito nell’accettazione passiva del sabotaggio dei gasdotti Nord Stream-1 e Nord Stream-2, minacciato apertamente da Biden nei primi giorni del febbraio 2022 durante una conferenza stampa congiunta con il cancelliere Scholz e posto concretamente in essere secondo modalità ancora poco chiare. Seymour Hersh ha fornito una ricostruzione degli eventi che riconduce la paternità dell’operazione a Stati Uniti e Norvegia, e appare di gran lunga più convincente rispetto a quella delineata dagli inquirenti tedeschi.

Le sanzioni “da fine di mondo” irrogate nei confronti della Russia hanno chiuso il cerchio, generando “colli di bottiglia” nelle catene di approvvigionamento e fomentando instabilità sui mercati internazionali. Ne è scaturito un colossale rincaro dei costi energetici, rapidamente declinatosi in crollo verticale della prodizione industriale europea. Significativamente, l’ispiratore della misura punitiva implicante il congelamento di circa 300 miliardi di dollari di riserve valutarie che la Bank of Russia deteneva presso istituzioni finanziarie occidentale sarebbe da individuare proprio in Mario Draghi, all’epoca primo ministro italiano in un governo di larghe intese di cui Fratelli d’Italia rappresentava un’opposizione meramente “di facciata”. Rispetto ai provvedimenti riguardanti la fornitura di armi all’Ucraina e più in generale alla postura italiana nel conflitto russo-ucraino, l’allineamento tra l’allora presidente del consiglio Mario Draghi e l’opposizione costituita dal partito di riferimento di Giorgia Meloni fu tutale.

Allo stato attuale, la premier Meloni si è distanziata esplicitamente dalla compagine dei “volenterosi” (facente capo al presidente Macron, al primo ministro Starmer e al cancelliere Merz), salvo farsi promotrice della proposta che mira a fornire “garanzie di sicurezza” all’Ucraina applicando a favore di Kiev un meccanismo di consultazione intra-“volenterosi” chiamato ad attivarsi a fronte di un’eventuale, nuova aggressione russa. «Bloomberg» ha parlato in proposito di “Nato light” alludendo alla somiglianza del meccanismo in questione a quello previsto dall’articolo 5 dell’Alleanza Atlantica. A Rimini, la Meloni ha affermato che quella da lei avanzata rappresenta «la principale proposta sul tavolo, un possibile contributo alla pace fornito dalla nostra nazione. Penso che dobbiamo esserne fieri». Poco importa che i massimi rappresentanti russi abbiano più e più volte respinto qualsiasi prospettiva implicante lo schieramento di truppe appartenenti a Paesi membri della Nato in Ucraina. Per sgombrare il campo da qualsiasi fraintendimento, il presidente Putin ha specificato che eventuali truppe occidentali in Ucraina verrebbero considerate bersagli legittimi da Mosca.

Un contributo fondamentale alla progressiva irrilevanza europea proviene indubbiamente dall’incapacità/indisponibilità a prendere in considerazione le esigenze di sicurezza delle controparti, plasticamente emblemizzata dalla proposta avanzata dalla Meloni e del collaborazionismo de facto alla hybris israeliana. Dal palco di Rimini, la premier ha condannato «l’ingiustificabile uccisione dei giornalisti a Gaza, un inaccettabile attacco alla libertà di stampa e a tutti coloro che rischiano la vita per raccontare il dramma della guerra […]. Non abbiamo esitato un solo minuto a sostenere il diritto all’autodifesa di Israele dopo l’orrore del 7 ottobre, ma allo stesso tempo non possiamo tacere di fronte a una reazione che è andata oltre il principio di proporzionalità mietendo troppe vittime innocenti arrivando a coinvolgere anche le comunità cristiane». Senonché, l’Europa non è stata in grado di adottare alcuna sanzione minimamente significativa nei confronti di Israele in quasi due anni di massacri. Per imporre misure punitive di durezza mai vista e gravide di contraccolpi come quelle irrogate nei confronti della Russia, ha impiegato pochissimi giorni.

E ora che, sotto l’amministrazione Trump, gli Stati Uniti si orientano verso un disimpegno graduale dal conflitto in Ucraina in nome della costruzione di rapporti collaborativi con la Russia, l’Europa manifesta la disponibilità ad accettare qualsiasi privazione pur di tenere Washington inchiodata al sostegno a Kiev. Lo ha confermato il presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa. Riferendosi al disastroso accordo commerciale siglato tra l’amministrazione Trump e la delegazione europea recatasi appositamente in Scozia al seguito della presidente della Commissione Von der Leyen, Costa ha chiarito che «di certo non celebriamo il ritorno dei dazi. Ma l’escalation delle tensioni con un alleato chiave sui dazi, mentre il nostro confine orientale è minacciato, sarebbe stato un rischio imprudente. Stabilizzare le relazioni transatlantiche e garantire l’impegno degli Stati Uniti nella sicurezza dell’Ucraina è stata una priorità assoluta».

Chissà cosa pensa la Meloni in proposit…

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

See also

October 12, 2025
September 7, 2025

See also

October 12, 2025
September 7, 2025
The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.