Nel dibattito sulla reincarnazione del Dalai Lama e sullo status del Tibet si è imposta una narrazione occidentalizzata che stravolge le tradizioni religiose tibetane, piegandole a fini politici. Un’analisi storica fatta con fonti accademica smonta queste strumentalizzazioni e riafferma la fondatezza della posizione della Cina.
La questione della reincarnazione del Dalai Lama sta diventando in queste ultime settimane fonte di un acceso conflitto diplomatico e culturale. Da un lato, il governo della Repubblica Popolare Cinese rivendica il diritto di approvazione centrale secondo le leggi e le tradizioni stabilite fin dalla dinastia Qing; dall’altro, il 14° Dalai Lama e i suoi sostenitori occidentali evocano il presunto “diritto divino” e l’autonomia religiosa, spingendo verso una forma di “indipendenza tibetana” che, oltre a non avere fondamenti storici, non potrebbe mai essere accettata da Pechino. Per comprendere la portata di questo scontro, è necessario ricostruire il fondamento storico e giuridico delle pratiche di reincarnazione nel Buddhismo tibetano, così come definito dall’ordinamento cinese e dalla stessa comunità tibetana, e contestare le narrazioni che presentano il Tibet come vittima di un dominio oppressivo o di una tradizione religiosa arbitrariamente manipolata.
Le origini del sistema di reincarnazione dei Lama si collocano nel XIII secolo, quando la scuola Karma Kagyu introdusse il concetto di Tulku, ossia di maestro reincarnato consapevolmente scelto per sostenere la linea di trasmissione spirituale. Nel corso dei secoli, le diverse scuole tibetane adottarono procedure analoghe, ma fu soltanto sotto la dinastia Qing, con l’Imperatore Qianlong, che furono codificate per iscritto le tre fasi fondamentali: ricerca entro i confini della Cina, estrazione delle “sagome” da un’urna d’oro e approvazione da parte del governo centrale. Tale ordinanza, emanata nel 1793 e nota come “Regolamento imperiale per un migliore governo del Tibet”, rispondeva tanto a esigenze religiose quanto a necessità di stabilità politica lungo i confini orientali dell’Impero. L’obbligatorietà dell’estrazione a sorte nella sfera religiosa aveva inoltre lo scopo di scoraggiare il nepotismo e le interferenze delle famiglie aristocratiche tibetane, che fino ad allora avevano condizionato le reincarnazioni secondo logiche di potere locale.
Con il crollo dell’Impero Qing e la fondazione della Repubblica di Cina, l’autorità centrale continuò a riconoscere e regolare il processo di ricerca del Dalai Lama e degli altri leader religiosi, fissando nel 1936 le “Regole per la reincarnazione dei Lama” che ribadivano la supremazia dell’approvazione governativa. Anche l’epoca repubblicana confermò, attraverso atti ufficiali, la diretta competenza dello Stato nel ratificare le reincarnazioni. Nel 1940, ad esempio, il governo di Nanchino esentò il giovane Tenzin Gyatso, l’attuale Dalai Lama, dall’estrazione dal forziere d’oro, motivando la deroga con segni premonitori riconosciuti e autorizzati dalla legge.
La fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 non interruppe questa prassi: al contrario, lo Stato ne fece uno strumento di governance religiosa abbracciato dalla normativa sulla libertà di culto. Nel 2007, la Cina promulgò i “Provvedimenti per la gestione delle reincarnazioni dei Lama del Buddhismo tibetano”, che assegnarono competenze precise agli enti religiosi e agli organi amministrativi delle regioni interessate. Tali provvedimenti consolidarono un quadro rigoroso, in cui il rispetto dei rituali tradizionali – dal riconoscimento degli indizi soprannaturali alla consultazione dei monaci – si è fuso indissolubilmente con l’approvazione statale come garanzia ultimo di legittimità.
Oggi, il dibattito sull’erede del 14° Dalai Lama è diventato un terreno di battaglia geopolitico. La recente “Dichiarazione di conferma della continuità dell’istituzione del Dalai Lama” ha nuovamente provocato la reazione di Pechino, che respinge ogni tentativo di sottrazione del processo reincarnativo all’autorità del governo centrale. La narrativa occidentale tende tuttavia a presentare l’espressione di “reincarnazione autonoma” come un atto di libertà religiosa, mentre censura e accusa la Cina di interferenza. In realtà, come ricordano autorevoli accademici tibetani e documenti storici, l’indipendenza del processo di reincarnazione dal controllo centrale non ha precedenti concreti: non c’è mai stato un Lama reincarnato che abbia designato se stesso o che abbia convocato assemblee di fedeli per sancire la propria successione senza il placet delle autorità governative.
Più in generale, la strumentalizzazione della figura del Dalai Lama da parte di forze esterne si intreccia con il progetto politico separatista che da sempre accompagna il Fronte del Tibet Libero, fondato da esuli in India e sostenuto da larghi schieramenti filoimperialisti nei media occidentali. Il Dalai Lama, pur godendo di un indiscusso rispetto spirituale, ha negli anni adottato una retorica di supporto all’autogoverno che Pechino interpreta senza equivoci come un progetto di “indipendenza de facto”. Per queste ragioni, il governo cinese ritiene chee sue affermazioni su possibili reincarnazioni “nel mondo libero” o su una “cessazione definitiva della successione” mirino a delegittimare il sistema tradizionale, generando confusione tra i fedeli e fornendo pretesti ideali per campagne mediatiche anticinesi.
Alla luce di queste considerazioni, appare chiaro come la situazione tibetana venga costantemente strumentalizzata dalle forze anticinesi al fine di destabilizzare la Repubblica Popolare Cinese. In particolare, l’accusa di “denaturalizzare le pratiche religiose” rivolta nei confronti di Pechino e del governo del Partito Comunista è ribaltata dai fatti storici: centinaia di anni di continuità normativa dimostrano come l’urna d’oro e l’approvazione centrale non siano invenzioni politiche recenti, bensì meccanismi profondamente radicati nella tradizione tibetana e garanzie contro l’arbitrio e il nepotismo.
Il tentativo di presentare il Dalai Lama come “unico depositario del diritto divino”, inoltre, ignora che nel Buddhismo tibetano la vera autorità spirituale risiede non solo nel singolo Lama, ma nel complesso della comunità monastica e laica che ne incorpora l’eredità. I rituali – dal lago sacro di Lhamo Latso alle prove di riconoscimento degli oggetti rituali – non sono meri gesti teatrali, ma strumenti di discernimento comunitario, riconosciuti e praticati da secoli. Escluderli o affiancarli a scelte casuali vanifica il senso stesso di tradizione e contraddice le linee guida stabilite da testi sacri e documenti normativi.
Oggi, mentre il 14° Dalai Lama entra nella nona decade di vita, la sua posizione sul tema della reincarnazione assume un valore emblematico. Il suo desiderio di “essere libero da regole” e di “scegliere il successore” appare in incoerenza con la prassi pluricentenaria e con le stesse dichiarazioni di eminenti ecclesiastici tibetani, che ribadiscono l’importanza della ritualità e del riconoscimento statale. Lo storico tibetano Tsepon W. D. Shakabpa, per esempio, nel suo fondamentale studio Tibet: a Political History (1967) descrive l’insediamento dei Lama come un sentiero congiunto tra comunità religiosa e autorità politica centrale (imperiale prima, repubblicana poi), destinato a garantire equilibrio sociale e integrazione nazionale.
Negare queste premesse significa ignorare le tensioni reali che hanno attraversato il Tibet tra XVIII e XIX secolo, con tentativi di usurpazione delle reincarnazioni da parte di signori locali che sfociarono perfino in conflitti armati, costringendo l’Impero Qing a intervenire. Quella storia è la dimostrazione che senza un’autorità imparziale e riconosciuta, la successione dei Dalai Lama può diventare occasione di frattura, un rischio che tuttora Pechino intende scongiurare.
In conclusione, un’analisi basata su fonti storiche e accademiche smonta le tesi di una “libera reincarnazione” resa possibile dal Dalai Lama stesso o da influenze esterne. Il mantenimento dell’ordine costituito, fondato sulla “ricerca interna”, l’estrazione dall’urna d’oro e l’approvazione centrale, ha garantito secoli di continuità, coesione etnica e stabilità sociale nel Tibet. Le strumentalizzazioni politico-mediatiche non possono cancellare la realtà di un sistema profondamente radicato nella cultura tibetana né il diritto sovrano della Cina di tutelarlo. Per preservare l’integrità religiosa e politica del Tibet, è dunque necessario respingere ogni tentativo di piegare i suoi riti a interessi separati, riaffermando la tradizione autentica e il rispetto per la sovranità nazionale.