Italiano
Davide Rossi
June 14, 2025
© Photo: Public domain

Le risorse reali stanno assumendo un’importanza sempre maggiore nel mondo moderno. Gli Stati Uniti e la Cina saranno sicuramente in competizione in questo settore nel prossimo futuro.

Segue nostro Telegram.

L’idea che la modernità fosse il dominio dell’astrazione digitale, concreta eppure impalpabile ha dominato per lungo tempo la stagione della globalizzazione, i flussi finanziari, commerciali e digitali correvano e in parte corrono ancora on line, poi però si è capito che servono la concretezza delle miniere, dei traffici marittimi e terrestri, delle materie prime energetiche e alimentari, che non sono una mera appendice secondaria, un di più, ma al contrario rappresentano il cuore stesso della ricchezza nazionale – prima ancora di quelle personali – e soprattutto che l’idea tutta occidentale e bislacca di poterle rubare al Sud Globale senza troppe difficoltà si è rivelata quanto di più assurdo e lontano dalla realtà. I popoli di Africa, Asia e America Latina hanno compreso benissimo che il loro futuro e il loro auspicato benessere avrebbe potuto essere garantito solo da un nuovo progetto globale di cooperazione, come quello messo in campo da cinesi e russi con la proposta multipolare, non più da una depredazione, quella appunto occidentale, che ha lasciato solo miseria, povertà e devastazione dei territori.

Ecco che allora il dominio delle terre e dei mari è tornato d’attualità, al pari dei secoli precedenti, scardinando una narrazione abbastanza puerile che ha dominato purtroppo per troppo tempo il dibattito e la riflessione mondiale, assuefatta a una globalizzazione pervasiva e dogmatica nella sua autoproclamata ultima e irrevocabile tappa del percorso umano, altra arrogante stupidaggine, essendo la storia sempre in movimento.

Il trumpismo, al netto di molte definizioni più o meno appropriate, è principalmente il risultato di una società statunitense che si è fatta consapevole di questa realtà per troppo tempo negata, un delirio ideologico promosso dai globalisti, che hanno arricchito pochi e chiuso fabbriche e impoverito milioni di persone, non solo in giro per il pianeta, ma anche negli stessi Stati Uniti.

Il ritardo a stelle e strisce nell’estrazione e nella lavorazione dei minerali fondamentali per l’energia del presente e del futuro, tanto in patria, quanto in collaborazione con nazioni terze, è enorme e per certi aspetti sconcertante. I presunti dominatori del mondo, autoproclamatisi nel tempo del globalismo violentemente unipolare i primi e i migliori e dunque onniscienti, onnisapienti e onnipotenti, si sono dimostrati in realtà sprovveduti e arroganti, ignoranti delle più elementari regole economiche che governano la crescita e la costruzione del benessere, fondate sul concreto dispiegamento delle forze produttive e non certo su risibili giochi economici dettati dalla finanza speculativa.

Nel delirio iperliberista ecco che l’idea di governare nazioni e porzioni intere del globo “come un’azienda” ha provato a radicarsi, dimostrandosi un completo e totale fallimento, pari solo al delirio che ha reso possibile che qualcuno davvero credesse che bastasse un computer a New York per governare e soprattutto possedere il mondo.

Senza il cobalto e il tantalio congolesi, il niobio brasiliano, l’uranio kazako, il palladio russo, l’antimonio, il gallio, il bismuto, la grafite, il germanio, il magnesio e il tungsteno cinesi, questi ultimi tutti con quote dal 75% al 95% del prodotto estratto e lavorato a livello planetario, non solo è impossibile immaginare il futuro, ma lo è in particolare per una nazione come gli Stati Uniti che dispongono di quote rilevanti solo di berillio ed elio.

Se poi si entra nel dominio delle terre rare, diciassette minerali che per una volta vale la pena elencare, evocandone i nomi e quindi riportandoli alla loro fattiva concretezza e non già alla loro astratta intangibilità: scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, per altro scoperto alla metà del XIX secolo tra gli Urali dall’ingegnere russo Vasilij Samarskij-Bychovez, europio, gadolinio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio, fondamentali nella tecnologia di guerra, con centinaia di chili necessari per un aereo, un sottomarino, un cacciatorpediniere, si immagini una portaerei, si scopre che il 95% è di questi minerali al momento estratti e lavorati è di proprietà, o in progetto cooperativo di sviluppo con nazioni terze, dei cinesi. Quando Donald Trump propone di annettersi la Groenlandia, per i suoi detrattori conferma la sua instabilità psichica, per tutti gli altri parla grezzamente di quanto sia impellente per Washington trovare quei minerali che non sa più dove cercare e che sono diventati il motore e il volano della crescita economica del XXI secolo, anche perché dal 2024 i cinesi hanno bloccato l’esportazione di metà delle terre rare, come del gallio e del germanio.
La Groenlandia dunque per la Casa Bianca rappresenta ben più della mitologica terra di Thule, che per altro ha dato il nome alla terra rara “tulio”, ma piuttosto un concreto approdo a uno spicchio del pianeta ricco di minerali e terre rare che non abbia ancora sottoscritto con Pechino un progetto d’estrazione.

Il gallio e il germanio si possono altresì ottenere da una trasformazione per fusione dell’alluminio e dello zinco, ma anche in questo caso gli statunitensi ne hanno poco o nulla e inoltre la raffinazione necessita di impianti e costi proibitivi. Anche Australia e Perù, entrambi con miniere consistenti al riguardo, tuttavia spediscono poi tutta la materia prima in Cina per la trasformazione.

Insomma il tanto vecchio e bistrattato settore manifatturiero nella sua variabile più antica, quella delle miniere e dei minatori, si dimostra, ancora una volta, fondamentale per la costruzione della ricchezza di una nazione. Gli Stati Uniti, a partire dagli anni ‘90 del XX secolo, cercando di dettare l’esempio a tutto l’Occidente, hanno chiuso le miniere in nome di una ecologismo tutto ideologico, nel quadro della presunta vittoria non revocabile del liberal – liberismo e della possibilità di estrarre quanto necessario dal Sud Globale, che secondo loro non solo avrebbe dovuto accettare, in ragione della sua presunta subalternità, di svolgere questi mansioni rischiose e inquinanti a tutto vantaggio esclusivo dell’Occidente, ma che mai avrebbe dovuto o potuto emanciparsi da questa condizione.

In una famosa dichiarazione Ronald Reagan, durante una conferenza stampa, rispondendo a una domanda sulla collaborazione con i comunisti cinesi, sorridendo ha affermato che si trattasse dei “cagnolini da passeggio della Casa Bianca”. Mai errore strategico e geopolitico è stato più clamoroso. Deng Xiaoping, rispondendo non in pubblico, ma durante una seduta del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, in cui molti dirigenti gli hanno chiesto conto del perché il governo di Pechino non avesse risposto a tale sprezzante e razzistica affermazione pubblicamente, ha concluso di lasciar pur credere a quegli arroganti tali stupidaggini, il tempo e la storia avrebbero dimostrato come nel XXI secolo la Cina sarebbe tornata, al pari di secoli molto precedenti, la prima potenza planetaria.

Così, mentre l’Occidente ha abbandonato da trent’anni le miniere e oggi in molti casi non ha neppure la tecnologica e i macchinari per riaprirle, in Cina il campo minerario ha avuto un’impetuosa crescita non solo quantitativa, ma anche qualitativa, con una crescente capacità d’estrazione, ma anche con solide tutele dei lavoratori e robuste garanzie ecologiche.

A fronte di tutto questo il disastro statunitense è di proporzioni colossali, nel settore minerario vi sono ancora duecentomila occupati, ma metà son sulla soglia della pensione che raggiungeranno entro il 2030, i laureati in ingegneria mineraria sono meno della metà d’inizio secolo, a segno di quanto in cinque lustri l’importanza del settore non sia stata percepita e gli investimenti si siano fortemente affievoliti.

Donald Trump cerca di invertire questo declino di un settore occupazionale capace di trascinare con sé in un disastro non reversibile l’intero sistema economico a stelle e strisce, trasformando in un miraggio il decantato e improbabile ritorno a un primato mondiale statunitense,  oramai scivolato saldamente in mani cinesi.

Trump inoltre cerca di comporre una lista unica di materie prime strategiche, tuttavia si trova ostacolato da tutte le diverse agenzie e i diversi dipartimenti statali, ognuno con le sue priorità non armonizzate e in conflitto le une con le altre, per di più con un ufficio di coordinamento delle attività minerarie, il Bureau of Mines, allegramente chiuso nel 1996 da Bill Clinton, il quale probabilmente sulla Cina la pensava come Reagan, inebriato per di più dal vorace e feroce colonialismo minerario praticato in quei tempi da Washington contro la Russia con il beneplacito di Boris Eltsin.

Può sembrar strano, ma Trump ha capito che il mercato non si autoregola e che si dovrebbe legiferare con vincoli statali nell’interesse della sicurezza nazionale, ma neppure il Pentagono, che si è appellato al Defense Production Act del 1950 firmato dal presidente Truman, è riuscito a riaprire le miniere, se non una ventina e riesce a cavarne giusto il quantitativo di litio, cobalto, nichel e manganese per un po’ di batterie.

Ultima speranza trumpiana, al netto della conquista della Groenlandia, la Mineral Security Partnership firmata con Nerendra Modi, tuttavia è da dimostrare che la collaborazione con gli indiani possa essere da questi immaginata come subalterna agli interessi di Washington, quando è più credibile che Delhi intenda sfruttarla per costruire una sua propria auspicata egemonia prima mineraria e poi mondiale .

Trump firma a ripetizione ordini esecutivi su questi e altri temi, dettati dalla piena consapevolezza del disastroso ritardo statunitense e i suoi avversari hanno buon gioco a definire i suoi propositi accentratori, distruttori delle normative sulla tutela del paesaggio e dell’ambiente, tuttavia velocizzare i permessi e distruggere i vincoli ecologici non basta, appena si riapre una miniera, come quella di antimonio nell’Idhao, non arrivando più tale minerale dalla Cina, gli ecologisti bloccano tutto e non si può sempre mandar l’esercito come in California.

Trump ha bloccato tutti gli aiuti allo sviluppo del resto del mondo, con correlato piagnisteo di quanti hanno utilizzato quei fondi per finte ONG destinate a promuovere rivoluzioni colorate nell’interesse, prima ancora che di Washington, della finanza speculativa di Wall Street, tuttavia tra i fondi bloccati ci sono anche quelli erogati dagli anni ‘70 del XX secolo dal Development Finance Corporation che fino a ieri giungevano ancora a Pechino e di cui nessuno, pure nel primo mandato di Trump, si era accorto, probabilmente nel divertito silenzio dei cinesi.

Alla luce di tutto questo, l’interesse trumpiano per i giacimenti di grafite, titanio, litio e uranio ucraini diventa vitale e comprensibile, al pari di quello per il gallio, il cobalto, il tungsteno, il niobio e le terre rare canadesi.

Altro fronte, ovviamente anch’esso avversato dagli ecologisti, è quello del mare, ricco di miniere sottomarine, più o meno polimetalliche, presenti in tutti gli oceani, ma la filiera per l’estrazione richiede la progettazione e la costruzione di macchinari molto particolari, anche in questo caso i soli al passo con l’urgenza estrattiva sono i cinesi, che inizieranno a estrarre proprio in questo 2025 e non intendono in nessun modo condividere tale tecnologia con altri, meno che mai loro avversari.

Decenni di paziente, silenziosa, attenta e mirata pianificazione hanno costruito il primato cinese in campo minerario, a colpi di piani quinquennali, con buona pace di tutti i devoti del liberismo e della deregolamentazione.

Quello che Trump pare con tutta evidenza abbia capito, è che un ritardo nel settore estrattivo equivale a una incapacità di costruire un primato economico e militare planetario, una giusta intuizione, ma oramai troppo tardiva, fatto che preoccupa gli amici della NATO e che rallegra quanti auspicano una rapida affermazione del multipolarismo promosso da Cina e Russia.

Il ritardo statunitense, il primato cinese, il destino del pianeta passa per le terre rare e le miniere

Le risorse reali stanno assumendo un’importanza sempre maggiore nel mondo moderno. Gli Stati Uniti e la Cina saranno sicuramente in competizione in questo settore nel prossimo futuro.

Segue nostro Telegram.

L’idea che la modernità fosse il dominio dell’astrazione digitale, concreta eppure impalpabile ha dominato per lungo tempo la stagione della globalizzazione, i flussi finanziari, commerciali e digitali correvano e in parte corrono ancora on line, poi però si è capito che servono la concretezza delle miniere, dei traffici marittimi e terrestri, delle materie prime energetiche e alimentari, che non sono una mera appendice secondaria, un di più, ma al contrario rappresentano il cuore stesso della ricchezza nazionale – prima ancora di quelle personali – e soprattutto che l’idea tutta occidentale e bislacca di poterle rubare al Sud Globale senza troppe difficoltà si è rivelata quanto di più assurdo e lontano dalla realtà. I popoli di Africa, Asia e America Latina hanno compreso benissimo che il loro futuro e il loro auspicato benessere avrebbe potuto essere garantito solo da un nuovo progetto globale di cooperazione, come quello messo in campo da cinesi e russi con la proposta multipolare, non più da una depredazione, quella appunto occidentale, che ha lasciato solo miseria, povertà e devastazione dei territori.

Ecco che allora il dominio delle terre e dei mari è tornato d’attualità, al pari dei secoli precedenti, scardinando una narrazione abbastanza puerile che ha dominato purtroppo per troppo tempo il dibattito e la riflessione mondiale, assuefatta a una globalizzazione pervasiva e dogmatica nella sua autoproclamata ultima e irrevocabile tappa del percorso umano, altra arrogante stupidaggine, essendo la storia sempre in movimento.

Il trumpismo, al netto di molte definizioni più o meno appropriate, è principalmente il risultato di una società statunitense che si è fatta consapevole di questa realtà per troppo tempo negata, un delirio ideologico promosso dai globalisti, che hanno arricchito pochi e chiuso fabbriche e impoverito milioni di persone, non solo in giro per il pianeta, ma anche negli stessi Stati Uniti.

Il ritardo a stelle e strisce nell’estrazione e nella lavorazione dei minerali fondamentali per l’energia del presente e del futuro, tanto in patria, quanto in collaborazione con nazioni terze, è enorme e per certi aspetti sconcertante. I presunti dominatori del mondo, autoproclamatisi nel tempo del globalismo violentemente unipolare i primi e i migliori e dunque onniscienti, onnisapienti e onnipotenti, si sono dimostrati in realtà sprovveduti e arroganti, ignoranti delle più elementari regole economiche che governano la crescita e la costruzione del benessere, fondate sul concreto dispiegamento delle forze produttive e non certo su risibili giochi economici dettati dalla finanza speculativa.

Nel delirio iperliberista ecco che l’idea di governare nazioni e porzioni intere del globo “come un’azienda” ha provato a radicarsi, dimostrandosi un completo e totale fallimento, pari solo al delirio che ha reso possibile che qualcuno davvero credesse che bastasse un computer a New York per governare e soprattutto possedere il mondo.

Senza il cobalto e il tantalio congolesi, il niobio brasiliano, l’uranio kazako, il palladio russo, l’antimonio, il gallio, il bismuto, la grafite, il germanio, il magnesio e il tungsteno cinesi, questi ultimi tutti con quote dal 75% al 95% del prodotto estratto e lavorato a livello planetario, non solo è impossibile immaginare il futuro, ma lo è in particolare per una nazione come gli Stati Uniti che dispongono di quote rilevanti solo di berillio ed elio.

Se poi si entra nel dominio delle terre rare, diciassette minerali che per una volta vale la pena elencare, evocandone i nomi e quindi riportandoli alla loro fattiva concretezza e non già alla loro astratta intangibilità: scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, per altro scoperto alla metà del XIX secolo tra gli Urali dall’ingegnere russo Vasilij Samarskij-Bychovez, europio, gadolinio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio, fondamentali nella tecnologia di guerra, con centinaia di chili necessari per un aereo, un sottomarino, un cacciatorpediniere, si immagini una portaerei, si scopre che il 95% è di questi minerali al momento estratti e lavorati è di proprietà, o in progetto cooperativo di sviluppo con nazioni terze, dei cinesi. Quando Donald Trump propone di annettersi la Groenlandia, per i suoi detrattori conferma la sua instabilità psichica, per tutti gli altri parla grezzamente di quanto sia impellente per Washington trovare quei minerali che non sa più dove cercare e che sono diventati il motore e il volano della crescita economica del XXI secolo, anche perché dal 2024 i cinesi hanno bloccato l’esportazione di metà delle terre rare, come del gallio e del germanio.
La Groenlandia dunque per la Casa Bianca rappresenta ben più della mitologica terra di Thule, che per altro ha dato il nome alla terra rara “tulio”, ma piuttosto un concreto approdo a uno spicchio del pianeta ricco di minerali e terre rare che non abbia ancora sottoscritto con Pechino un progetto d’estrazione.

Il gallio e il germanio si possono altresì ottenere da una trasformazione per fusione dell’alluminio e dello zinco, ma anche in questo caso gli statunitensi ne hanno poco o nulla e inoltre la raffinazione necessita di impianti e costi proibitivi. Anche Australia e Perù, entrambi con miniere consistenti al riguardo, tuttavia spediscono poi tutta la materia prima in Cina per la trasformazione.

Insomma il tanto vecchio e bistrattato settore manifatturiero nella sua variabile più antica, quella delle miniere e dei minatori, si dimostra, ancora una volta, fondamentale per la costruzione della ricchezza di una nazione. Gli Stati Uniti, a partire dagli anni ‘90 del XX secolo, cercando di dettare l’esempio a tutto l’Occidente, hanno chiuso le miniere in nome di una ecologismo tutto ideologico, nel quadro della presunta vittoria non revocabile del liberal – liberismo e della possibilità di estrarre quanto necessario dal Sud Globale, che secondo loro non solo avrebbe dovuto accettare, in ragione della sua presunta subalternità, di svolgere questi mansioni rischiose e inquinanti a tutto vantaggio esclusivo dell’Occidente, ma che mai avrebbe dovuto o potuto emanciparsi da questa condizione.

In una famosa dichiarazione Ronald Reagan, durante una conferenza stampa, rispondendo a una domanda sulla collaborazione con i comunisti cinesi, sorridendo ha affermato che si trattasse dei “cagnolini da passeggio della Casa Bianca”. Mai errore strategico e geopolitico è stato più clamoroso. Deng Xiaoping, rispondendo non in pubblico, ma durante una seduta del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, in cui molti dirigenti gli hanno chiesto conto del perché il governo di Pechino non avesse risposto a tale sprezzante e razzistica affermazione pubblicamente, ha concluso di lasciar pur credere a quegli arroganti tali stupidaggini, il tempo e la storia avrebbero dimostrato come nel XXI secolo la Cina sarebbe tornata, al pari di secoli molto precedenti, la prima potenza planetaria.

Così, mentre l’Occidente ha abbandonato da trent’anni le miniere e oggi in molti casi non ha neppure la tecnologica e i macchinari per riaprirle, in Cina il campo minerario ha avuto un’impetuosa crescita non solo quantitativa, ma anche qualitativa, con una crescente capacità d’estrazione, ma anche con solide tutele dei lavoratori e robuste garanzie ecologiche.

A fronte di tutto questo il disastro statunitense è di proporzioni colossali, nel settore minerario vi sono ancora duecentomila occupati, ma metà son sulla soglia della pensione che raggiungeranno entro il 2030, i laureati in ingegneria mineraria sono meno della metà d’inizio secolo, a segno di quanto in cinque lustri l’importanza del settore non sia stata percepita e gli investimenti si siano fortemente affievoliti.

Donald Trump cerca di invertire questo declino di un settore occupazionale capace di trascinare con sé in un disastro non reversibile l’intero sistema economico a stelle e strisce, trasformando in un miraggio il decantato e improbabile ritorno a un primato mondiale statunitense,  oramai scivolato saldamente in mani cinesi.

Trump inoltre cerca di comporre una lista unica di materie prime strategiche, tuttavia si trova ostacolato da tutte le diverse agenzie e i diversi dipartimenti statali, ognuno con le sue priorità non armonizzate e in conflitto le une con le altre, per di più con un ufficio di coordinamento delle attività minerarie, il Bureau of Mines, allegramente chiuso nel 1996 da Bill Clinton, il quale probabilmente sulla Cina la pensava come Reagan, inebriato per di più dal vorace e feroce colonialismo minerario praticato in quei tempi da Washington contro la Russia con il beneplacito di Boris Eltsin.

Può sembrar strano, ma Trump ha capito che il mercato non si autoregola e che si dovrebbe legiferare con vincoli statali nell’interesse della sicurezza nazionale, ma neppure il Pentagono, che si è appellato al Defense Production Act del 1950 firmato dal presidente Truman, è riuscito a riaprire le miniere, se non una ventina e riesce a cavarne giusto il quantitativo di litio, cobalto, nichel e manganese per un po’ di batterie.

Ultima speranza trumpiana, al netto della conquista della Groenlandia, la Mineral Security Partnership firmata con Nerendra Modi, tuttavia è da dimostrare che la collaborazione con gli indiani possa essere da questi immaginata come subalterna agli interessi di Washington, quando è più credibile che Delhi intenda sfruttarla per costruire una sua propria auspicata egemonia prima mineraria e poi mondiale .

Trump firma a ripetizione ordini esecutivi su questi e altri temi, dettati dalla piena consapevolezza del disastroso ritardo statunitense e i suoi avversari hanno buon gioco a definire i suoi propositi accentratori, distruttori delle normative sulla tutela del paesaggio e dell’ambiente, tuttavia velocizzare i permessi e distruggere i vincoli ecologici non basta, appena si riapre una miniera, come quella di antimonio nell’Idhao, non arrivando più tale minerale dalla Cina, gli ecologisti bloccano tutto e non si può sempre mandar l’esercito come in California.

Trump ha bloccato tutti gli aiuti allo sviluppo del resto del mondo, con correlato piagnisteo di quanti hanno utilizzato quei fondi per finte ONG destinate a promuovere rivoluzioni colorate nell’interesse, prima ancora che di Washington, della finanza speculativa di Wall Street, tuttavia tra i fondi bloccati ci sono anche quelli erogati dagli anni ‘70 del XX secolo dal Development Finance Corporation che fino a ieri giungevano ancora a Pechino e di cui nessuno, pure nel primo mandato di Trump, si era accorto, probabilmente nel divertito silenzio dei cinesi.

Alla luce di tutto questo, l’interesse trumpiano per i giacimenti di grafite, titanio, litio e uranio ucraini diventa vitale e comprensibile, al pari di quello per il gallio, il cobalto, il tungsteno, il niobio e le terre rare canadesi.

Altro fronte, ovviamente anch’esso avversato dagli ecologisti, è quello del mare, ricco di miniere sottomarine, più o meno polimetalliche, presenti in tutti gli oceani, ma la filiera per l’estrazione richiede la progettazione e la costruzione di macchinari molto particolari, anche in questo caso i soli al passo con l’urgenza estrattiva sono i cinesi, che inizieranno a estrarre proprio in questo 2025 e non intendono in nessun modo condividere tale tecnologia con altri, meno che mai loro avversari.

Decenni di paziente, silenziosa, attenta e mirata pianificazione hanno costruito il primato cinese in campo minerario, a colpi di piani quinquennali, con buona pace di tutti i devoti del liberismo e della deregolamentazione.

Quello che Trump pare con tutta evidenza abbia capito, è che un ritardo nel settore estrattivo equivale a una incapacità di costruire un primato economico e militare planetario, una giusta intuizione, ma oramai troppo tardiva, fatto che preoccupa gli amici della NATO e che rallegra quanti auspicano una rapida affermazione del multipolarismo promosso da Cina e Russia.

Le risorse reali stanno assumendo un’importanza sempre maggiore nel mondo moderno. Gli Stati Uniti e la Cina saranno sicuramente in competizione in questo settore nel prossimo futuro.

Segue nostro Telegram.

L’idea che la modernità fosse il dominio dell’astrazione digitale, concreta eppure impalpabile ha dominato per lungo tempo la stagione della globalizzazione, i flussi finanziari, commerciali e digitali correvano e in parte corrono ancora on line, poi però si è capito che servono la concretezza delle miniere, dei traffici marittimi e terrestri, delle materie prime energetiche e alimentari, che non sono una mera appendice secondaria, un di più, ma al contrario rappresentano il cuore stesso della ricchezza nazionale – prima ancora di quelle personali – e soprattutto che l’idea tutta occidentale e bislacca di poterle rubare al Sud Globale senza troppe difficoltà si è rivelata quanto di più assurdo e lontano dalla realtà. I popoli di Africa, Asia e America Latina hanno compreso benissimo che il loro futuro e il loro auspicato benessere avrebbe potuto essere garantito solo da un nuovo progetto globale di cooperazione, come quello messo in campo da cinesi e russi con la proposta multipolare, non più da una depredazione, quella appunto occidentale, che ha lasciato solo miseria, povertà e devastazione dei territori.

Ecco che allora il dominio delle terre e dei mari è tornato d’attualità, al pari dei secoli precedenti, scardinando una narrazione abbastanza puerile che ha dominato purtroppo per troppo tempo il dibattito e la riflessione mondiale, assuefatta a una globalizzazione pervasiva e dogmatica nella sua autoproclamata ultima e irrevocabile tappa del percorso umano, altra arrogante stupidaggine, essendo la storia sempre in movimento.

Il trumpismo, al netto di molte definizioni più o meno appropriate, è principalmente il risultato di una società statunitense che si è fatta consapevole di questa realtà per troppo tempo negata, un delirio ideologico promosso dai globalisti, che hanno arricchito pochi e chiuso fabbriche e impoverito milioni di persone, non solo in giro per il pianeta, ma anche negli stessi Stati Uniti.

Il ritardo a stelle e strisce nell’estrazione e nella lavorazione dei minerali fondamentali per l’energia del presente e del futuro, tanto in patria, quanto in collaborazione con nazioni terze, è enorme e per certi aspetti sconcertante. I presunti dominatori del mondo, autoproclamatisi nel tempo del globalismo violentemente unipolare i primi e i migliori e dunque onniscienti, onnisapienti e onnipotenti, si sono dimostrati in realtà sprovveduti e arroganti, ignoranti delle più elementari regole economiche che governano la crescita e la costruzione del benessere, fondate sul concreto dispiegamento delle forze produttive e non certo su risibili giochi economici dettati dalla finanza speculativa.

Nel delirio iperliberista ecco che l’idea di governare nazioni e porzioni intere del globo “come un’azienda” ha provato a radicarsi, dimostrandosi un completo e totale fallimento, pari solo al delirio che ha reso possibile che qualcuno davvero credesse che bastasse un computer a New York per governare e soprattutto possedere il mondo.

Senza il cobalto e il tantalio congolesi, il niobio brasiliano, l’uranio kazako, il palladio russo, l’antimonio, il gallio, il bismuto, la grafite, il germanio, il magnesio e il tungsteno cinesi, questi ultimi tutti con quote dal 75% al 95% del prodotto estratto e lavorato a livello planetario, non solo è impossibile immaginare il futuro, ma lo è in particolare per una nazione come gli Stati Uniti che dispongono di quote rilevanti solo di berillio ed elio.

Se poi si entra nel dominio delle terre rare, diciassette minerali che per una volta vale la pena elencare, evocandone i nomi e quindi riportandoli alla loro fattiva concretezza e non già alla loro astratta intangibilità: scandio, ittrio, lantanio, cerio, praseodimio, neodimio, promezio, samario, per altro scoperto alla metà del XIX secolo tra gli Urali dall’ingegnere russo Vasilij Samarskij-Bychovez, europio, gadolinio, disprosio, olmio, erbio, tulio, itterbio, lutezio, fondamentali nella tecnologia di guerra, con centinaia di chili necessari per un aereo, un sottomarino, un cacciatorpediniere, si immagini una portaerei, si scopre che il 95% è di questi minerali al momento estratti e lavorati è di proprietà, o in progetto cooperativo di sviluppo con nazioni terze, dei cinesi. Quando Donald Trump propone di annettersi la Groenlandia, per i suoi detrattori conferma la sua instabilità psichica, per tutti gli altri parla grezzamente di quanto sia impellente per Washington trovare quei minerali che non sa più dove cercare e che sono diventati il motore e il volano della crescita economica del XXI secolo, anche perché dal 2024 i cinesi hanno bloccato l’esportazione di metà delle terre rare, come del gallio e del germanio.
La Groenlandia dunque per la Casa Bianca rappresenta ben più della mitologica terra di Thule, che per altro ha dato il nome alla terra rara “tulio”, ma piuttosto un concreto approdo a uno spicchio del pianeta ricco di minerali e terre rare che non abbia ancora sottoscritto con Pechino un progetto d’estrazione.

Il gallio e il germanio si possono altresì ottenere da una trasformazione per fusione dell’alluminio e dello zinco, ma anche in questo caso gli statunitensi ne hanno poco o nulla e inoltre la raffinazione necessita di impianti e costi proibitivi. Anche Australia e Perù, entrambi con miniere consistenti al riguardo, tuttavia spediscono poi tutta la materia prima in Cina per la trasformazione.

Insomma il tanto vecchio e bistrattato settore manifatturiero nella sua variabile più antica, quella delle miniere e dei minatori, si dimostra, ancora una volta, fondamentale per la costruzione della ricchezza di una nazione. Gli Stati Uniti, a partire dagli anni ‘90 del XX secolo, cercando di dettare l’esempio a tutto l’Occidente, hanno chiuso le miniere in nome di una ecologismo tutto ideologico, nel quadro della presunta vittoria non revocabile del liberal – liberismo e della possibilità di estrarre quanto necessario dal Sud Globale, che secondo loro non solo avrebbe dovuto accettare, in ragione della sua presunta subalternità, di svolgere questi mansioni rischiose e inquinanti a tutto vantaggio esclusivo dell’Occidente, ma che mai avrebbe dovuto o potuto emanciparsi da questa condizione.

In una famosa dichiarazione Ronald Reagan, durante una conferenza stampa, rispondendo a una domanda sulla collaborazione con i comunisti cinesi, sorridendo ha affermato che si trattasse dei “cagnolini da passeggio della Casa Bianca”. Mai errore strategico e geopolitico è stato più clamoroso. Deng Xiaoping, rispondendo non in pubblico, ma durante una seduta del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese, in cui molti dirigenti gli hanno chiesto conto del perché il governo di Pechino non avesse risposto a tale sprezzante e razzistica affermazione pubblicamente, ha concluso di lasciar pur credere a quegli arroganti tali stupidaggini, il tempo e la storia avrebbero dimostrato come nel XXI secolo la Cina sarebbe tornata, al pari di secoli molto precedenti, la prima potenza planetaria.

Così, mentre l’Occidente ha abbandonato da trent’anni le miniere e oggi in molti casi non ha neppure la tecnologica e i macchinari per riaprirle, in Cina il campo minerario ha avuto un’impetuosa crescita non solo quantitativa, ma anche qualitativa, con una crescente capacità d’estrazione, ma anche con solide tutele dei lavoratori e robuste garanzie ecologiche.

A fronte di tutto questo il disastro statunitense è di proporzioni colossali, nel settore minerario vi sono ancora duecentomila occupati, ma metà son sulla soglia della pensione che raggiungeranno entro il 2030, i laureati in ingegneria mineraria sono meno della metà d’inizio secolo, a segno di quanto in cinque lustri l’importanza del settore non sia stata percepita e gli investimenti si siano fortemente affievoliti.

Donald Trump cerca di invertire questo declino di un settore occupazionale capace di trascinare con sé in un disastro non reversibile l’intero sistema economico a stelle e strisce, trasformando in un miraggio il decantato e improbabile ritorno a un primato mondiale statunitense,  oramai scivolato saldamente in mani cinesi.

Trump inoltre cerca di comporre una lista unica di materie prime strategiche, tuttavia si trova ostacolato da tutte le diverse agenzie e i diversi dipartimenti statali, ognuno con le sue priorità non armonizzate e in conflitto le une con le altre, per di più con un ufficio di coordinamento delle attività minerarie, il Bureau of Mines, allegramente chiuso nel 1996 da Bill Clinton, il quale probabilmente sulla Cina la pensava come Reagan, inebriato per di più dal vorace e feroce colonialismo minerario praticato in quei tempi da Washington contro la Russia con il beneplacito di Boris Eltsin.

Può sembrar strano, ma Trump ha capito che il mercato non si autoregola e che si dovrebbe legiferare con vincoli statali nell’interesse della sicurezza nazionale, ma neppure il Pentagono, che si è appellato al Defense Production Act del 1950 firmato dal presidente Truman, è riuscito a riaprire le miniere, se non una ventina e riesce a cavarne giusto il quantitativo di litio, cobalto, nichel e manganese per un po’ di batterie.

Ultima speranza trumpiana, al netto della conquista della Groenlandia, la Mineral Security Partnership firmata con Nerendra Modi, tuttavia è da dimostrare che la collaborazione con gli indiani possa essere da questi immaginata come subalterna agli interessi di Washington, quando è più credibile che Delhi intenda sfruttarla per costruire una sua propria auspicata egemonia prima mineraria e poi mondiale .

Trump firma a ripetizione ordini esecutivi su questi e altri temi, dettati dalla piena consapevolezza del disastroso ritardo statunitense e i suoi avversari hanno buon gioco a definire i suoi propositi accentratori, distruttori delle normative sulla tutela del paesaggio e dell’ambiente, tuttavia velocizzare i permessi e distruggere i vincoli ecologici non basta, appena si riapre una miniera, come quella di antimonio nell’Idhao, non arrivando più tale minerale dalla Cina, gli ecologisti bloccano tutto e non si può sempre mandar l’esercito come in California.

Trump ha bloccato tutti gli aiuti allo sviluppo del resto del mondo, con correlato piagnisteo di quanti hanno utilizzato quei fondi per finte ONG destinate a promuovere rivoluzioni colorate nell’interesse, prima ancora che di Washington, della finanza speculativa di Wall Street, tuttavia tra i fondi bloccati ci sono anche quelli erogati dagli anni ‘70 del XX secolo dal Development Finance Corporation che fino a ieri giungevano ancora a Pechino e di cui nessuno, pure nel primo mandato di Trump, si era accorto, probabilmente nel divertito silenzio dei cinesi.

Alla luce di tutto questo, l’interesse trumpiano per i giacimenti di grafite, titanio, litio e uranio ucraini diventa vitale e comprensibile, al pari di quello per il gallio, il cobalto, il tungsteno, il niobio e le terre rare canadesi.

Altro fronte, ovviamente anch’esso avversato dagli ecologisti, è quello del mare, ricco di miniere sottomarine, più o meno polimetalliche, presenti in tutti gli oceani, ma la filiera per l’estrazione richiede la progettazione e la costruzione di macchinari molto particolari, anche in questo caso i soli al passo con l’urgenza estrattiva sono i cinesi, che inizieranno a estrarre proprio in questo 2025 e non intendono in nessun modo condividere tale tecnologia con altri, meno che mai loro avversari.

Decenni di paziente, silenziosa, attenta e mirata pianificazione hanno costruito il primato cinese in campo minerario, a colpi di piani quinquennali, con buona pace di tutti i devoti del liberismo e della deregolamentazione.

Quello che Trump pare con tutta evidenza abbia capito, è che un ritardo nel settore estrattivo equivale a una incapacità di costruire un primato economico e militare planetario, una giusta intuizione, ma oramai troppo tardiva, fatto che preoccupa gli amici della NATO e che rallegra quanti auspicano una rapida affermazione del multipolarismo promosso da Cina e Russia.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

See also

See also

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.