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Stefano Vernole
April 24, 2025
© Photo: Public domain

In seguito agli attacchi statunitensi contro gli Houthi, le forze filogovernative yemenite starebbero valutando una grande offensiva terrestre.

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In seguito agli attacchi statunitensi contro gli Houthi, le forze filogovernative yemenite starebbero valutando una grande offensiva terrestre. Queste fazioni, supportate dagli Emirati Arabi Uniti, ci vedono un’opportunità per riprendere il controllo di aree chiave della costa del Mar Rosso, tra cui il porto strategico di Hodeidah, detenuto da quasi un decennio da Ansarullah, gli Houthi.

L’obiettivo principale: privare gli Houthi della leva economica e di una via per la fornitura di armi tramite l’Iran; nonostante le smentite ufficiali di Teheran, diversi sequestri sono stati attribuiti dall’ONU ai circuiti iraniani. Secondo fonti a conoscenza della questione, si ritiene che alcune società di sicurezza private statunitensi abbiano fornito consulenza alle forze yemenite nella pianificazione dell’operazione.

Gli U.S.A., nonostante abbia effettuato più di 350 attacchi da metà marzo, non hanno ancora deciso se sostenere o meno un’offensiva di terra. Washington ricorda che la responsabilità della sicurezza nella regione ricade principalmente sui suoi partner ma è appena arrivato un secondo gruppo d’attacco di portaerei statunitensi, il che fa presagire un’intensificazione a breve termine dell’operazione nel Mar Rosso.

Nonostante i bombardamenti subiti, gli Houthi hanno continuato i loro attacchi con droni e missili, prendendo di mira in particolare le navi nordamericane e israeliane. L’apertura di un fronte terrestre mira a distruggere le infrastrutture sotterranee e le riserve di armi che gli attacchi aerei non possono raggiungere. Questa opzione, tuttavia, comporta un rischio notevole: quello di riaccendere una guerra civile su larga scala, aggravando la persistente crisi umanitaria dello Yemen.

Riyadh, pur sostenendo da tempo il riconosciuto Governo yemenita, si è finora rifiutata di impegnarsi in una nuova campagna terrestre, temendo una ripresa degli attacchi degli Houthi contro il suo territorio. Anzi, il Ministro della Difesa saudita Khalid bin Salman si è recato in visita nei giorni scorsi a Teheran, dove ha incontrato la Guida della Rivoluzione iraniana e il Maggiore Generale Mohammad Baqeri, dimostrando di volersi smarcare dall’aggressività statunitense.

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno attrezzato la loro base militare a Diego Garcia e hanno avviato colloqui sul nucleare con l’Iran in Oman, senza che finora venisse affrontato il tema del sostegno agli Houthi. Washington sta anche lavorando, tramite mediatori arabi, ad una tregua a Gaza, che gli Houthi hanno posto come condizione per interrompere i loro attacchi navali.

Il destino della sicurezza marittima nel Mar Rosso, centro del commercio globale, dipende ora da un precario equilibrio tra pressione militare, iniziative diplomatiche e interessi strategici regionali.

Storicamente, le operazioni statunitensi in Yemen si sono concentrate sull’antiterrorismo, prendendo di mira Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Tuttavia, la svolta verso l’attacco ad Ansarullah segna un cambiamento significativo. Sebbene gli Houthi non siano classificati come gruppo terroristico dalle Nazioni Unite, gli Stati Uniti li hanno sempre più posizionati come un avversario importante nella regione, consolidando ulteriormente l’impegno militare.

Nonostante l’escalation dei bombardamenti, non c’è stata alcuna dichiarazione di guerra ufficiale contro gli Houthi o lo Yemen. Ciò solleva serie preoccupazioni costituzionali e legali. La Costituzione degli Stati Uniti richiede l’approvazione del Congresso per gli atti di guerra, eppure l’Amministrazione Trump ha intrapreso azioni militari unilaterali con scarsa supervisione e dibattito pubblico. Questa situazione rispecchia i conflitti passati in Libia, Siria e Somalia, dove gli Stati Uniti hanno condotto lunghe campagne militari senza dichiarazioni di guerra formali.

La mancanza di dibattito pubblico e di approvazione del Congresso per l’impegno militare in Yemen costituisce un precedente pericoloso e solleva interrogativi fondamentali sulla politica estera statunitense, sulla sua responsabilità e sull’impatto a lungo termine di un ulteriore intervento militare in Medio Oriente. Se questi attacchi continuano senza controllo, potrebbero portare a un conflitto regionale più ampio che coinvolge l’Iran? Quali sono i rischi di un’escalation delle missioni, in cui le azioni “difensive” si trasformano in una guerra su vasta scala?

Il vero scandalo non è solo che alti funzionari abbiano fatto trapelare i piani di guerra, ma che gli Stati Uniti stiano conducendo operazioni militari in Yemen con scarsa trasparenza e dibattito.  I media non devono solo analizzare la violazione della sicurezza, ma anche fare chiarezza sugli obiettivi militari statunitensi nella regione. Senza responsabilità, la storia ha dimostrato che ciò che inizia come “azione limitata” può rapidamente trasformarsi in una guerra senza fine.

In un’eventuale azione terrestre coordinata da Washington – il CSG della portaerei “Carl Vinson” è stato prelevato dal quadrante indo-pacifico – il ruolo fondamentale verrebbe svolto dagli Emirati Arabi Uniti che ad Aden sostengono il Consiglio di Transizione Meridionale (STC). L’obiettivo dell’operazione militare sarebbe conquistare parti delle regioni di al-Hodeidah, Taizz e del Quinto Distretto, controllate da Ansarullah.

Il Ministro aggiunto degli Affari Politici degli Emirati Arabi Uniti, Lana Nusseibeh, ha definito le notizie divulgate da alcuni giornali statunitensi “storie assurde e prive di fondamento”, forse in attesa di capire gli esiti del negoziato sul nucleare iraniano che si è ora spostato a Roma, probabilmente nella sede dell’Ambasciata dell’Oman in Italia.

Dopo gli ultimi colloqui indiretti a Muscat, il Ministero degli Esteri omanita aveva infatti proposto di spostare in Europa i colloqui. La ragione era tanto semplice quanto concreta: risparmiare all’inviato speciale statunitense Witkoff un lungo viaggio di almeno 17 ore fino al Golfo Persico e l’Italia era emersa tra le sedi proposte, insieme ad altre due o tre opzioni. Sarebbe stata accettata da entrambe le parti dopo che l’Iran aveva posto una condizione: evitare Regno Unito, Francia e Germania, noti come gruppo E3, esclusi dai negoziati dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2025.

La riunione romana vede la partecipazione dell’inviato speciale degli Usa per il Medio Oriente, Steve Witkoff, del ministro degli Esteri dell’Iran, Abbas Araghchi, e di quello dell’Oman, Badr bin Hamad Al Busaidi. Prima di recarsi a Roma, il Ministro degli Esteri dell’Iran ha visitato Mosca, dove è stato ricevuto dal presidente della Federazione russa, Vladimir Putin; le parti hanno discusso delle relazioni bilaterali, ma si sarebbero confrontate anche sul dossier relativo al nucleare, ribadendo l’importanza del partenariato strategico globale firmato dai due Paesi.

Il New York Times ha rivelato che Israele aveva già pianificato, per il mese prossimo, di colpire i siti nucleari iraniani, ma Trump avrebbe spinto Tel Aviv a sospendere l’operazione per dare spazio alla possibilità di negoziare un accordo con Teheran per limitare il suo programma nucleare. Gli uomini più vicini all’attuale Presidente U.S.A. sarebbero preoccupati soprattutto perché l’ipotesi di colpire i siti nucleari iraniani esporrebbe i militari nordamericani nella regione a una rappresaglia, proprio mentre si starebbero ritirando i soldati statunitensi dalla Siria.

Evidentemente, i colloqui romani risulteranno decisivi per capire se il puzzle del Medio Oriente andrà verso una ricomposizione oppure la regione stia per esplodere nuovamente.

Il conflitto in Yemen verso l’escalation? I colloqui tra Iran e U.S.A. diventano decisivi

In seguito agli attacchi statunitensi contro gli Houthi, le forze filogovernative yemenite starebbero valutando una grande offensiva terrestre.

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In seguito agli attacchi statunitensi contro gli Houthi, le forze filogovernative yemenite starebbero valutando una grande offensiva terrestre. Queste fazioni, supportate dagli Emirati Arabi Uniti, ci vedono un’opportunità per riprendere il controllo di aree chiave della costa del Mar Rosso, tra cui il porto strategico di Hodeidah, detenuto da quasi un decennio da Ansarullah, gli Houthi.

L’obiettivo principale: privare gli Houthi della leva economica e di una via per la fornitura di armi tramite l’Iran; nonostante le smentite ufficiali di Teheran, diversi sequestri sono stati attribuiti dall’ONU ai circuiti iraniani. Secondo fonti a conoscenza della questione, si ritiene che alcune società di sicurezza private statunitensi abbiano fornito consulenza alle forze yemenite nella pianificazione dell’operazione.

Gli U.S.A., nonostante abbia effettuato più di 350 attacchi da metà marzo, non hanno ancora deciso se sostenere o meno un’offensiva di terra. Washington ricorda che la responsabilità della sicurezza nella regione ricade principalmente sui suoi partner ma è appena arrivato un secondo gruppo d’attacco di portaerei statunitensi, il che fa presagire un’intensificazione a breve termine dell’operazione nel Mar Rosso.

Nonostante i bombardamenti subiti, gli Houthi hanno continuato i loro attacchi con droni e missili, prendendo di mira in particolare le navi nordamericane e israeliane. L’apertura di un fronte terrestre mira a distruggere le infrastrutture sotterranee e le riserve di armi che gli attacchi aerei non possono raggiungere. Questa opzione, tuttavia, comporta un rischio notevole: quello di riaccendere una guerra civile su larga scala, aggravando la persistente crisi umanitaria dello Yemen.

Riyadh, pur sostenendo da tempo il riconosciuto Governo yemenita, si è finora rifiutata di impegnarsi in una nuova campagna terrestre, temendo una ripresa degli attacchi degli Houthi contro il suo territorio. Anzi, il Ministro della Difesa saudita Khalid bin Salman si è recato in visita nei giorni scorsi a Teheran, dove ha incontrato la Guida della Rivoluzione iraniana e il Maggiore Generale Mohammad Baqeri, dimostrando di volersi smarcare dall’aggressività statunitense.

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno attrezzato la loro base militare a Diego Garcia e hanno avviato colloqui sul nucleare con l’Iran in Oman, senza che finora venisse affrontato il tema del sostegno agli Houthi. Washington sta anche lavorando, tramite mediatori arabi, ad una tregua a Gaza, che gli Houthi hanno posto come condizione per interrompere i loro attacchi navali.

Il destino della sicurezza marittima nel Mar Rosso, centro del commercio globale, dipende ora da un precario equilibrio tra pressione militare, iniziative diplomatiche e interessi strategici regionali.

Storicamente, le operazioni statunitensi in Yemen si sono concentrate sull’antiterrorismo, prendendo di mira Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Tuttavia, la svolta verso l’attacco ad Ansarullah segna un cambiamento significativo. Sebbene gli Houthi non siano classificati come gruppo terroristico dalle Nazioni Unite, gli Stati Uniti li hanno sempre più posizionati come un avversario importante nella regione, consolidando ulteriormente l’impegno militare.

Nonostante l’escalation dei bombardamenti, non c’è stata alcuna dichiarazione di guerra ufficiale contro gli Houthi o lo Yemen. Ciò solleva serie preoccupazioni costituzionali e legali. La Costituzione degli Stati Uniti richiede l’approvazione del Congresso per gli atti di guerra, eppure l’Amministrazione Trump ha intrapreso azioni militari unilaterali con scarsa supervisione e dibattito pubblico. Questa situazione rispecchia i conflitti passati in Libia, Siria e Somalia, dove gli Stati Uniti hanno condotto lunghe campagne militari senza dichiarazioni di guerra formali.

La mancanza di dibattito pubblico e di approvazione del Congresso per l’impegno militare in Yemen costituisce un precedente pericoloso e solleva interrogativi fondamentali sulla politica estera statunitense, sulla sua responsabilità e sull’impatto a lungo termine di un ulteriore intervento militare in Medio Oriente. Se questi attacchi continuano senza controllo, potrebbero portare a un conflitto regionale più ampio che coinvolge l’Iran? Quali sono i rischi di un’escalation delle missioni, in cui le azioni “difensive” si trasformano in una guerra su vasta scala?

Il vero scandalo non è solo che alti funzionari abbiano fatto trapelare i piani di guerra, ma che gli Stati Uniti stiano conducendo operazioni militari in Yemen con scarsa trasparenza e dibattito.  I media non devono solo analizzare la violazione della sicurezza, ma anche fare chiarezza sugli obiettivi militari statunitensi nella regione. Senza responsabilità, la storia ha dimostrato che ciò che inizia come “azione limitata” può rapidamente trasformarsi in una guerra senza fine.

In un’eventuale azione terrestre coordinata da Washington – il CSG della portaerei “Carl Vinson” è stato prelevato dal quadrante indo-pacifico – il ruolo fondamentale verrebbe svolto dagli Emirati Arabi Uniti che ad Aden sostengono il Consiglio di Transizione Meridionale (STC). L’obiettivo dell’operazione militare sarebbe conquistare parti delle regioni di al-Hodeidah, Taizz e del Quinto Distretto, controllate da Ansarullah.

Il Ministro aggiunto degli Affari Politici degli Emirati Arabi Uniti, Lana Nusseibeh, ha definito le notizie divulgate da alcuni giornali statunitensi “storie assurde e prive di fondamento”, forse in attesa di capire gli esiti del negoziato sul nucleare iraniano che si è ora spostato a Roma, probabilmente nella sede dell’Ambasciata dell’Oman in Italia.

Dopo gli ultimi colloqui indiretti a Muscat, il Ministero degli Esteri omanita aveva infatti proposto di spostare in Europa i colloqui. La ragione era tanto semplice quanto concreta: risparmiare all’inviato speciale statunitense Witkoff un lungo viaggio di almeno 17 ore fino al Golfo Persico e l’Italia era emersa tra le sedi proposte, insieme ad altre due o tre opzioni. Sarebbe stata accettata da entrambe le parti dopo che l’Iran aveva posto una condizione: evitare Regno Unito, Francia e Germania, noti come gruppo E3, esclusi dai negoziati dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2025.

La riunione romana vede la partecipazione dell’inviato speciale degli Usa per il Medio Oriente, Steve Witkoff, del ministro degli Esteri dell’Iran, Abbas Araghchi, e di quello dell’Oman, Badr bin Hamad Al Busaidi. Prima di recarsi a Roma, il Ministro degli Esteri dell’Iran ha visitato Mosca, dove è stato ricevuto dal presidente della Federazione russa, Vladimir Putin; le parti hanno discusso delle relazioni bilaterali, ma si sarebbero confrontate anche sul dossier relativo al nucleare, ribadendo l’importanza del partenariato strategico globale firmato dai due Paesi.

Il New York Times ha rivelato che Israele aveva già pianificato, per il mese prossimo, di colpire i siti nucleari iraniani, ma Trump avrebbe spinto Tel Aviv a sospendere l’operazione per dare spazio alla possibilità di negoziare un accordo con Teheran per limitare il suo programma nucleare. Gli uomini più vicini all’attuale Presidente U.S.A. sarebbero preoccupati soprattutto perché l’ipotesi di colpire i siti nucleari iraniani esporrebbe i militari nordamericani nella regione a una rappresaglia, proprio mentre si starebbero ritirando i soldati statunitensi dalla Siria.

Evidentemente, i colloqui romani risulteranno decisivi per capire se il puzzle del Medio Oriente andrà verso una ricomposizione oppure la regione stia per esplodere nuovamente.

In seguito agli attacchi statunitensi contro gli Houthi, le forze filogovernative yemenite starebbero valutando una grande offensiva terrestre.

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In seguito agli attacchi statunitensi contro gli Houthi, le forze filogovernative yemenite starebbero valutando una grande offensiva terrestre. Queste fazioni, supportate dagli Emirati Arabi Uniti, ci vedono un’opportunità per riprendere il controllo di aree chiave della costa del Mar Rosso, tra cui il porto strategico di Hodeidah, detenuto da quasi un decennio da Ansarullah, gli Houthi.

L’obiettivo principale: privare gli Houthi della leva economica e di una via per la fornitura di armi tramite l’Iran; nonostante le smentite ufficiali di Teheran, diversi sequestri sono stati attribuiti dall’ONU ai circuiti iraniani. Secondo fonti a conoscenza della questione, si ritiene che alcune società di sicurezza private statunitensi abbiano fornito consulenza alle forze yemenite nella pianificazione dell’operazione.

Gli U.S.A., nonostante abbia effettuato più di 350 attacchi da metà marzo, non hanno ancora deciso se sostenere o meno un’offensiva di terra. Washington ricorda che la responsabilità della sicurezza nella regione ricade principalmente sui suoi partner ma è appena arrivato un secondo gruppo d’attacco di portaerei statunitensi, il che fa presagire un’intensificazione a breve termine dell’operazione nel Mar Rosso.

Nonostante i bombardamenti subiti, gli Houthi hanno continuato i loro attacchi con droni e missili, prendendo di mira in particolare le navi nordamericane e israeliane. L’apertura di un fronte terrestre mira a distruggere le infrastrutture sotterranee e le riserve di armi che gli attacchi aerei non possono raggiungere. Questa opzione, tuttavia, comporta un rischio notevole: quello di riaccendere una guerra civile su larga scala, aggravando la persistente crisi umanitaria dello Yemen.

Riyadh, pur sostenendo da tempo il riconosciuto Governo yemenita, si è finora rifiutata di impegnarsi in una nuova campagna terrestre, temendo una ripresa degli attacchi degli Houthi contro il suo territorio. Anzi, il Ministro della Difesa saudita Khalid bin Salman si è recato in visita nei giorni scorsi a Teheran, dove ha incontrato la Guida della Rivoluzione iraniana e il Maggiore Generale Mohammad Baqeri, dimostrando di volersi smarcare dall’aggressività statunitense.

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti hanno attrezzato la loro base militare a Diego Garcia e hanno avviato colloqui sul nucleare con l’Iran in Oman, senza che finora venisse affrontato il tema del sostegno agli Houthi. Washington sta anche lavorando, tramite mediatori arabi, ad una tregua a Gaza, che gli Houthi hanno posto come condizione per interrompere i loro attacchi navali.

Il destino della sicurezza marittima nel Mar Rosso, centro del commercio globale, dipende ora da un precario equilibrio tra pressione militare, iniziative diplomatiche e interessi strategici regionali.

Storicamente, le operazioni statunitensi in Yemen si sono concentrate sull’antiterrorismo, prendendo di mira Al-Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP). Tuttavia, la svolta verso l’attacco ad Ansarullah segna un cambiamento significativo. Sebbene gli Houthi non siano classificati come gruppo terroristico dalle Nazioni Unite, gli Stati Uniti li hanno sempre più posizionati come un avversario importante nella regione, consolidando ulteriormente l’impegno militare.

Nonostante l’escalation dei bombardamenti, non c’è stata alcuna dichiarazione di guerra ufficiale contro gli Houthi o lo Yemen. Ciò solleva serie preoccupazioni costituzionali e legali. La Costituzione degli Stati Uniti richiede l’approvazione del Congresso per gli atti di guerra, eppure l’Amministrazione Trump ha intrapreso azioni militari unilaterali con scarsa supervisione e dibattito pubblico. Questa situazione rispecchia i conflitti passati in Libia, Siria e Somalia, dove gli Stati Uniti hanno condotto lunghe campagne militari senza dichiarazioni di guerra formali.

La mancanza di dibattito pubblico e di approvazione del Congresso per l’impegno militare in Yemen costituisce un precedente pericoloso e solleva interrogativi fondamentali sulla politica estera statunitense, sulla sua responsabilità e sull’impatto a lungo termine di un ulteriore intervento militare in Medio Oriente. Se questi attacchi continuano senza controllo, potrebbero portare a un conflitto regionale più ampio che coinvolge l’Iran? Quali sono i rischi di un’escalation delle missioni, in cui le azioni “difensive” si trasformano in una guerra su vasta scala?

Il vero scandalo non è solo che alti funzionari abbiano fatto trapelare i piani di guerra, ma che gli Stati Uniti stiano conducendo operazioni militari in Yemen con scarsa trasparenza e dibattito.  I media non devono solo analizzare la violazione della sicurezza, ma anche fare chiarezza sugli obiettivi militari statunitensi nella regione. Senza responsabilità, la storia ha dimostrato che ciò che inizia come “azione limitata” può rapidamente trasformarsi in una guerra senza fine.

In un’eventuale azione terrestre coordinata da Washington – il CSG della portaerei “Carl Vinson” è stato prelevato dal quadrante indo-pacifico – il ruolo fondamentale verrebbe svolto dagli Emirati Arabi Uniti che ad Aden sostengono il Consiglio di Transizione Meridionale (STC). L’obiettivo dell’operazione militare sarebbe conquistare parti delle regioni di al-Hodeidah, Taizz e del Quinto Distretto, controllate da Ansarullah.

Il Ministro aggiunto degli Affari Politici degli Emirati Arabi Uniti, Lana Nusseibeh, ha definito le notizie divulgate da alcuni giornali statunitensi “storie assurde e prive di fondamento”, forse in attesa di capire gli esiti del negoziato sul nucleare iraniano che si è ora spostato a Roma, probabilmente nella sede dell’Ambasciata dell’Oman in Italia.

Dopo gli ultimi colloqui indiretti a Muscat, il Ministero degli Esteri omanita aveva infatti proposto di spostare in Europa i colloqui. La ragione era tanto semplice quanto concreta: risparmiare all’inviato speciale statunitense Witkoff un lungo viaggio di almeno 17 ore fino al Golfo Persico e l’Italia era emersa tra le sedi proposte, insieme ad altre due o tre opzioni. Sarebbe stata accettata da entrambe le parti dopo che l’Iran aveva posto una condizione: evitare Regno Unito, Francia e Germania, noti come gruppo E3, esclusi dai negoziati dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca nel gennaio 2025.

La riunione romana vede la partecipazione dell’inviato speciale degli Usa per il Medio Oriente, Steve Witkoff, del ministro degli Esteri dell’Iran, Abbas Araghchi, e di quello dell’Oman, Badr bin Hamad Al Busaidi. Prima di recarsi a Roma, il Ministro degli Esteri dell’Iran ha visitato Mosca, dove è stato ricevuto dal presidente della Federazione russa, Vladimir Putin; le parti hanno discusso delle relazioni bilaterali, ma si sarebbero confrontate anche sul dossier relativo al nucleare, ribadendo l’importanza del partenariato strategico globale firmato dai due Paesi.

Il New York Times ha rivelato che Israele aveva già pianificato, per il mese prossimo, di colpire i siti nucleari iraniani, ma Trump avrebbe spinto Tel Aviv a sospendere l’operazione per dare spazio alla possibilità di negoziare un accordo con Teheran per limitare il suo programma nucleare. Gli uomini più vicini all’attuale Presidente U.S.A. sarebbero preoccupati soprattutto perché l’ipotesi di colpire i siti nucleari iraniani esporrebbe i militari nordamericani nella regione a una rappresaglia, proprio mentre si starebbero ritirando i soldati statunitensi dalla Siria.

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