Con l’incremento in aiuti alle forze armate sudanesi, Teheran si sta rapidamente muovendo per ottenere un ruolo di primo piano nel futuro di Khartoum ed un notevole vantaggio strategico sul Mar Rosso.
Il 17 febbraio 2025, il Ministro degli Esteri sudanese Ali Yussuf si è recato a Teheran dova ha incontrato i vertici politici della Repubblica Islamica dell’Iran; il Presidente Masoud Pezeshkian ed il suo corrispettivo Abbas Araghchi. Nel corso dell’incontro, Yussuf ha ottenuto pieno sostegno iraniano nella lotta contro le rivali Forze di Supporto Rapido, notevoli incentivi per ciò che concerne lo scambio di tecnologia militare, e la promessa di investimenti per la ricostruzione del Sudan da parte di diverse compagnie iraniane.
Sin dal 2023, l’Iran ha optato per scendere direttamente in campo a sostegno delle Forze Armate Sudanesi in quella che, da guerra civile, si è rapidamente trasformata in una “guerra per procura” in cui sono coinvolti diversi attori regionali ed extraregionali; dallo stesso Iran ad Israele, Egitto, Emirati Arabi Uniti, fino ad arrivare a Russia e Turchia.
L’obiettivo dell’Iran, in questo contesto, è mettere un piede sull’altra sponda del Mar Rosso, dove può già contare sulla presenza degli Houthi nel fondamentale porto di Hodeida nello Yemen. Da qui, i ribelli yemeniti non solo ottengono gran parte degli introiti che gli consentono di guidare la porzione di territorio sotto loro diretto controllo, ma sono stati anche capaci di guidare attacchi alla flotta mercantile diretta verso il porto israeliano di Eilat, creando di fatto notevoli danni economici al cosiddetto “Stato ebraico”. Una presenza iraniana a Port Sudan, inoltre, consentirebbe a Teheran di “limitare i danni” qualora le monarchie del Golfo (questa volta con un maggiore sostegno di USA e Israele) scelgano di attaccare nuovamente Hodeida, dopo il fallimentare tentativo a guida emiratina del 2018.
Dunque, la presenza iraniana su entrambe le sponde del Mar Rosso si presenterebbe come una pura forma di deterrenza, se si considera il fatto che l’Iran detiene già un controllo effettivo sullo Stretto di Hormuz (soprattutto grazie alla sovranità su alcune isole situate in prossimità dello sbocco del Golfo Persico sull’Oceano Indiano). Teheran, infatti, arriverebbe a porre sotto la sua supervisione diretta due tra le più importanti aree di transito di flussi energetico-commerciali a livello globale (con la possibilità, tra l’altro, di infliggere notevoli problemi, anche maggiori di quelli dati dagli Houthi, ad Israele). Dal Mar Rosso (ed attraverso il Canale di Suez), infatti, passa il 15% del commercio globale marittimo ed il 12% del petrolio; mentre la stessa area è fondamentale per la connessione tra Mediterraneo ed Oceano Indiano. Motivo per cui l’attuale amministrazione USA vede di buon occhio una presenza statunitense a Gaza: crocevia tra l’Asia e l’Europa, situata in prossimità di importanti riserve gassifere, dei futuristi piani sauditi relativi alla megalopoli Neom, e di diversi progetti di interconnessione eurasiatica.
Ora, i rapporti tra Iran e Sudan sono stati storicamente piuttosto ambigui, per non dire assai complicati. Prima di tutto è bene sottolineare che esiste una storia di penetrazione dell’Iran nell’Africa sahariana e subsahariana sostanzialmente ignorata in Occidente. Dopo la Rivoluzione islamica, l’università al-Mustafa (fondata dall’Imam Ruhollah Khomeini) ha lavorato per attirare studenti da tutte le regioni musulmane dell’Africa. A partire dai primi anni ‘2000, l’Iran ha pure costruito e finanziato diversi centri culturali e moschee sciite in tutto il continente. Per ciò che concerne il Sudan (Paese a grande maggioranza sunnita), i tentativi di fare proselitismo hanno avuto successo (limitato) solo nell’area di Khartoum, dove già esisteva una minoranza sciita di un certo rilievo.
Nonostante ciò, l’Iran ha avuto un certo rilievo nella salita al potere di Omar al-Bashir nel 1989 sotto la direzione della guida religiosa di Hassan al-Turabi (poi arrestato dallo stesso al-Bashir nel 2011), ed ha sostenuto a lungo il suo regime islamico-militare. Le idee di al-Turabi meritano un breve approfondimento, visto che si presentano in opposizione sia con alcuni principi del khomeinismo che con le idee del radicalismo sunnita salafi e wahhabita. Questi, infatti, incline al sufismo, col passare del tempo, ha costruito un’idea di “governo islamico” non privo di rimandi alla tradizione politica occidentale – di notevole rilievo l’utilizzo del concetto islamico di shura (consultazione) come sistema introduttivo di forme democratiche all’interno dell’Islam – che, di fatto, rifiutava l’idea di un predominio al potere della classe religiosa degli ulema.
Ad ogni modo, nel 2016, quando era ancora al potere al-Bashir (e dopo la secessione dell’area ricca di risorse petrolifere del Sud Sudan, patrocinata dall’Occidente), l’ambasciatore iraniano a Khartoum venne espulso a seguito dell’attacco all’ambasciata saudita a Teheran, esito, a sua volta, dell’esecuzione del sapiente sciita (ed esponente dell’opposizione alla casa reale saudita) Nimr al-Nimri. Esecuzione arrivata in un momento in cui le proteste nella regione a maggioranza sciita di al-Qatif stavano mettendo a dura prova il Regno sia per il fatto che tale area è una delle più ricche dal punto di vista petrolifero, sia per la pesante repressione totalmente silenziata dai mezzi di informazione occidentali (un’operazione simile a quella attuata in Bahrein nel 2011).
Quindi, dopo esser stato per alcuni decenni il terzo partner commerciale dell’Iran in Africa, le relazioni tra Sudan e Repubblica Islamica hanno conosciuto una brusca interruzione. Il Sudan, tra l’altro, ha partecipato attivamente alla coalizione a guida saudita nello Yemen (4000 uomini più 4 aerei da combattimento). In particolare, gli Emirati Arabi Uniti hanno utilizzato le milizie Janjaweed di Mohammad Hamdan Dagalo (noto Hemedti), reduci dalla guerra nel Darfour, come forze mercenarie contro gli Houthi.
Non solo, dopo la destituzione di al-Bashir a seguito di un colpo di Stato nel 2019, il Consiglio di Transizione Militare, al cui interno si trovavano sia Abdel Fattah al-Burhan (capo delle Forze Armate Sudenesi) che Hemedti, ha siglato i cosiddetti “accordi di Abramo” dopo un incontro tra lo stesso al-Burhan e Benjamin Netanyahu a Kampala, in Uganda, e dopo che gli Stati Uniti hanno rimosso il Sudan dalla lista dei Paesi sostenitori del terrorismo (il Sudan di al-Bashir è stato a lungo in ottimi rapporti con Hamas, al punto che Israele, a più riprese, ha proposto ai vertici politici del Movimento di Resistenza Islamico al potere nella Striscia di Gaza l’esilio a Khartoum in cambio di un cessate il fuoco permanente).
Nello scenario del conflitto di potere interno esploso nel 2023 tra le Forze Armate Sudanesi (FAS) e le Forze di Supporto Rapido (FSR) di Hemedti, paradossalmente, hanno giocato un ruolo decisivo le residue forze islamiche che avevano sostenuto il governo di al-Bashir. In primo luogo quelle facenti riferimento ad Ali Karti, legato sia ad Hamas che al Qatar. Dopo l’iniziale successo delle FSR, ampiamente sostenute sia da Israele che dagli Emirati Arabi Uniti (anche attraverso canali inaspettati, come il russo gruppo Wagner), le FAS, arroccate a Port Sudan, si sono dimostrate capaci di riconquistare progressivamente il territorio perduto, fino a rivendicare la nuova presa di Khartoum (28 marzo 2025). Un successo che sarebbe stato impossibile senza l’aiuto iraniano (armi, missili e droni Mohajer-4 e Mohajer-6) e russo.
Ad onor del vero, il sostegno russo è rimasto piuttosto ambiguo. Mosca, da potenza post-ideologica, infatti, almeno inizialmente, ha sostenuto entrambi le parti in conflitto in vista di massimizzare i vantaggi: ufficialmente le FAS e, non ufficialmente, le FSR attraverso il suddetto gruppo Wagner che ha fatto pervenire in Sudan armi emiratine via Repubblica Centraficana. Gli interessi russi in Sudan sono di lunga data. La presenza di una base navale russa sul Mar Rosso era stata discussa sin dai tempi di al-Bashir; mentre oggi il commercio di armi, carburante ed oro appare particolarmente utile per superare il regime sanzionatorio imposto dall’Occidente a Mosca.
Lo stesso discorso vale per l’Iran. La sua penetrazione commerciale-militare in Africa, dopo la fine dell’embargo sulla vendita della armi nel 2020, ha già ottenuto un certo successo in Etiopia. Ed oggi appare come una direttrice geopolitica fondamentale per superare il regime della “massima pressione” operato dagli Stati Uniti (che pure cercano di ripristinare un accordo sul nucleare proprio con Teheran). A ciò si aggiunga che: 1) un eventuale successo definitivo delle FAS rappresenterebbe una interessante vetrina di lancio per i prodotti militari iraniani (già internazionalmente conosciuti grazie al loro utilizzo nel teatro di conflitto ucraino dalla Russia); 2) la partecipazione (sebbene indiretta) al conflitto sudanese si presenta come un’ottima opportunità per disarticolare gli accordi di Abramo e pure il campo arabo sunnita, visto che l’Egitto ha scelto di appoggiare le FAS contro le FSR sotto influenza emiratina.