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Davide Rossi
April 18, 2025
© Photo: Public domain

Peter Navarro è un ideologo delle politiche protezionistiche di Trump. Dove può portare il conflitto di interessi economici all’interno del governo americano?

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Peter Navarro, nato nel 1949, è un economista statunitense di origini ispano – americane, conseguito il Dottorato di Ricerca in economia presso l’Università di Harvard nel 1986, ha insegnato in diverse istituzioni accademiche, dall’Università della California a quella di San Diego. Oggi è Consigliere senior del Presidente Donald Trump per il commercio e la produzione. Con la proposta dei dazi ha gettato a soqquadro gli interscambi planetari, scatenando i media legati alla finanza speculativa e inginocchiati in un’obbedienza dogmatica verso l’iperliberismo globalista in una gara a chi lo scredita con maggior vigore e sagacia, bollandolo in ogni caso tutti loro coralmente come un incapace.

Tuttavia sono quarant’anni che il professore porta avanti tesi contrarie alla deregolamentazione, alla deindustrializzazione e alla distruzione della manifattura statunitense, attuate in nome di un interscambio internazionale volto a massimizzare i profitti per pochi e a ingigantire mostruosamente la logistica e i profitti da essa derivati, trasportando il vino cileno in Europa e le magliette di cotone dal Bangladesh in tutto il resto del mondo.

Tuttavia la stampa liberal ha scoperto il professore solo da quando è diventato un sostenitore di Donald Trump, prima non parevano le sue tesi particolarmente problematiche o interessanti. Nel 1984 Navarro scrive il libro: “Il gioco della politica: come interessi particolari e ideologici stanno distruggendo gli Stati Uniti”, in cui contesta le politiche di Reagan, volte a impoverire i lavoratori e arricchire esclusivamente le lobby della grande finanza, come infatti da allora è avvenuto lungo la traiettoria tracciata dalla reaganomics e pedissequamente praticata dei Bush e dei Clinton, fino ad Obama e Biden.

Navarro ha sempre ritenuto gli accordi multilaterali di libero scambio non un’occasione di crescita, ma una certezza di impoverimento per la classe lavoratrice statunitense e in ultima istanza della nazione statunitense tutta, sostenendo che una nazione che registri un deficit commerciale, importando più di quanto esporti, danneggia il proprio tessuto produttivo, negando un’autentica crescita economica con ricadute occupazionali e favorendo al massimo solo i profitti della finanza speculativa. Navarro ripete più o meno quanto tutto il movimento No – Global ha affermato dalle conferenze altermondialiste di San Paolo, alle manifestazioni di Seattle 1999 e di Genova 2001, ma soprattutto colpisce un dogma monolitico del pensiero liberal – liberista ed è deciso a ridurre il deficit commerciale a stelle e strisce con gli altri stati del mondo.

Nel 2011 scrive “Morte per mano della Cina” insieme a Greg Autry, testo certo pervaso da una generalizzata sinofobia, da lui espressa anche in libri precedenti, capace anche di rilanciare stereotipi già allora e ancor di più oggi superati come l’inquinamento e i bassi salari, problemi risolti dall’attuale dirigenza comunista cinese, tuttavia, sotto la patina della fervorosa critica, gli autori lasciano trasparire anche una convinzione importante: il successo interno e internazionale oggi arride a quelle nazioni che siano capaci di avere una classe politica non subalterna ai potentati finanziari, bensì in grado di costruire una solida politica economica in cui lo Stato sia attore e non spettatore delle grandi scelte economiche e produttive.

La proposta di Navarro a favore di un rilancio della manifattura, pone al centro della riflessione l’importanza della protezione del mercato interno, la condizione che tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento ha portato gli Stati Uniti a diventare la prima potenza globale, così come un rilancio dell’impegno pubblico nell’ammodernamento infrastrutturale, dalle strade alle ferrovie, dai porti agli aeroporti, oramai negli Stati Uniti assolutamente obsoleti. Nel quadro del contrasto alla pandemia, dopo essere stato imbarcato tra gli esperti al servizio di Donald Trump fin dal 2016, ha invitato il governo degli Stati Uniti a smettere di fare affidamento sul resto del mondo per i medicinali essenziali e tornare a produrli in patria.

È stato Navarro ad esempio nel 2016 – 17 a convincere Donald Trump a uscire dal TPP, il Partenariato Trans-Pacifico, che vede ora farne parte Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Singapore, Perù, Vietnam. Allo stesso modo oppositore del NAFTA, l’ “Accordo Nordamericano per il Libero Scambio” della metà degli anni ‘90, così come del suo sostituto entrato in vigore nel 2020, l’USMCA, l’Accordo Stati Uniti-Messico-Canada, appunto riguardante le tre nazioni principali della parte settentrionale del continente, Navarro propugna piuttosto una variegata serie di dazi da imporre ai due vicini.

Economista poliedrico e certamente non supino alle tesi economiche dominanti, spavaldo nella stagione del liberismo senza limiti, non manca di eccessiva autostima e autocompiacimento, citando nei suoi testi un fantomatico economista Ron Vara, facilmente ed evidentemente deducibile come un modesto anagramma del suo cognome. Essendo largamente citato tal fittizio esperto nel libro contro la Cina del 2011, la portavoce del Ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha avuto buon gioco a dichiarare: “Inventare e diffondere menzogne e persino formulare politiche basate su menzogne, non è solo assurdo, ma anche estremamente pericoloso“, in realtà più per il libro stesso, l’attacco cinese è giustificato dalla valanga di insulti diffamatori che Navarro riversa in ogni intervista e in ogni scritto quando è interpellato in merito alla Cina Popolare, un odio dettato dal suo convincimento che la concorrenza cinese abbia portato alla chiusura di sessantamila fabbriche statunitensi e alla perdita del lavoro per venticinque milioni di donne e uomini. Il suo odio per la Cina non conosce confini, nel 2015 scrive il libro: “La pericolosa Tigre: cosa significa il militarismo cinese per il mondo”, altro insieme pasticciato di accuse che cercano di attribuire alla Cina la responsabilità di aver raggiunto il primato mondiale e certo parte merito va ascritta ai comunisti cinesi, ma come lo stesso Navarro ammette in molti altri suoi scritti, in larga parte per la totale insipienza dei politici statunitensi.

Peter Navarro è il promotore di tutta la politica dei dazi di Donald Trump, fondata sulla convinzione che occorra porre rimedio alla bilancia commerciale statunitense, di fatto sostanzialmente in deficit dalla fine degli anni 1990, soprattutto verso appunto la Repubblica Popolare di Cina e allo stesso modo verso molti altri paesi asiatici, provando a porre rimedio anche all’elevato debito pubblico interno.

Trump già a gennaio ha imposto dazi del 25% su tutte le importazioni di acciaio e alluminio, dopodiché partendo dal disavanzo con le singole nazioni, ha avanzato il 2 aprile 2025 una serie di dazi calibrati in risposta non tanto a quelli praticati dagli altri Stati, bensì dedotti dai singoli disavanzi commerciali, anche in questo caso su indicazione di Navarro, il quale notoriamente sostiene una politica fiscale volta a tassare pesantemente le importazioni e ad aiutare gli imprenditori rimborsando le tasse sulle esportazioni, immaginando un sistema fiscale fondato sostanzialmente più che sulle tasse dirette, su quelle applicate ai consumi.

La politica dei dazi almeno per il momento appare tuttavia più annunciata che praticata, in ogni caso ha terremotato le borse mondiali e inviperito gli oligarchi del big tech, a partire da Elon Musk, che hanno perso miliardi – lui pare trentuno – in questa altalena di proposte, controproposte e decisioni. Musk ha definito Navarro “un idiota”, Navarro ha replicato, con molte ragioni, che Musk non è un costruttore di automobili, ma un semplice assemblatore. La lite tuttavia esacerba e mostra in tutta evidenza la plateale incompatibilità tra i propugnatori di un idea di economia aggressiva, ipermoderna e permanentemente connessa e satellitare, quella dei plutocratici globalisti Musk, Bezos et similia, rispetto a economisti come Navarro, sostenitori, assecondando una parte considerevole del pensiero trumpiano, di un ritorno alla manifattura, alla produzione interna, alla classe operaia a stelle e strisce degli anni ‘50 e ‘60, fieramente anticomunista, ma profondamente radicata nel tessuto sociale nazionale.

È del tutto palese che questo conflitto dovrà avere un esito, ci saranno degli sconfitti e  dei vincitori. Di più, questo scontro determinerà il destino del trumpismo, gli uni potranno restare alla Casa Bianca, gli altri saranno obbligati a fare le valigie, tuttavia a oggi è impossibile immaginare chi sia destinato a soccombere e chi a prevalere.

Infatti, se tale divaricata prospettiva dovesse perdurare nelle stanze di governo, bloccherebbe del tutto l’attività legislativa o peggio, come in questi giorni, getterebbe Washington e il pianeta intero in uno stato confusionale permanente che non porterebbe alla lunga, benefici a nessuno, neppure a Donald Trump.

L’Economist ha definito Navarro “stravagante” e come molta stampa specializzata boccia la sua idea di rilanciare l’economia e la produzione interna attraverso i dazi, difficile dichiarare categoricamente le tesi di Navarro corrette o erronee, farlo comporterebbe una scelta ideologico – economica che esula da una analisi puntuale della concreta realtà attuale, certamente le proposte di Navarro necessiterebbero di tempi lunghi per essere applicate e per misurarne gli eventuali guasti o benefici. Un tempo che il detto conflitto dentro la Casa Bianca, le circostanze internazionali, antichi e navigati profittatori, gli scapitanti alfieri dell’economia digitale e satellitare e lo stesso impaziente presidente statunitense non sembrano voler concedere a Peter Navarro.

Navarro: dazi e rilancio della manifattura interna contro i dogmi del liberismo globalista

Peter Navarro è un ideologo delle politiche protezionistiche di Trump. Dove può portare il conflitto di interessi economici all’interno del governo americano?

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Peter Navarro, nato nel 1949, è un economista statunitense di origini ispano – americane, conseguito il Dottorato di Ricerca in economia presso l’Università di Harvard nel 1986, ha insegnato in diverse istituzioni accademiche, dall’Università della California a quella di San Diego. Oggi è Consigliere senior del Presidente Donald Trump per il commercio e la produzione. Con la proposta dei dazi ha gettato a soqquadro gli interscambi planetari, scatenando i media legati alla finanza speculativa e inginocchiati in un’obbedienza dogmatica verso l’iperliberismo globalista in una gara a chi lo scredita con maggior vigore e sagacia, bollandolo in ogni caso tutti loro coralmente come un incapace.

Tuttavia sono quarant’anni che il professore porta avanti tesi contrarie alla deregolamentazione, alla deindustrializzazione e alla distruzione della manifattura statunitense, attuate in nome di un interscambio internazionale volto a massimizzare i profitti per pochi e a ingigantire mostruosamente la logistica e i profitti da essa derivati, trasportando il vino cileno in Europa e le magliette di cotone dal Bangladesh in tutto il resto del mondo.

Tuttavia la stampa liberal ha scoperto il professore solo da quando è diventato un sostenitore di Donald Trump, prima non parevano le sue tesi particolarmente problematiche o interessanti. Nel 1984 Navarro scrive il libro: “Il gioco della politica: come interessi particolari e ideologici stanno distruggendo gli Stati Uniti”, in cui contesta le politiche di Reagan, volte a impoverire i lavoratori e arricchire esclusivamente le lobby della grande finanza, come infatti da allora è avvenuto lungo la traiettoria tracciata dalla reaganomics e pedissequamente praticata dei Bush e dei Clinton, fino ad Obama e Biden.

Navarro ha sempre ritenuto gli accordi multilaterali di libero scambio non un’occasione di crescita, ma una certezza di impoverimento per la classe lavoratrice statunitense e in ultima istanza della nazione statunitense tutta, sostenendo che una nazione che registri un deficit commerciale, importando più di quanto esporti, danneggia il proprio tessuto produttivo, negando un’autentica crescita economica con ricadute occupazionali e favorendo al massimo solo i profitti della finanza speculativa. Navarro ripete più o meno quanto tutto il movimento No – Global ha affermato dalle conferenze altermondialiste di San Paolo, alle manifestazioni di Seattle 1999 e di Genova 2001, ma soprattutto colpisce un dogma monolitico del pensiero liberal – liberista ed è deciso a ridurre il deficit commerciale a stelle e strisce con gli altri stati del mondo.

Nel 2011 scrive “Morte per mano della Cina” insieme a Greg Autry, testo certo pervaso da una generalizzata sinofobia, da lui espressa anche in libri precedenti, capace anche di rilanciare stereotipi già allora e ancor di più oggi superati come l’inquinamento e i bassi salari, problemi risolti dall’attuale dirigenza comunista cinese, tuttavia, sotto la patina della fervorosa critica, gli autori lasciano trasparire anche una convinzione importante: il successo interno e internazionale oggi arride a quelle nazioni che siano capaci di avere una classe politica non subalterna ai potentati finanziari, bensì in grado di costruire una solida politica economica in cui lo Stato sia attore e non spettatore delle grandi scelte economiche e produttive.

La proposta di Navarro a favore di un rilancio della manifattura, pone al centro della riflessione l’importanza della protezione del mercato interno, la condizione che tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento ha portato gli Stati Uniti a diventare la prima potenza globale, così come un rilancio dell’impegno pubblico nell’ammodernamento infrastrutturale, dalle strade alle ferrovie, dai porti agli aeroporti, oramai negli Stati Uniti assolutamente obsoleti. Nel quadro del contrasto alla pandemia, dopo essere stato imbarcato tra gli esperti al servizio di Donald Trump fin dal 2016, ha invitato il governo degli Stati Uniti a smettere di fare affidamento sul resto del mondo per i medicinali essenziali e tornare a produrli in patria.

È stato Navarro ad esempio nel 2016 – 17 a convincere Donald Trump a uscire dal TPP, il Partenariato Trans-Pacifico, che vede ora farne parte Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Singapore, Perù, Vietnam. Allo stesso modo oppositore del NAFTA, l’ “Accordo Nordamericano per il Libero Scambio” della metà degli anni ‘90, così come del suo sostituto entrato in vigore nel 2020, l’USMCA, l’Accordo Stati Uniti-Messico-Canada, appunto riguardante le tre nazioni principali della parte settentrionale del continente, Navarro propugna piuttosto una variegata serie di dazi da imporre ai due vicini.

Economista poliedrico e certamente non supino alle tesi economiche dominanti, spavaldo nella stagione del liberismo senza limiti, non manca di eccessiva autostima e autocompiacimento, citando nei suoi testi un fantomatico economista Ron Vara, facilmente ed evidentemente deducibile come un modesto anagramma del suo cognome. Essendo largamente citato tal fittizio esperto nel libro contro la Cina del 2011, la portavoce del Ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha avuto buon gioco a dichiarare: “Inventare e diffondere menzogne e persino formulare politiche basate su menzogne, non è solo assurdo, ma anche estremamente pericoloso“, in realtà più per il libro stesso, l’attacco cinese è giustificato dalla valanga di insulti diffamatori che Navarro riversa in ogni intervista e in ogni scritto quando è interpellato in merito alla Cina Popolare, un odio dettato dal suo convincimento che la concorrenza cinese abbia portato alla chiusura di sessantamila fabbriche statunitensi e alla perdita del lavoro per venticinque milioni di donne e uomini. Il suo odio per la Cina non conosce confini, nel 2015 scrive il libro: “La pericolosa Tigre: cosa significa il militarismo cinese per il mondo”, altro insieme pasticciato di accuse che cercano di attribuire alla Cina la responsabilità di aver raggiunto il primato mondiale e certo parte merito va ascritta ai comunisti cinesi, ma come lo stesso Navarro ammette in molti altri suoi scritti, in larga parte per la totale insipienza dei politici statunitensi.

Peter Navarro è il promotore di tutta la politica dei dazi di Donald Trump, fondata sulla convinzione che occorra porre rimedio alla bilancia commerciale statunitense, di fatto sostanzialmente in deficit dalla fine degli anni 1990, soprattutto verso appunto la Repubblica Popolare di Cina e allo stesso modo verso molti altri paesi asiatici, provando a porre rimedio anche all’elevato debito pubblico interno.

Trump già a gennaio ha imposto dazi del 25% su tutte le importazioni di acciaio e alluminio, dopodiché partendo dal disavanzo con le singole nazioni, ha avanzato il 2 aprile 2025 una serie di dazi calibrati in risposta non tanto a quelli praticati dagli altri Stati, bensì dedotti dai singoli disavanzi commerciali, anche in questo caso su indicazione di Navarro, il quale notoriamente sostiene una politica fiscale volta a tassare pesantemente le importazioni e ad aiutare gli imprenditori rimborsando le tasse sulle esportazioni, immaginando un sistema fiscale fondato sostanzialmente più che sulle tasse dirette, su quelle applicate ai consumi.

La politica dei dazi almeno per il momento appare tuttavia più annunciata che praticata, in ogni caso ha terremotato le borse mondiali e inviperito gli oligarchi del big tech, a partire da Elon Musk, che hanno perso miliardi – lui pare trentuno – in questa altalena di proposte, controproposte e decisioni. Musk ha definito Navarro “un idiota”, Navarro ha replicato, con molte ragioni, che Musk non è un costruttore di automobili, ma un semplice assemblatore. La lite tuttavia esacerba e mostra in tutta evidenza la plateale incompatibilità tra i propugnatori di un idea di economia aggressiva, ipermoderna e permanentemente connessa e satellitare, quella dei plutocratici globalisti Musk, Bezos et similia, rispetto a economisti come Navarro, sostenitori, assecondando una parte considerevole del pensiero trumpiano, di un ritorno alla manifattura, alla produzione interna, alla classe operaia a stelle e strisce degli anni ‘50 e ‘60, fieramente anticomunista, ma profondamente radicata nel tessuto sociale nazionale.

È del tutto palese che questo conflitto dovrà avere un esito, ci saranno degli sconfitti e  dei vincitori. Di più, questo scontro determinerà il destino del trumpismo, gli uni potranno restare alla Casa Bianca, gli altri saranno obbligati a fare le valigie, tuttavia a oggi è impossibile immaginare chi sia destinato a soccombere e chi a prevalere.

Infatti, se tale divaricata prospettiva dovesse perdurare nelle stanze di governo, bloccherebbe del tutto l’attività legislativa o peggio, come in questi giorni, getterebbe Washington e il pianeta intero in uno stato confusionale permanente che non porterebbe alla lunga, benefici a nessuno, neppure a Donald Trump.

L’Economist ha definito Navarro “stravagante” e come molta stampa specializzata boccia la sua idea di rilanciare l’economia e la produzione interna attraverso i dazi, difficile dichiarare categoricamente le tesi di Navarro corrette o erronee, farlo comporterebbe una scelta ideologico – economica che esula da una analisi puntuale della concreta realtà attuale, certamente le proposte di Navarro necessiterebbero di tempi lunghi per essere applicate e per misurarne gli eventuali guasti o benefici. Un tempo che il detto conflitto dentro la Casa Bianca, le circostanze internazionali, antichi e navigati profittatori, gli scapitanti alfieri dell’economia digitale e satellitare e lo stesso impaziente presidente statunitense non sembrano voler concedere a Peter Navarro.

Peter Navarro è un ideologo delle politiche protezionistiche di Trump. Dove può portare il conflitto di interessi economici all’interno del governo americano?

Segue nostro Telegram.

Peter Navarro, nato nel 1949, è un economista statunitense di origini ispano – americane, conseguito il Dottorato di Ricerca in economia presso l’Università di Harvard nel 1986, ha insegnato in diverse istituzioni accademiche, dall’Università della California a quella di San Diego. Oggi è Consigliere senior del Presidente Donald Trump per il commercio e la produzione. Con la proposta dei dazi ha gettato a soqquadro gli interscambi planetari, scatenando i media legati alla finanza speculativa e inginocchiati in un’obbedienza dogmatica verso l’iperliberismo globalista in una gara a chi lo scredita con maggior vigore e sagacia, bollandolo in ogni caso tutti loro coralmente come un incapace.

Tuttavia sono quarant’anni che il professore porta avanti tesi contrarie alla deregolamentazione, alla deindustrializzazione e alla distruzione della manifattura statunitense, attuate in nome di un interscambio internazionale volto a massimizzare i profitti per pochi e a ingigantire mostruosamente la logistica e i profitti da essa derivati, trasportando il vino cileno in Europa e le magliette di cotone dal Bangladesh in tutto il resto del mondo.

Tuttavia la stampa liberal ha scoperto il professore solo da quando è diventato un sostenitore di Donald Trump, prima non parevano le sue tesi particolarmente problematiche o interessanti. Nel 1984 Navarro scrive il libro: “Il gioco della politica: come interessi particolari e ideologici stanno distruggendo gli Stati Uniti”, in cui contesta le politiche di Reagan, volte a impoverire i lavoratori e arricchire esclusivamente le lobby della grande finanza, come infatti da allora è avvenuto lungo la traiettoria tracciata dalla reaganomics e pedissequamente praticata dei Bush e dei Clinton, fino ad Obama e Biden.

Navarro ha sempre ritenuto gli accordi multilaterali di libero scambio non un’occasione di crescita, ma una certezza di impoverimento per la classe lavoratrice statunitense e in ultima istanza della nazione statunitense tutta, sostenendo che una nazione che registri un deficit commerciale, importando più di quanto esporti, danneggia il proprio tessuto produttivo, negando un’autentica crescita economica con ricadute occupazionali e favorendo al massimo solo i profitti della finanza speculativa. Navarro ripete più o meno quanto tutto il movimento No – Global ha affermato dalle conferenze altermondialiste di San Paolo, alle manifestazioni di Seattle 1999 e di Genova 2001, ma soprattutto colpisce un dogma monolitico del pensiero liberal – liberista ed è deciso a ridurre il deficit commerciale a stelle e strisce con gli altri stati del mondo.

Nel 2011 scrive “Morte per mano della Cina” insieme a Greg Autry, testo certo pervaso da una generalizzata sinofobia, da lui espressa anche in libri precedenti, capace anche di rilanciare stereotipi già allora e ancor di più oggi superati come l’inquinamento e i bassi salari, problemi risolti dall’attuale dirigenza comunista cinese, tuttavia, sotto la patina della fervorosa critica, gli autori lasciano trasparire anche una convinzione importante: il successo interno e internazionale oggi arride a quelle nazioni che siano capaci di avere una classe politica non subalterna ai potentati finanziari, bensì in grado di costruire una solida politica economica in cui lo Stato sia attore e non spettatore delle grandi scelte economiche e produttive.

La proposta di Navarro a favore di un rilancio della manifattura, pone al centro della riflessione l’importanza della protezione del mercato interno, la condizione che tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento ha portato gli Stati Uniti a diventare la prima potenza globale, così come un rilancio dell’impegno pubblico nell’ammodernamento infrastrutturale, dalle strade alle ferrovie, dai porti agli aeroporti, oramai negli Stati Uniti assolutamente obsoleti. Nel quadro del contrasto alla pandemia, dopo essere stato imbarcato tra gli esperti al servizio di Donald Trump fin dal 2016, ha invitato il governo degli Stati Uniti a smettere di fare affidamento sul resto del mondo per i medicinali essenziali e tornare a produrli in patria.

È stato Navarro ad esempio nel 2016 – 17 a convincere Donald Trump a uscire dal TPP, il Partenariato Trans-Pacifico, che vede ora farne parte Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Singapore, Perù, Vietnam. Allo stesso modo oppositore del NAFTA, l’ “Accordo Nordamericano per il Libero Scambio” della metà degli anni ‘90, così come del suo sostituto entrato in vigore nel 2020, l’USMCA, l’Accordo Stati Uniti-Messico-Canada, appunto riguardante le tre nazioni principali della parte settentrionale del continente, Navarro propugna piuttosto una variegata serie di dazi da imporre ai due vicini.

Economista poliedrico e certamente non supino alle tesi economiche dominanti, spavaldo nella stagione del liberismo senza limiti, non manca di eccessiva autostima e autocompiacimento, citando nei suoi testi un fantomatico economista Ron Vara, facilmente ed evidentemente deducibile come un modesto anagramma del suo cognome. Essendo largamente citato tal fittizio esperto nel libro contro la Cina del 2011, la portavoce del Ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha avuto buon gioco a dichiarare: “Inventare e diffondere menzogne e persino formulare politiche basate su menzogne, non è solo assurdo, ma anche estremamente pericoloso“, in realtà più per il libro stesso, l’attacco cinese è giustificato dalla valanga di insulti diffamatori che Navarro riversa in ogni intervista e in ogni scritto quando è interpellato in merito alla Cina Popolare, un odio dettato dal suo convincimento che la concorrenza cinese abbia portato alla chiusura di sessantamila fabbriche statunitensi e alla perdita del lavoro per venticinque milioni di donne e uomini. Il suo odio per la Cina non conosce confini, nel 2015 scrive il libro: “La pericolosa Tigre: cosa significa il militarismo cinese per il mondo”, altro insieme pasticciato di accuse che cercano di attribuire alla Cina la responsabilità di aver raggiunto il primato mondiale e certo parte merito va ascritta ai comunisti cinesi, ma come lo stesso Navarro ammette in molti altri suoi scritti, in larga parte per la totale insipienza dei politici statunitensi.

Peter Navarro è il promotore di tutta la politica dei dazi di Donald Trump, fondata sulla convinzione che occorra porre rimedio alla bilancia commerciale statunitense, di fatto sostanzialmente in deficit dalla fine degli anni 1990, soprattutto verso appunto la Repubblica Popolare di Cina e allo stesso modo verso molti altri paesi asiatici, provando a porre rimedio anche all’elevato debito pubblico interno.

Trump già a gennaio ha imposto dazi del 25% su tutte le importazioni di acciaio e alluminio, dopodiché partendo dal disavanzo con le singole nazioni, ha avanzato il 2 aprile 2025 una serie di dazi calibrati in risposta non tanto a quelli praticati dagli altri Stati, bensì dedotti dai singoli disavanzi commerciali, anche in questo caso su indicazione di Navarro, il quale notoriamente sostiene una politica fiscale volta a tassare pesantemente le importazioni e ad aiutare gli imprenditori rimborsando le tasse sulle esportazioni, immaginando un sistema fiscale fondato sostanzialmente più che sulle tasse dirette, su quelle applicate ai consumi.

La politica dei dazi almeno per il momento appare tuttavia più annunciata che praticata, in ogni caso ha terremotato le borse mondiali e inviperito gli oligarchi del big tech, a partire da Elon Musk, che hanno perso miliardi – lui pare trentuno – in questa altalena di proposte, controproposte e decisioni. Musk ha definito Navarro “un idiota”, Navarro ha replicato, con molte ragioni, che Musk non è un costruttore di automobili, ma un semplice assemblatore. La lite tuttavia esacerba e mostra in tutta evidenza la plateale incompatibilità tra i propugnatori di un idea di economia aggressiva, ipermoderna e permanentemente connessa e satellitare, quella dei plutocratici globalisti Musk, Bezos et similia, rispetto a economisti come Navarro, sostenitori, assecondando una parte considerevole del pensiero trumpiano, di un ritorno alla manifattura, alla produzione interna, alla classe operaia a stelle e strisce degli anni ‘50 e ‘60, fieramente anticomunista, ma profondamente radicata nel tessuto sociale nazionale.

È del tutto palese che questo conflitto dovrà avere un esito, ci saranno degli sconfitti e  dei vincitori. Di più, questo scontro determinerà il destino del trumpismo, gli uni potranno restare alla Casa Bianca, gli altri saranno obbligati a fare le valigie, tuttavia a oggi è impossibile immaginare chi sia destinato a soccombere e chi a prevalere.

Infatti, se tale divaricata prospettiva dovesse perdurare nelle stanze di governo, bloccherebbe del tutto l’attività legislativa o peggio, come in questi giorni, getterebbe Washington e il pianeta intero in uno stato confusionale permanente che non porterebbe alla lunga, benefici a nessuno, neppure a Donald Trump.

L’Economist ha definito Navarro “stravagante” e come molta stampa specializzata boccia la sua idea di rilanciare l’economia e la produzione interna attraverso i dazi, difficile dichiarare categoricamente le tesi di Navarro corrette o erronee, farlo comporterebbe una scelta ideologico – economica che esula da una analisi puntuale della concreta realtà attuale, certamente le proposte di Navarro necessiterebbero di tempi lunghi per essere applicate e per misurarne gli eventuali guasti o benefici. Un tempo che il detto conflitto dentro la Casa Bianca, le circostanze internazionali, antichi e navigati profittatori, gli scapitanti alfieri dell’economia digitale e satellitare e lo stesso impaziente presidente statunitense non sembrano voler concedere a Peter Navarro.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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March 16, 2025

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