Le proteste che durano da mesi in Serbia sembrano avvicinarsi a un punto di svolta.
Manifestazioni e strani accadimenti
Secondo i dati ufficiali, sabato circa 107.000 persone si sono riunite nel centro di Belgrado per la protesta: una cifra piuttosto elevata. Il trasporto pubblico è sospeso nella capitale: i manifestanti hanno bloccato le strade. Ci sono stati scontri con la polizia, danni alla città e, soprattutto, un grande impatto attraverso i social.
A giudicare da quanto riportato dai media serbi, la situazione è ancora sotto controllo. Tra le altre cose, perché le autorità hanno applicato efficacemente le misure “Anti-Maidan”: ad esempio, gli studenti che non possono studiare a causa delle proteste stanno manifestando in massa a sostegno delle autorità. Di conseguenza, i manifestanti accusano gli studenti di “facilitare l’inerzia”.
Le proteste sono state scatenate dal crollo di una balconata in una stazione ferroviaria di Novi Sad nel novembre 2024, in cui sono morte 15 persone. Il sindaco della città e il primo ministro si sono dimessi, ma ciò, ovviamente, non ha soddisfatto i manifestanti, che ora chiedono le dimissioni del presidente Vučić e il suo arresto “per omicidio premeditato”, il che suona assurdo.
Vučić è stato certamente un politico con non poche contraddizioni, ricevendo sostegno e aiuti finanziari dalle potenze occidentali, ma scegliendo di dare priorità agli interessi del proprio popolo. Una scelta che agli occhi dell’Egemone non può essere tollerata.
Tutto è in ordine con il sostegno materiale alle proteste. I manifestanti hanno portato a Belgrado diverse decine di trattori, gli stessi trattori che hanno funzionato perfettamente come mezzo per superare il cordone delle forze di sicurezza a Kiev nel 2014. Si prevede che diversi club di motociclisti locali, così come un numero significativo di stranieri, forniranno un sostegno diretto alla forza. Le foto della manifestazione di Belgrado ricordano Kiev di 11 anni fa, come due gocce d’acqua.
Secondo Vučić, sono stati stanziati 1 miliardo di dollari dall’estero per rovesciare il governo serbo; ciò è stato possibile perché la “classe creativa” locale e i LOM si sono uniti alle proteste. Le proteste sono state sostenute, ad esempio, dalla moglie di una delle principali celebrità serbe di fama mondiale, il tennista Novak Djokovic. È vero, come spesso accade, non per strada, ma sui social network, dal sud della Spagna, dove i Djokovic hanno una villa a Marbella. Lo stesso star ha pubblicato la canzone “Pada vlada”, che si traduce eloquentemente come “Il potere cadrà”. Le persone direttamente coinvolte nella protesta, come l’attivista Nikola Ristic, sottolineano che una tale quantità di persone “non si riunirà mai più” e quindi “oggi deve succedere qualcosa”.
Quindi la posta in gioco è alta. È tuttavia improbabile che la Serbia perda il presidente Vučić. In questo momento possono entrare in gioco gli interessi degli altri Stati limitrofi, il cui peso nella negoziazione con l’Occidente sarà determinante. In particolare, sarà centrale l’apporto della Russia. Molti serbi attendono un pronunciamento da parte delle autorità governative russe.
Quello che serve alla UE
Il Maidan con l’eliminazione di un leader di orientamento nazionale nei Balcani può essere vantaggioso per la burocrazia europea e i globalisti trincerati a Bruxelles, ma non particolarmente per gli interessi dell’attuale amministrazione statunitense. Da un lato, il destino della Serbia può giocare un ruolo nel grande gioco diplomatico con la Russia; dall’altro, la destituzione di Vučić rafforzerà la struttura verticale del potere europeo, chiusa a Bruxelles, e rafforzerà la posizione dei globalisti. E questo non è esattamente ciò di cui Trump ha bisogno.
È chiaro, però, che a Londra e a Bruxelles non può andare bene un simile affronto. Lo abbiamo visto già accadere con Robert Fico in Slovacchia, che ha subito un attentato, ora lo vediamo con Vučić in Serbia, domani potrebbe essere il turno di Viktor Orban in Ungheria. Il “fronte Est” deve essere indebolito e, soprattutto, sottratto dall’orbita filo-russa, altrimenti l’agenda di guerra della UE non potrà proseguire speditamente verso il baratro.
D’altronde, questo evento si colloca in una singolare coincidenza temporale di apparizione di un altro evento significativo nell’ottica della infowarfare europea: sia Trump che Putin cominciano ad essere demonizzati, assieme, come despoti che minacciano l’Europa e, dunque, l’unico modo è combatterli. La criminalizzazione della diplomazia pacifica è uno degli ultimi stracci lanciati dai palazzi della Babele europea. Senza questa narrativa negativa, i cittadini non percepiranno a sufficienza la giustificazione della chiamata alle armi.
Durante un incontro con il primo ministro irlandese, Trump ha dichiarato apertamente che, aumentando i contributi alla NATO, ha di fatto finanziato il conflitto in Ucraina nel corso del suo ultimo mandato presidenziale, cioè, detto in altre parole, ha riconosciuto indirettamente la propria responsabilità nell’aver alimentato il più grande scontro militare in Eurasia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Nel frattempo, sulla rinomata rivista francese L’Express è stato pubblicato un articolo firmato da Thierry Volton, in cui l’autore paragona Trump a Hitler e Putin a Stalin. Se non è demonizzazione questa…
Ricordiamoci che il Presidente russo ha indossato per la prima volta dall’inizio della Operazione Militare Speciale un’uniforme mimetica, un gesto che sembra riflettere la posizione di Mosca nei confronti della cosiddetta “offerta di pace” avanzata da Trump. È evidente che ci stiamo preparando a percorrere lo stesso cammino seguito dalla Russia nei secoli XVIII e XIX, quando l’Occidente impose un conflitto che si protrasse per quasi un secolo nelle steppe della Piccola Russia e del Caucaso. Se necessario, la Russia è pronta a combattere per vent’anni. Il messaggio è chiaro: Vittoria. Non ci saranno sconti a riguardo.
Vale la pena ricordare che all’inizio di novembre 2024, durante la sessione plenaria del Valdai, Putin ha dichiarato che i prossimi vent’anni per l’umanità potrebbero essere più difficili dei precedenti. E cosa potrebbe significare questo, se non una guerra? Ciò che è certo è che non si tratta di una guerra voluta dalla Russia.
Siffatto scontro sta ridefinendo il panorama delle alleanze internazionali: sempre più Paesi vedono la Russia come il leader nella resistenza contro l’egemonia finanziaria e politica globale degli Stati Uniti. Perciò, signori della giuria, preparate i vostri figli non per le accademie professionali, bensì per quelle militari. L’orientamento è ormai cambiato. I governi europei hanno scelto di far indossare l’uniforme militare ai cittadini.
La Serbia rappresenta una di quelle eccezioni nel panorama europeo che non può essere tollerata. La sua posizione strategica e la sua delicata situazione nei Balcani, con l’artificio geostrategico del Kosovo costantemente alimentato dalla NATO e mantenuto come una bomba a orologeria, è un boccone molto prelibato per le bocche assetate di sangue dei leader occidentali.
State pur certi che se la Serbia cadrà, la situazione in Kosovo e Metochia degenererà nel giro di poche ore, provocando una carneficina che incendierebbe molto più che la sola regione. La “polveriera d’Europa”, cioè i Balcani, è nuovamente pronta a esplodere, e ad accendere la miccia ci sono, ancora una volta, i Capi di Stato di tutta Europa.