L’industria militare russa per 3 anni si oppone a tutto il potenziale industriale della NATO e vince la guerra in Ucraina, mentre i problemi degli Alleati occidentali continuano.
Al dicembre 2024, documenta l’Ukraine support Tracker gestito dal Kiel Institute, Europa e Stati Uniti avevano erogato a favore dell’Ucraina assistenza militare e finanziaria per un ammontare di 246,5 miliardi di dollari. Una cifra impressionante ma comunque parziale, perché non tiene conto del supporto fornito da diversi sponsor di Kiev che non notificano pubblicamente tipologia e quantità del materiale bellico inviato. Il trasferimento di materiale bellico a Kiev si è rivelato talmente ingente da svuotare letteralmente gli arsenali di molti Paesi membri della Nato. Nell aprile 2023, la Danimarca consegnò tutti 19 gli obici semoventi di fabbricazione francese Caesar in proprio possesso. Pochi mesi prima, il Ministero della Difesa tedesco aveva ammesso che, qualora si fosse ritrovata a combattere una guerra ad alta intensità come quella russo-ucraina, la Germania avrebbe esaurito le munizioni nell’arco di appena due giorni. Stesso discorso vale per Francia e Gran Bretagna. Nonché, anche se in misura di gran lunga minore, per gli Stati Uniti, che nell’eventualità di un conflitto diretto con la Russia o la Cina disporrebbero, stando a una valutazione riportata dal «Wall Street Journal» nel luglio 2023, di scorte di proiettili di precisione esauribili nell’arco di pochi giorni, se non di qualche ora.
Lo stesso Pentagono ha avanzato dubbi circa la capacità degli Stati Uniti di continuare a rifornire l’Ucraina senza distogliere armi ed equipaggiamenti da teatri di primario interesse come quello del Mar Cinese meridionale. Alla fine del 2022, rilevava il Royal United Services Institute britannico, il Dipartimento della Difesa statunitense aveva ceduto all’Ucraina «circa un terzo delle riserve di missili anticarro Javelin e di quelli antiaerei Stinger: ripianare tali scorte richiederà rispettivamente cinque e tredici anni». Per quanto concerne le munizioni dei lanciarazzi campali multipli Himars, «a fronte di una produzione di 9.000 razzi all’anno, le forze armate ucraine ne consumano almeno 5.000 al mese».
Nemmeno il rapido e imponente incremento della produzione di proiettili d’artiglieria messo in cantiere dal complesso militar-industriale è risultato sufficiente a compensare l’erosione delle riserve strategiche di armi e munizioni a disposizione degli Usa. Al punto da indurre Washington a rivolgersi alla Corea del Sud, il cui governo «ha accettato di fornire in prestito agli Stati Uniti 500.000 proiettili di artiglieria da 155 millimetri che non saranno però forniti a Kiev ma consentiranno all’Us Army di non depauperare troppo le sue riserve di munizioni ridottesi in seguito alle massicce forniture all’Ucraina».
In seguito allo scontro verificatosi alla Casa Bianca lo scorso febbraio tra il presidente Donald Trump e il suo omologo ucraino Volodymyr Zelen’skyj, tuttavia, Washington ha disposto la sospensione di qualsiasi forma di sostegno a Kiev. Per l’Ucraina, si tratta di una decisione dagli effetti catastrofici, perché apre una voragine assolutamente non colmabile attraverso i programmi di sostegno messi in cantiere dall’Unione Europea a fronte del cambio di registro statunitense. Stesso discorso vale per gli accordi di sicurezza bilaterali firmati da Kiev con i governi francese, britannico, tedesco e italiano. Per il “vecchio continente”, il traguardo originariamente fissato, corrispondente alla fabbricazione di un milione di proiettili all’anno, si è rivelato un miraggio, a causa di insormontabili problemi strutturali quali costi energetici alle stelle, penuria di manodopera qualificata e processo decisionale farraginoso che disincentiva i produttori a sostenere corposi investimenti di medio termine. Uno studio condotto lo scorso da due specialisti tedeschi è giunto alla conclusione che, nello scenario più ottimistico, la produzione combinata di Europa e Stati Uniti potrebbe assicurare a Kiev circa 1,3 milioni di proiettili all’anno. Una fornitura sufficiente a porre l’Ucraina nelle condizioni di sostenere una guerra a intensità moderata (3.600 proiettili al giorno), ma del tutto inadeguata al tipo di conflitto che il Paese è chiamato a sostenere. Nel marzo dello 2023, l’allora ministro della Difesa ucraino Oleksij Reznikov specificò che l’Ucraina necessitava di 12.000 proiettili al giorno per «eseguire con successo i compiti sul campo di battaglia». Su scala annua, si parla di più di 4,2 milioni di proiettili d’artiglieria. Una stima più moderata, formulata dal Ministero della Difesa estone, quantifica il fabbisogno mensile ucraino in 200.000 proiettili (circa 6.600 al giorno). Entrambe le valutazioni risultano enormemente più elevate rispetto agli obiettivi di produzione fissati dalla Nato, che anche nel caso – tutt’altro che scontato – venissero conseguiti renderebbero particolarmente complesso per l’Ucraina accantonare arsenali adeguati a sostenere operazioni offensive ad alta intensità.
Nel novembre 2023, il generale Valerij Zalužnyj, allora capo di Stato Maggiore dell’esercito ucraino, aveva scritto un articolo sull’«Economist» arricchito da un’intervista rilasciata sempre alla nota rivista britannica. La sue esternazioni hanno con ogni probabilità concorso a portare i preesistenti dissidi con Zelens’kyj oltre la soglia critica, poiché dal quadro dipinto dal generale emergeva con chiarezza cristallina che la controffensiva avviata nella tarda primavera di quell’anno dalle forze armate ucraine non aveva raggiunto alcuno degli obiettivi perseguiti dal governo di Kiev e dai suoi sponsor occidentali. Di lì a qualche mese, Zalužnyj fu rimosso dall’incarico e nominato ambasciatore ucraino in Gran Bretagna; una “promozione” utile a tenerlo a distanza da Kiev.
Le valutazioni formulate dall’allora capo di Stato Maggiore ucraino all’«Economist» non si limitavano tuttavia a sottolineare gli aspetti critici e le vulnerabilità del suo Paese, ma ponevano l’accento sul fatto che la situazione per l’Ucraina sarebbe precipitata qualora Kiev non avesse ampliato la mobilitazione, sostituendo le logore forze impegnate in battaglia con nuovi soldati adeguatamente addestrati, e se la Nato non si fosse decisa ad incrementare le consegne di armi, munizioni, carri armati, aerei, droni e altre tecnologie, giudicate necessarie per reggere l’urto russo.
Come ha riconosciuto lo scorso gennaio il segretario generale della Nato Mark Rutte, «la Russia da sola riesca a sfornare in tre mesi il volume di materiale militare che la Nato da Los Angeles ad Ankara riesce a produrre nell’arco di un anno», facendo sostanzialmente eco alle dichiarazioni formulate due anni prima dal suo predecessore Stoltenberg, secondo cui «il nostro attuale ritmo di produzione delle munizioni è di molte volte inferiore al livello di consumo da parte dell’Ucraina», che risultava a sua volta enormemente ridotto rispetto a quello della Russia. Quest’ultima è riuscita a sparare fino a 50.000-60.000 proiettili d’artiglieria al giorno a fronte dei 5.000-6.000 esplosi dall’Ucraina e – secondo fonti di intelligence britanniche riportate dal «Washington Post» – a produrne nell’arco del 2022 qualcosa come 1,7 milioni di unità, contro le 180.000 fabbricate dagli Usa. Altre stime occidentali sostengono che la produzione di proiettili d’artiglieria da parte dell’industria militare russa sia passata dai 2 milioni di unità nel 2022 ai 3,5 milioni nel 2023. Se nel computo si includono le colossali forniture assicurate dalla Corea del Nord (si parla di tre milioni di proiettili, con ulteriori forniture in arrivo), ne consegue che la Russia potrebbe agevolmente arrivare a esplodere 12.000 proiettili d’artiglieria al giorno senza intaccare significativamente le scorte. Anche nel caso in cui l’incremento della produzione messo in cantiere dalla Nato dovesse essere raggiunto, la Russia godrebbe comunque di un vantaggio schiacciante (da 3:1 a 5:1), che va a sommarsi al netto aumento della produzione – riconosciuto dall’Occidente – di sistemi d’arma come missili da crociera, droni Shahed e Lancet, bombe plananti sempre più performanti. Secondo uno studio realizzato dal Royal United Services Institute britannico, il complesso militar-industriale russo è nelle condizioni di rimpinguare adeguatamente le scorte di missili Iskander e Kalibr. Stesso discorso vale per i missili Kinžal (ipersonici), di cui le società russe hanno implementato la produzione in serie accrescendo simultaneamente e in maniera assai significativa l’output di carri armati T-72 e T-90; di mezzi corazzati Tigr, Bmp-3 e Btr-82; di elicotteri Mi-28 e Ka-52 Alligator, di droni Orlan-10 e Orlan-30; di autocarri Kamaz e di munizioni per ogni sistema d’arma.
Segno di una capacità industriale ragguardevolissima, supportata da catene di approvvigionamento di materiali critici e componentistica solide e funzionanti. Caratteristiche, insomma, che, a dispetto dell’esborso ciclopico e sempre crescente sostenuto di anno in anno da Washington, sono invece palesemente mancate agli Stati Uniti. I quali, osserva lo specialista Andrei Martyanov, «mettono a punto tecnologie belliche dai costi elevatissimi che non si traducono necessariamente in un incremento delle capacità militari. In altri termini, il problema non è soltanto quantitativo, ma anche qualitativo e dottrinale».
A dispetto di un ammontare di fondi destinati al Pentagono pari a 850 miliardi di dollari nel solo anno fiscale 2024 (ai quali vanno sommati gli stanziamenti militari assorbiti dagli altri Dipartimenti), gli Usa hanno manifestato lacune macroscopiche puntualmente emerse già a partire dal tardo inverno del 2022.
All’epoca, l’impellenza di sostenere l’Ucraina spinse il Dipartimento della Difesa ad allertare i centri di stoccaggio per materiale bellico che gli Stati Uniti hanno allestito in giro per il mondo. Una rete gigantesca di magazzini terresti o imbarcati, contenenti attrezzature, veicoli, armi e munizioni, costituita per minimizzare il tempo necessario al trasferimento di unità ed equipaggiamenti militari in potenziali teatri di crisi, mentre in patria vengono definite le linee produttive e logistiche a sostegno di un eventuale sforzo bellico. L’idea di base si affermò nel corso della Guerra Fredda, quando occorreva porre le forze armate statunitensi nelle condizioni di reagire con prontezza ad un’aggressione sovietica dalla Repubblica Democratica Tedesca senza attendere l’arrivo di materiali e mezzi dagli Stati Uniti. La conduzione di operazioni scarsamente impegnative quali l’invasione di Grenada o di Panama si è basata esclusivamente sull’impiego di questi magazzini pre-posizionati, rivelatisi particolarmente utili anche durante Desert Shield (1990-1991), Iraqi Freedom e, per l’appunto, l’invasione russa dell’Ucraina. Nel marzo 2022, il Pentagono ingiunse al 401° Battaglione di Supporto sul Campo di stanza presso Camp Arifjan (Kuwait) di trasferire immediatamente i sei obici M-777 custoditi nel magazzino pre-posizionato presente all’interno della base militare. La funzioni legate alla manutenzione e alla gestione del deposito erano state affidate ad Amentum, un colosso specializzato nell’intendenza affermatosi come secondo maggiore erogatore di servizi governativi nel mercato degli appalti pubblici statunitensi. Nata nel 2020 come spin-off della casa madre Aecom, Amentum operava nel 2022 in 85 Paesi e vantava circa 44.000 dipendenti oltre a un fatturato pari a circa 9 miliardi di dollari.
Non potendo assicurare che Amentum avesse regolarmente provveduto alla regolare manutenzione prevista, il 401° Battaglione richiese al Comando Materiali dell’esercito statunitense di effettuare una verifica preliminare alla consegna delle armi all’Ucraina. Una volta giunto a Camp Arifjan dalla base di Anniston in Alabama, il personale del Tank Automotive-Armament Command (Tacom) dell’esercito accertò che, a dispetto delle raccomandazioni fornite da Amentum circa la conformità agli standard degli obici da inviare a Kiev, i pezzi d’artiglieria «avrebbe ucciso qualcuno [il servente]» se fossero stati messi in funzione. Ma non è tutto. Dall’ispezione ad ampio spettro condotta dal Tacom emerse che tutti gli obici contenevano fluido idraulico destinato, nel corso del tempo, a produrre il «malfunzionamento dei sistemi critici», e che quattro cannoni avevano la culatta fuori uso (cosa che può portare ad esplosioni fatali per il personale servente). Il 21 giugno successivo, uno degli obici riparati in fretta e furia dal Tacom (il cui intervento ha richiesto ad Amentum un esborso pari a 114.000 dollari) ha preso fuoco durante la fase di trasporto in Europa per un problema presumibilmente imputabile a disattenzione da parte dell’azienda appaltatrice.
Una volta arrivati in Polonia, tutti gli obici partiti da Camp Arifjan hanno evidenziato usura dei percussori e problemi al meccanismo di sparo, la cui risoluzione è costata ulteriori 17.500 dollari. Una sorte sostanzialmente analoga è toccata a 26 dei 28 M-1167 dichiarati pienamente operativi dal 401° Battaglione e poi risultati non funzionanti – per problemi della più varia natura – durante il controllo effettuato subito prima dell’imbarco. Si è così reso necessario cannibalizzare altri veicoli per renderli utilizzabili, anche a causa di enormi ritardi nell’evasione degli ordini relativi a materiale sostitutivo. La sistemazione dei mezzi corazzati ha richiesto, tra materiale e manodopera, altri 173.500 dollari, oltre che la distrazione di personale militare da altri compiti di rilevanza primaria.
Dal canto suo, il Comando Mantenimento dell’esercito ha minimizzato l’entità dei ritardi, lamentato la riduzione dei fondi pubblici ricevuti e “scagionato” Amentum, spiegando che la società «non è contrattualmente obbligata o appropriatamente dotata di risorse per mantenere l’equipaggiamento» secondo gli standard previsti dal Manuale Tecnico 10/20 utilizzato dall’Ispettore Generale per determinarne lo stato di approntamento.
Per tutta risposta, l’Ispettore Generale ha segnalato nel suo rapporto finale «una serie di problematiche che hanno comportato manutenzioni impreviste, riparazioni e tempi di consegna prolungati per l’invio di aiuti militari alle Forze Armate ucraine». Ha inoltre chiarito che Amentum aveva beneficiato qualcosa come 972 milioni di dollari tra l’agosto 2016 e l’aprile 2023 per preservare il materiale militare secondo i criteri operativi previsti. E che già nel 2018 il 401° Battaglione non era stato in grado di assicurare che l’appaltatore dell’epoca, la Urs Federal Services, poi inglobata da Aecom da cui si è poi distaccata Amentum, avesse adempiuto ai propri obblighi in materia di manutenzione dei veicoli stivati nel deposito kuwaitiano.
Come documenta una dettagliata inchiesta, anche nei magazzini situati in Germania e Polonia, anch’essi gestiti da Amentum, «non sono mancati problemi. Il 405° Battaglione di Supporto sul Campo stavolta, ha avuto difficoltà nel coordinare la manutenzione di equipaggiamenti e la loro distribuzione alle truppe americane dispiegate in Europa a supporto del sistema di deterrenza Nato. Sebbene il tutto sia riuscito, comunque, alquanto puntualmente, alcuni veicoli non erano in condizione tali da consentire un dispiegamento rapido delle unità a cui erano stati destinati».
L’Ispettore Generale ha quindi raccomandato l’adozione di misure più rigorose per quanto concerne la manutenzione e i tempi di aggiustamento richiesti per i materiali militari da inviare all’Ucraina. L’attenzione si è soffermata in particolare sullo sviluppo di «procedure d’ispezione rafforzate non solo per convalidare che il contractor abbia adeguatamente colmato le lacune manutentive, ma che abbia anche effettuato un’approfondita ispezione visiva dei materiali, nonché la correzione di qualunque carenza prima dell’invio dell’equipaggiamento allo European Command degli Stati Uniti per il trasferimento alle Forze Armate Ucraine».
Combinandosi con gli altri aspetti altamente critici, il sistema del subappalto sviluppato dal Pentagono ha limitato in maniera significativa la capacità degli Stati Uniti di sostenere militarmente l’Ucraina. Non ha mancato di sottolinearlo una impietosa analisi comparsa su «Foreign Affairs» il politologo ed esperto di questioni belliche Michal Brenes, secondo cui «la carenza di produzione, le squadre di manodopera inadeguata e le interruzioni nelle catene di approvvigionamento hanno ostacolato la capacità degli Stati Uniti di fornire armi all’Ucraina e migliorare le capacità di difesa del Paese in modo più ampio […]. Oltre settant’anni di consolidamenti aziendali, privatizzazioni, esternalizzazioni, tagli di posti di lavoro, inazione federale e ricerca spasmodica di maggiori profitti hanno dato origine a una “tempesta perfetta” che ostacola l’assistenza all’Ucraina e pregiudica potenzialmente la possibilità della nazione di affrontare conflitti futuri. Gli Stati Uniti non hanno modo di risolvere questi problemi in maniera rapida, né tantomeno di invertire l’andazzo dall’oggi al domani».