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Giacomo Gabellini
January 26, 2025
© Photo: Public domain

La storia dell’egemonia finanziaria degli Stati Uniti e le recenti tendenze al suo indebolimento a causa delle azioni della Cina.

Segue nostro Telegram.

Nella seconda metà degli anni ’60, il sistema monetario internazionale modellato dagli Stati Uniti a Bretton Woods nel 1944 sistema cominciò a mostrare inequivocabili segni di cedimento, imputabili prevalentemente alle implicazioni della Guerra del Vietnam. All’inizio del decennio, il deficit di bilancio si era stabilizzato a una media di 3 miliardi di dollari all’anno, ma a partire dal 1967, in corrispondenza dell’escalation in Indocina, aveva raggiunto la soglia critica dei 9 miliardi, arrivando infine a sfondare il tetto dei 25 miliardi alla fine del 1968.

Ciononostante, il regime di Bretton Woods permetteva agli Stati Uniti di addebitare il conto della politica di deficit spending attuata a livello nazionale ai propri partner commerciali rifilando loro dollari sopravvalutati necessari per l’acquisto delle materie prime fondamentali. In altri termini, la mancata svalutazione del dollaro rispetto all’oro alla luce del progressivo deterioramento economico Usa significava lo scaricamento massiccio (soprattutto) sul Giappone e sui Paesi europei dei costi della Guerra del Vietnam. L’amministrazione Johnson, pienamente consapevole dello stato dell’arte e del fatto che un aumento delle tasse gli avrebbe alienato fatalmente la fiducia dell’opinione pubblica, decise di finanziare i crescenti deficit attraverso l’emissione di una ragguardevole quantità di titoli di debito. I principali acquirenti erano proprio le Banche Centrali europee e giapponese, le quali erano state indotte, grazie alle forti pressioni esercitate da Washington, ad alleggerire la pressione sull’oro statunitense limitandosi ad accumulare dollari anziché impiegare gli avanzi per erodere ulteriormente le riserve auree di Fort Knox.

Fu così che l’amministrazione Johnson si illuse di aver risolto il problema rifilando al Giappone e ai Paesi del “vecchio continente” gli oneri finanziari di quella guerra d’Indocina a cui gli stessi alleati si erano fermamente opposti. Dal canto loro, tuttavia, le banche e i governi europei avevano da tempo cessato di ridepositare presso gli istituti statunitensi le abbondanti riserve di dollari a disposizione accumulate tramite l’export e l’apertura di conti correnti per conto dei Paesi comunisti per riutilizzarli sotto forma di prestiti ai Paesi del Terzo Mondo. L’obiettivo era quello di scaricare su questi ultimi i rischi connessi alla tenuta alla moneta statunitense (inflazione compresa), trasformare il credito in penetrazione economica e accesso alle materie prime locali e istituire un modello di indebitamento capace di garantire un rientro dei capitali a medio-lungo termine correlato da interessi.

Al gioco aveva preso attivamente parte anche l’oligopolio bancario newyorkese, uscito enormemente rafforzato dal processo di concentrazione bancaria che era stato innescato nella seconda metà degli anni ’50 dalla decisione dell’amministrazione Eisenhower di esentare il settore degli intermediari finanziari dall’osservanza delle leggi anti-trust.

Secondo un rapporto redatto nel 1961 dal Dipartimento della Giustizia, le cinque principali banche di New York (due delle quali facevano capo al gruppo Rockefeller) erano arrivate a controllare qualcosa come il 75% dei depositi del principale centro finanziario del mondo grazie al provvedimento assunto dall’amministrazione Eisenhower. La riduzione della concorrenza generata dal processo di concentrazione rafforzava notevolmente il potere dell’oligopolio bancario, il cui margine di manovra all’interno degli Stati Uniti era tuttavia fortemente limitato dal pacchetto di regole particolarmente stringenti per quanto concerne la remunerazione dei depositi – per quelli a vista fu vietata, mentre per quelli a tempo fu pesantemente ridimensionata attraverso la limitazione dei tassi corrispettivi – e la trasparenza.

La soluzione al problema escogitata dal cartello bancario newyorkese, alla costante ricerca di investimenti altamente remunerativi, consistette proprio nell’ottenere da governo e Congresso il placet necessario ad entrare nel business del riciclaggio delle enormi riserve di dollari detenute all’estero in cui erano già pesantemente invischiati gli intermediari finanziari europei. Gli istituti di credito di New York convinsero quindi le autorità di Washington ad apportare una modifica all’Interest Equalization Tax in base alla quale i prestiti erogati ai residenti stranieri dalle filiali estere delle banche statunitensi non sarebbero più stati soggetti alla tassazione statunitense, prima di impiantare proprie filiali presso le più importanti capitali del “vecchio continente”.

La meta preferita fu la City di Londra, disciplinata da un regime normativo adeguato e perfettamente funzionale, in termini di remunerazione, alla gestione di un mercato in grande ascesa come quello degli eurodollari. Per il governo britannico, intenzionato a rilanciare la centralità della piazza finanziaria londinese in ambito finanziario senza rinunciare allo Stato sociale né alla propria autonomia decisionale e domiciliare il mercato degli eurodollari presso la capitale rappresentava una via d’uscita rispetto al famoso “trilemma” messo in evidenza da Robert Mundell, in base al quale era impossibile conciliare cambi fissi, libertà dei movimenti di capitale e autonomia in materia di politica monetaria.

Di fatto, l’egemonia della City su questo lucroso business consentiva alla Gran Bretagna di «soddisfare la domanda di credito internazionale offrendo prestiti in dollari sulla base dei depositi in valuta statunitense dei cittadini stranieri». Il vantaggio che il governo statunitense intravedeva dietro lo sviluppo di uno spazio monetario autonomo e deregolamentato come quello degli eurodollari era sotto molti aspetti analogo: finché sarebbe stato sostento da riserve auree commisurate e da una bilancia dei pagamenti in buono stato, il mercato degli eurodollari avrebbe consolidato la supremazia del “biglietto verde” e agevolato l’espansione del capitale delle imprese multinazionali Usa, rendendola per di più autosufficiente tramite l’assunzione di prestiti in Europa. Detto in altri termini, il sistema dell’eurodollaro permetteva a Washington di allentare le pressioni sulla bilancia dei pagamenti statunitensi e, a ricasco, sul dollaro. Ma soltanto a condizione che i dollari in uscita dagli Stati Uniti non vi facessero mai ritorno; un’eventualità rispetto alla quale non esisteva alcuna forma di garanzia.

Così, grazie al benestare di Washington, il mercato dell’eurovaluta conobbe una fase di rapido sviluppo. In breve tempo, l’esempio britannico fu emulato da altre grandi piazze finanziarie del calibro di Zurigo, Lussemburgo e Tokyo, che pur ritagliandosi un discreto spazio operativo non riuscirono tuttavia a intaccare la supremazia conquistata da Londra sul mercato off-shore di dollari statunitensi, dominato nella fattispecie dalla Bank of England, dalla potente S. G. Warburg & Co. e dalle filiali locali delle grandi banche di New York. Svincolate da obblighi di riserva e da qualsiasi genere di restrizione in materia di remunerazione dei depositi, le “eurobanche” si avvalsero puntualmente della possibilità di offrire sia tassi di interessi sensibilmente superiori a quelli assicurati dal circuito bancario tradizionale, sia quelle garanzie di anonimato richieste da evasori fiscali, cartelli della droga bisognosi di ripulire i proventi del narcotraffico e riciclatori di denaro di vario genere. Non stupisce pertanto che, mentre l’indice Dow Jones accusava una caduta del 36%, il mercato off-shore degli eurodollari continuasse a espandersi di volume fino a raggiungere un valore complessivo stimato in 385 miliardi di dollari. L’economista Marcello De Cecco lo ha identificato come «il più importante fenomeno finanziario degli anni ’60», anche per via del ruolo tutt’altro che secondario che giocò rispetto al deterioramento delle basi finanziarie statunitensi. Già nel 1963, quando l’amministrazione Kennedy si cimentò nel vano tentativo di bloccare l’assalto all’oro statunitense, era palese che il meccanismo dell’eurovaluta era entrato in conflitto sia con la sicurezza nazionale che con la prosperità interna poiché una quota ignota ma indubbiamente rilevante delle passività con l’estero che mantenevano costantemente elevata la pressione sulle riserve auree Usa era costituita proprio dai saldi in dollari depositati presso le “eurobanche” dalle imprese multinazionali statunitensi.

La totale assenza di obblighi in materia di riserve di cui beneficiava il sistema degli eurodollari implicava sul piano teorico il dissolvimento della cruciale linea di demarcazione tra moneta e credito su cui si fonda la capacità delle Banche Centrali di regolare la base valutaria. In termini pratici, lo sviluppo di questo mercato off-shore conferì piena concretezza alla prospettiva di un’espansione potenzialmente illimitata della liquidità internazionale al di fuori dei circuiti della Federal Reserve. Del meccanismo dell’eurodollaro si servivano infatti non solo dalle Banche Centrali straniere dotate di riserve di valuta pregiata, ma anche e soprattutto gli istituti di credito privati a cui era stato sottratto il controllo sull’emissione monetaria da Roosevelt e dal segretario al Tesoro Morgenthau nel corso degli anni ’40. Basti pensare che, già nel 1961, l’oligopolio bancario newyorkese controllava il 50% circa delle attività complessive legate all’eurodollaro. L’accumulo di masse crescenti di denaro in depositi che sfuggivano al controllo di qualsiasi autorità nazionale alimentò le pressioni su Banche Centrali e governi affinché manipolassero tassi di interesse e di cambio in modo tale da attrarre o respingere la liquidità stivata nei mercati off-shore a seconda delle specifiche necessità congiunturali, senza tuttavia mitigare le pressioni al rialzo sui tassi di interesse sollecitate dalla concorrenza degli eurodollari.

D’altra parte, le continue oscillazioni valutarie e i differenziali tra i tassi di interesse aprirono dinnanzi ai capitali depositati presso il mercato dell’eurodollaro ulteriori prospettive di espansione mediante le transazioni e l’arbitraggio sui cambi. Il risultato del reciproco rafforzamento di questi sviluppi portò all’esplosione del business degli eurodollari, che alla fine degli anni ’70 avrebbe raggiunto un volume di transazioni pari a sei volte il valore del commercio mondiale nella sola piazza londinese e assunto su di sé il controllo del processo di determinazione dei rapporti di cambio tra le varie monete e tra queste ultime e l’oro. Come rilevò il capoeconomista della Chase Manhattan Bank Eugene A. Birnbaum: «il mercato dei finanziamenti internazionali in dollari si è spostato da New York all’Europa. I prestiti esteri in dollari, soggetti in precedenza ai criteri di controllo degli organismi governativi americani, sono stati trasferiti, e così sottratti all’ambito giurisdizionale di questi ultimi. Il risultato è stato l’accumulo di un immenso volume di fondi e di attività – il mondo dell’eurodollaro – al di fuori dell’autorità normativa di qualunque Paese e di qualunque organismo». Parallelamente, l’economista Henry Hazlitt vaticinava sulle pagine di «Newsweek» che «gli Stati Uniti si vedranno costretti a bloccare il processo di dismissione del proprio oro a 35 dollari l’oncia […]. Ne scaturirà una profonda crisi del mercato dei cambi con conseguenze disastrose per gli Usa e per il mondo intero». La previsione si rivelò del tutto azzeccata, visto che di lì a brevissimo l’amministrazione Nixon ripudiò unilateralmente gli Accordi di Bretton Woods, inaugurando l’epoca dei tassi di cambio fluttuanti e del “super-imperialismo” statunitense, per usare il titolo di un impareggiabile lavoro condotto sul punto dall’economista Michael Hudson.

Disancorato dall’oro, il dollaro trovò come ufficioso ma validissimo sottostante la forza militare degli Stati Uniti, reinsediandosi al centro del commercio mondiale e del sistema monetario internazionale nato dalle ceneri del Gold-Exchange Standard. La riconfigurazione dei mercati finanziari che ne scaturì pose gli Stati Uniti nelle condizioni di finanziare i propri deficit crescenti attraverso l’importazione di capitali esteri, gestita nelle fasi essenziali dal circuito bancario statunitense sui cui conti gli istituti stranieri sono obbligati a riversare fondi per poter beneficiare di corrispondenti riserve in dollari. Questo meccanismo per un verso svolge un ruolo nevralgico per promuovere la diffusione internazionale del dollaro, perché assicura a qualsiasi banca straniera la possibilità di raccordarsi al sistema finanziario Usa senza impiantare necessariamente filiali sul suolo statunitense. Per l’altro, garantisce a Washington un formidabile strumento di condizionamento verso il resto del mondo, perché sottopone tutti i sistemi bancari stranieri alla giurisdizione statunitense esponendoli al rischio di incorrere in sanzioni o restrizioni di altra natura.

Di qui la nascita del Brics, costituito da Paesi accomunati dalla necessità di sottrarsi agli effetti devastanti della “militarizzazione del dollaro” ad opera degli Stati Uniti. La Cina, sotto questo profilo, manifesta una spiccata inclinazione a perseguire l’obiettivo siglando accordi di swap valutario con i propri partner (Russia, Brasile, Argentina, ecc.) e promuovendo lo yuan-renminbi, tanto come riserva di valore quanto come unità valutaria per regolare l’interscambio commerciale con l’estero. Nonché attraverso l’implementazione di un sistema di centralizzazione dei flussi di dollari al di fuori degli Stati Uniti che replica sotto diversi aspetti il vecchio meccanismo degli eurodollari. L’elevata performatività dell’economia nazionale e l’incommensurabile capacità industriale, sorrette da un quadro giuridico interno che riscontra crescente credibilità internazionale e combinate al ruolo strategico giocato da Hong Kong, dotata di una valuta legata al dollaro statunitense da rapporti di cambio fissi e tuttora incline – a differenza di Pechino – a investire in titoli di Stato statunitensi, rendono in altri termini la Cina un formidabile polo d’attrazione per soggetti stranieri dotati di cospicue disponibilità di capitali in dollari, che vengono poi o reimpiegate per pagare materie prime e ed energia o trasformate in prestiti all’estero dal sistema bancario cinese. L’attivismo della Cina fa sì che una quota significativa dei petrodollari riconducibili ai Paesi del Golfo Persico non vada più a finanziare i colossali deficit statunitensi, ma ad acquistare beni, servizi e/o partecipazioni azionarie in Cina. A sua volta, quest’ultima ricicla quanto incassato per importare petrolio – relegando così il dollaro a “semplice” unità di conto – e, soprattutto, sotto forma di credito verso i Paesi del cosiddetto “Sud del mondo”, molti dei quali strangolati dalla “trappola del debito”. I petrodollari non reinvestiti direttamente nell’economia Usa ma convertiti in prestiti all’estero per effetto dell’intermediazione cinese rientrano così negli Stati Uniti senza sostenere il “signoraggio” del dollaro, ma alimentando invece l’inflazione interna. Per rafforzare il processo e incamerare valuta statunitense da prestare all’estero, la Cina si è spinta lo scorso novembre a emettere obbligazioni a tre e cinque anni in Arabia Saudita denominate in dollari per un controvalore di 2 miliardi, collocandole ad un tasso di interesse addirittura inferiore a quello assicurato dai titoli di Stato facenti capo al Dipartimento del Tesoro. La domanda, a quanto pare, superava i 40 miliardi di dollari.

Qualora il fenomeno dovesse rivelarsi non episodico, la Cina ottempererebbe automaticamente a tutti i requisiti per fungere da fonte di finanziamento internazionale alternativa e concorrente rispetto a quella statunitense, alimentando così le pressioni al rialzo sui tassi di interesse indipendentemente dall’atteggiamento dei regolatori Usa. La Cina sta in altri termini sottraendo alla Federal Reserve la titolarità esclusiva delle funzioni connesse alla gestione del dollaro privandola anzitutto della prerogativa di determinare i tassi di interesse, come plasticamente dimostrato dall’incremento della redditività dei titoli a dieci anni rispetto a settembre, a dispetto del taglio di circa cento punti base del tasso a due anni varato simultaneamente dalla Fed.

Per gli Stati Uniti, si tratta di una minaccia insidiosissima, perché destinata ad accrescere progressivamente gli oneri legati al servizio del debito, che al termine dell’anno fiscale in corso dovrebbero raggiungere i 1.200 miliardi di dollari. Una cifra colossale, cresciuta di 2,6 volte rispetto al 2021, pari al 13,5% del bilancio federale e inferiore soltanto all’esborso cumulativo di Medicare e Medicaid (1.700 miliardi ) e dei programmi previsti dalla Social Security (1.500 miliardi), ma nettamente superiore all’intero budget del Pentagono (817 miliardi di dollari). Alla fine del 2024, il debito federale degli Stati Uniti ammontava ad oltre 36.000 miliardi di dollari, ed è destinato ad aumentare a un ritmo molto più sostenuto rispetto a quello dell’economia. Il problema di insostenibilità che ne deriva può sfociare in una crisi di credibilità destinata a ridimensionare drasticamente l’afflusso di capitali stranieri. Le conseguenze sono facilmente immaginabili, se si considera che soltanto nel 2025 il Dipartimento del Tesoro è chiamato a rifinanziare 7.000 miliardi di dollari di debito composto per lo più da cambiali e titoli a scadenza inferiore ai cinque anni con un rendimento medio di circa il 2%. Qualora la curva dei rendimenti attuale rimanesse invariata nel corso dell’intero anno, la spesa per interessi aumenterebbe di quasi 160 miliardi di dollari.

La Cina, perfettamente consapevole dello “stato dell’arte”, si è mossa con il consueto tempismo, portando avanti il processo di liquidazione graduale delle detenzioni di titoli di Stato statunitensi e continuando a espandere le proprie riserve auree, dopo aver istituito un sistema di quotazione dell’oro presso Shanghai – lo Shanghai Gold Exchange.

Così, Pechino per un verso accumula oro, scarica Treasury statunitensi sostiene il processo di “internazionalizzazione dello yuan-renminbi”; per l’altro, si avvale della piazza di Hong Kong per centralizzare capitali denominati in valuta statunitense e alimentare un flusso internazionale di dollari svincolato dal controllo della Federal Reserve, offrendo un importantissimo canale di finanziamento sia ai Paesi indebitati, sia a quanti necessitano di aggirare il regime sanzionatorio statunitense.

Quella escogitata dall’ex Celeste Impero rappresenta una soluzione ingegnosa e “felpata”, che combinando pragmatismo a flessibilità si candida a ridisegnare gli assetti geofinanziari accrescendo l’influenza cinese su scala globale a detrimento degli Stati Uniti. Il pensiero strategico cinese distillato in “testi sacri” come L’arte della guerra («usa metodi ortodossi per affrontare il nemico e metodi straordinari per ottenere la vittoria»), i 36 stratagemmi («uccidi con un pugnale preso in prestito») e il Ssu-ma fa («accrescete gli eccessi del nemico, impadronitevi di ciò da cui dipende la sua forza») trova qui plastica ed esemplare applicazione.

La Cina usa il dollaro contro gli Stati Uniti

La storia dell’egemonia finanziaria degli Stati Uniti e le recenti tendenze al suo indebolimento a causa delle azioni della Cina.

Segue nostro Telegram.

Nella seconda metà degli anni ’60, il sistema monetario internazionale modellato dagli Stati Uniti a Bretton Woods nel 1944 sistema cominciò a mostrare inequivocabili segni di cedimento, imputabili prevalentemente alle implicazioni della Guerra del Vietnam. All’inizio del decennio, il deficit di bilancio si era stabilizzato a una media di 3 miliardi di dollari all’anno, ma a partire dal 1967, in corrispondenza dell’escalation in Indocina, aveva raggiunto la soglia critica dei 9 miliardi, arrivando infine a sfondare il tetto dei 25 miliardi alla fine del 1968.

Ciononostante, il regime di Bretton Woods permetteva agli Stati Uniti di addebitare il conto della politica di deficit spending attuata a livello nazionale ai propri partner commerciali rifilando loro dollari sopravvalutati necessari per l’acquisto delle materie prime fondamentali. In altri termini, la mancata svalutazione del dollaro rispetto all’oro alla luce del progressivo deterioramento economico Usa significava lo scaricamento massiccio (soprattutto) sul Giappone e sui Paesi europei dei costi della Guerra del Vietnam. L’amministrazione Johnson, pienamente consapevole dello stato dell’arte e del fatto che un aumento delle tasse gli avrebbe alienato fatalmente la fiducia dell’opinione pubblica, decise di finanziare i crescenti deficit attraverso l’emissione di una ragguardevole quantità di titoli di debito. I principali acquirenti erano proprio le Banche Centrali europee e giapponese, le quali erano state indotte, grazie alle forti pressioni esercitate da Washington, ad alleggerire la pressione sull’oro statunitense limitandosi ad accumulare dollari anziché impiegare gli avanzi per erodere ulteriormente le riserve auree di Fort Knox.

Fu così che l’amministrazione Johnson si illuse di aver risolto il problema rifilando al Giappone e ai Paesi del “vecchio continente” gli oneri finanziari di quella guerra d’Indocina a cui gli stessi alleati si erano fermamente opposti. Dal canto loro, tuttavia, le banche e i governi europei avevano da tempo cessato di ridepositare presso gli istituti statunitensi le abbondanti riserve di dollari a disposizione accumulate tramite l’export e l’apertura di conti correnti per conto dei Paesi comunisti per riutilizzarli sotto forma di prestiti ai Paesi del Terzo Mondo. L’obiettivo era quello di scaricare su questi ultimi i rischi connessi alla tenuta alla moneta statunitense (inflazione compresa), trasformare il credito in penetrazione economica e accesso alle materie prime locali e istituire un modello di indebitamento capace di garantire un rientro dei capitali a medio-lungo termine correlato da interessi.

Al gioco aveva preso attivamente parte anche l’oligopolio bancario newyorkese, uscito enormemente rafforzato dal processo di concentrazione bancaria che era stato innescato nella seconda metà degli anni ’50 dalla decisione dell’amministrazione Eisenhower di esentare il settore degli intermediari finanziari dall’osservanza delle leggi anti-trust.

Secondo un rapporto redatto nel 1961 dal Dipartimento della Giustizia, le cinque principali banche di New York (due delle quali facevano capo al gruppo Rockefeller) erano arrivate a controllare qualcosa come il 75% dei depositi del principale centro finanziario del mondo grazie al provvedimento assunto dall’amministrazione Eisenhower. La riduzione della concorrenza generata dal processo di concentrazione rafforzava notevolmente il potere dell’oligopolio bancario, il cui margine di manovra all’interno degli Stati Uniti era tuttavia fortemente limitato dal pacchetto di regole particolarmente stringenti per quanto concerne la remunerazione dei depositi – per quelli a vista fu vietata, mentre per quelli a tempo fu pesantemente ridimensionata attraverso la limitazione dei tassi corrispettivi – e la trasparenza.

La soluzione al problema escogitata dal cartello bancario newyorkese, alla costante ricerca di investimenti altamente remunerativi, consistette proprio nell’ottenere da governo e Congresso il placet necessario ad entrare nel business del riciclaggio delle enormi riserve di dollari detenute all’estero in cui erano già pesantemente invischiati gli intermediari finanziari europei. Gli istituti di credito di New York convinsero quindi le autorità di Washington ad apportare una modifica all’Interest Equalization Tax in base alla quale i prestiti erogati ai residenti stranieri dalle filiali estere delle banche statunitensi non sarebbero più stati soggetti alla tassazione statunitense, prima di impiantare proprie filiali presso le più importanti capitali del “vecchio continente”.

La meta preferita fu la City di Londra, disciplinata da un regime normativo adeguato e perfettamente funzionale, in termini di remunerazione, alla gestione di un mercato in grande ascesa come quello degli eurodollari. Per il governo britannico, intenzionato a rilanciare la centralità della piazza finanziaria londinese in ambito finanziario senza rinunciare allo Stato sociale né alla propria autonomia decisionale e domiciliare il mercato degli eurodollari presso la capitale rappresentava una via d’uscita rispetto al famoso “trilemma” messo in evidenza da Robert Mundell, in base al quale era impossibile conciliare cambi fissi, libertà dei movimenti di capitale e autonomia in materia di politica monetaria.

Di fatto, l’egemonia della City su questo lucroso business consentiva alla Gran Bretagna di «soddisfare la domanda di credito internazionale offrendo prestiti in dollari sulla base dei depositi in valuta statunitense dei cittadini stranieri». Il vantaggio che il governo statunitense intravedeva dietro lo sviluppo di uno spazio monetario autonomo e deregolamentato come quello degli eurodollari era sotto molti aspetti analogo: finché sarebbe stato sostento da riserve auree commisurate e da una bilancia dei pagamenti in buono stato, il mercato degli eurodollari avrebbe consolidato la supremazia del “biglietto verde” e agevolato l’espansione del capitale delle imprese multinazionali Usa, rendendola per di più autosufficiente tramite l’assunzione di prestiti in Europa. Detto in altri termini, il sistema dell’eurodollaro permetteva a Washington di allentare le pressioni sulla bilancia dei pagamenti statunitensi e, a ricasco, sul dollaro. Ma soltanto a condizione che i dollari in uscita dagli Stati Uniti non vi facessero mai ritorno; un’eventualità rispetto alla quale non esisteva alcuna forma di garanzia.

Così, grazie al benestare di Washington, il mercato dell’eurovaluta conobbe una fase di rapido sviluppo. In breve tempo, l’esempio britannico fu emulato da altre grandi piazze finanziarie del calibro di Zurigo, Lussemburgo e Tokyo, che pur ritagliandosi un discreto spazio operativo non riuscirono tuttavia a intaccare la supremazia conquistata da Londra sul mercato off-shore di dollari statunitensi, dominato nella fattispecie dalla Bank of England, dalla potente S. G. Warburg & Co. e dalle filiali locali delle grandi banche di New York. Svincolate da obblighi di riserva e da qualsiasi genere di restrizione in materia di remunerazione dei depositi, le “eurobanche” si avvalsero puntualmente della possibilità di offrire sia tassi di interessi sensibilmente superiori a quelli assicurati dal circuito bancario tradizionale, sia quelle garanzie di anonimato richieste da evasori fiscali, cartelli della droga bisognosi di ripulire i proventi del narcotraffico e riciclatori di denaro di vario genere. Non stupisce pertanto che, mentre l’indice Dow Jones accusava una caduta del 36%, il mercato off-shore degli eurodollari continuasse a espandersi di volume fino a raggiungere un valore complessivo stimato in 385 miliardi di dollari. L’economista Marcello De Cecco lo ha identificato come «il più importante fenomeno finanziario degli anni ’60», anche per via del ruolo tutt’altro che secondario che giocò rispetto al deterioramento delle basi finanziarie statunitensi. Già nel 1963, quando l’amministrazione Kennedy si cimentò nel vano tentativo di bloccare l’assalto all’oro statunitense, era palese che il meccanismo dell’eurovaluta era entrato in conflitto sia con la sicurezza nazionale che con la prosperità interna poiché una quota ignota ma indubbiamente rilevante delle passività con l’estero che mantenevano costantemente elevata la pressione sulle riserve auree Usa era costituita proprio dai saldi in dollari depositati presso le “eurobanche” dalle imprese multinazionali statunitensi.

La totale assenza di obblighi in materia di riserve di cui beneficiava il sistema degli eurodollari implicava sul piano teorico il dissolvimento della cruciale linea di demarcazione tra moneta e credito su cui si fonda la capacità delle Banche Centrali di regolare la base valutaria. In termini pratici, lo sviluppo di questo mercato off-shore conferì piena concretezza alla prospettiva di un’espansione potenzialmente illimitata della liquidità internazionale al di fuori dei circuiti della Federal Reserve. Del meccanismo dell’eurodollaro si servivano infatti non solo dalle Banche Centrali straniere dotate di riserve di valuta pregiata, ma anche e soprattutto gli istituti di credito privati a cui era stato sottratto il controllo sull’emissione monetaria da Roosevelt e dal segretario al Tesoro Morgenthau nel corso degli anni ’40. Basti pensare che, già nel 1961, l’oligopolio bancario newyorkese controllava il 50% circa delle attività complessive legate all’eurodollaro. L’accumulo di masse crescenti di denaro in depositi che sfuggivano al controllo di qualsiasi autorità nazionale alimentò le pressioni su Banche Centrali e governi affinché manipolassero tassi di interesse e di cambio in modo tale da attrarre o respingere la liquidità stivata nei mercati off-shore a seconda delle specifiche necessità congiunturali, senza tuttavia mitigare le pressioni al rialzo sui tassi di interesse sollecitate dalla concorrenza degli eurodollari.

D’altra parte, le continue oscillazioni valutarie e i differenziali tra i tassi di interesse aprirono dinnanzi ai capitali depositati presso il mercato dell’eurodollaro ulteriori prospettive di espansione mediante le transazioni e l’arbitraggio sui cambi. Il risultato del reciproco rafforzamento di questi sviluppi portò all’esplosione del business degli eurodollari, che alla fine degli anni ’70 avrebbe raggiunto un volume di transazioni pari a sei volte il valore del commercio mondiale nella sola piazza londinese e assunto su di sé il controllo del processo di determinazione dei rapporti di cambio tra le varie monete e tra queste ultime e l’oro. Come rilevò il capoeconomista della Chase Manhattan Bank Eugene A. Birnbaum: «il mercato dei finanziamenti internazionali in dollari si è spostato da New York all’Europa. I prestiti esteri in dollari, soggetti in precedenza ai criteri di controllo degli organismi governativi americani, sono stati trasferiti, e così sottratti all’ambito giurisdizionale di questi ultimi. Il risultato è stato l’accumulo di un immenso volume di fondi e di attività – il mondo dell’eurodollaro – al di fuori dell’autorità normativa di qualunque Paese e di qualunque organismo». Parallelamente, l’economista Henry Hazlitt vaticinava sulle pagine di «Newsweek» che «gli Stati Uniti si vedranno costretti a bloccare il processo di dismissione del proprio oro a 35 dollari l’oncia […]. Ne scaturirà una profonda crisi del mercato dei cambi con conseguenze disastrose per gli Usa e per il mondo intero». La previsione si rivelò del tutto azzeccata, visto che di lì a brevissimo l’amministrazione Nixon ripudiò unilateralmente gli Accordi di Bretton Woods, inaugurando l’epoca dei tassi di cambio fluttuanti e del “super-imperialismo” statunitense, per usare il titolo di un impareggiabile lavoro condotto sul punto dall’economista Michael Hudson.

Disancorato dall’oro, il dollaro trovò come ufficioso ma validissimo sottostante la forza militare degli Stati Uniti, reinsediandosi al centro del commercio mondiale e del sistema monetario internazionale nato dalle ceneri del Gold-Exchange Standard. La riconfigurazione dei mercati finanziari che ne scaturì pose gli Stati Uniti nelle condizioni di finanziare i propri deficit crescenti attraverso l’importazione di capitali esteri, gestita nelle fasi essenziali dal circuito bancario statunitense sui cui conti gli istituti stranieri sono obbligati a riversare fondi per poter beneficiare di corrispondenti riserve in dollari. Questo meccanismo per un verso svolge un ruolo nevralgico per promuovere la diffusione internazionale del dollaro, perché assicura a qualsiasi banca straniera la possibilità di raccordarsi al sistema finanziario Usa senza impiantare necessariamente filiali sul suolo statunitense. Per l’altro, garantisce a Washington un formidabile strumento di condizionamento verso il resto del mondo, perché sottopone tutti i sistemi bancari stranieri alla giurisdizione statunitense esponendoli al rischio di incorrere in sanzioni o restrizioni di altra natura.

Di qui la nascita del Brics, costituito da Paesi accomunati dalla necessità di sottrarsi agli effetti devastanti della “militarizzazione del dollaro” ad opera degli Stati Uniti. La Cina, sotto questo profilo, manifesta una spiccata inclinazione a perseguire l’obiettivo siglando accordi di swap valutario con i propri partner (Russia, Brasile, Argentina, ecc.) e promuovendo lo yuan-renminbi, tanto come riserva di valore quanto come unità valutaria per regolare l’interscambio commerciale con l’estero. Nonché attraverso l’implementazione di un sistema di centralizzazione dei flussi di dollari al di fuori degli Stati Uniti che replica sotto diversi aspetti il vecchio meccanismo degli eurodollari. L’elevata performatività dell’economia nazionale e l’incommensurabile capacità industriale, sorrette da un quadro giuridico interno che riscontra crescente credibilità internazionale e combinate al ruolo strategico giocato da Hong Kong, dotata di una valuta legata al dollaro statunitense da rapporti di cambio fissi e tuttora incline – a differenza di Pechino – a investire in titoli di Stato statunitensi, rendono in altri termini la Cina un formidabile polo d’attrazione per soggetti stranieri dotati di cospicue disponibilità di capitali in dollari, che vengono poi o reimpiegate per pagare materie prime e ed energia o trasformate in prestiti all’estero dal sistema bancario cinese. L’attivismo della Cina fa sì che una quota significativa dei petrodollari riconducibili ai Paesi del Golfo Persico non vada più a finanziare i colossali deficit statunitensi, ma ad acquistare beni, servizi e/o partecipazioni azionarie in Cina. A sua volta, quest’ultima ricicla quanto incassato per importare petrolio – relegando così il dollaro a “semplice” unità di conto – e, soprattutto, sotto forma di credito verso i Paesi del cosiddetto “Sud del mondo”, molti dei quali strangolati dalla “trappola del debito”. I petrodollari non reinvestiti direttamente nell’economia Usa ma convertiti in prestiti all’estero per effetto dell’intermediazione cinese rientrano così negli Stati Uniti senza sostenere il “signoraggio” del dollaro, ma alimentando invece l’inflazione interna. Per rafforzare il processo e incamerare valuta statunitense da prestare all’estero, la Cina si è spinta lo scorso novembre a emettere obbligazioni a tre e cinque anni in Arabia Saudita denominate in dollari per un controvalore di 2 miliardi, collocandole ad un tasso di interesse addirittura inferiore a quello assicurato dai titoli di Stato facenti capo al Dipartimento del Tesoro. La domanda, a quanto pare, superava i 40 miliardi di dollari.

Qualora il fenomeno dovesse rivelarsi non episodico, la Cina ottempererebbe automaticamente a tutti i requisiti per fungere da fonte di finanziamento internazionale alternativa e concorrente rispetto a quella statunitense, alimentando così le pressioni al rialzo sui tassi di interesse indipendentemente dall’atteggiamento dei regolatori Usa. La Cina sta in altri termini sottraendo alla Federal Reserve la titolarità esclusiva delle funzioni connesse alla gestione del dollaro privandola anzitutto della prerogativa di determinare i tassi di interesse, come plasticamente dimostrato dall’incremento della redditività dei titoli a dieci anni rispetto a settembre, a dispetto del taglio di circa cento punti base del tasso a due anni varato simultaneamente dalla Fed.

Per gli Stati Uniti, si tratta di una minaccia insidiosissima, perché destinata ad accrescere progressivamente gli oneri legati al servizio del debito, che al termine dell’anno fiscale in corso dovrebbero raggiungere i 1.200 miliardi di dollari. Una cifra colossale, cresciuta di 2,6 volte rispetto al 2021, pari al 13,5% del bilancio federale e inferiore soltanto all’esborso cumulativo di Medicare e Medicaid (1.700 miliardi ) e dei programmi previsti dalla Social Security (1.500 miliardi), ma nettamente superiore all’intero budget del Pentagono (817 miliardi di dollari). Alla fine del 2024, il debito federale degli Stati Uniti ammontava ad oltre 36.000 miliardi di dollari, ed è destinato ad aumentare a un ritmo molto più sostenuto rispetto a quello dell’economia. Il problema di insostenibilità che ne deriva può sfociare in una crisi di credibilità destinata a ridimensionare drasticamente l’afflusso di capitali stranieri. Le conseguenze sono facilmente immaginabili, se si considera che soltanto nel 2025 il Dipartimento del Tesoro è chiamato a rifinanziare 7.000 miliardi di dollari di debito composto per lo più da cambiali e titoli a scadenza inferiore ai cinque anni con un rendimento medio di circa il 2%. Qualora la curva dei rendimenti attuale rimanesse invariata nel corso dell’intero anno, la spesa per interessi aumenterebbe di quasi 160 miliardi di dollari.

La Cina, perfettamente consapevole dello “stato dell’arte”, si è mossa con il consueto tempismo, portando avanti il processo di liquidazione graduale delle detenzioni di titoli di Stato statunitensi e continuando a espandere le proprie riserve auree, dopo aver istituito un sistema di quotazione dell’oro presso Shanghai – lo Shanghai Gold Exchange.

Così, Pechino per un verso accumula oro, scarica Treasury statunitensi sostiene il processo di “internazionalizzazione dello yuan-renminbi”; per l’altro, si avvale della piazza di Hong Kong per centralizzare capitali denominati in valuta statunitense e alimentare un flusso internazionale di dollari svincolato dal controllo della Federal Reserve, offrendo un importantissimo canale di finanziamento sia ai Paesi indebitati, sia a quanti necessitano di aggirare il regime sanzionatorio statunitense.

Quella escogitata dall’ex Celeste Impero rappresenta una soluzione ingegnosa e “felpata”, che combinando pragmatismo a flessibilità si candida a ridisegnare gli assetti geofinanziari accrescendo l’influenza cinese su scala globale a detrimento degli Stati Uniti. Il pensiero strategico cinese distillato in “testi sacri” come L’arte della guerra («usa metodi ortodossi per affrontare il nemico e metodi straordinari per ottenere la vittoria»), i 36 stratagemmi («uccidi con un pugnale preso in prestito») e il Ssu-ma fa («accrescete gli eccessi del nemico, impadronitevi di ciò da cui dipende la sua forza») trova qui plastica ed esemplare applicazione.

La storia dell’egemonia finanziaria degli Stati Uniti e le recenti tendenze al suo indebolimento a causa delle azioni della Cina.

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Nella seconda metà degli anni ’60, il sistema monetario internazionale modellato dagli Stati Uniti a Bretton Woods nel 1944 sistema cominciò a mostrare inequivocabili segni di cedimento, imputabili prevalentemente alle implicazioni della Guerra del Vietnam. All’inizio del decennio, il deficit di bilancio si era stabilizzato a una media di 3 miliardi di dollari all’anno, ma a partire dal 1967, in corrispondenza dell’escalation in Indocina, aveva raggiunto la soglia critica dei 9 miliardi, arrivando infine a sfondare il tetto dei 25 miliardi alla fine del 1968.

Ciononostante, il regime di Bretton Woods permetteva agli Stati Uniti di addebitare il conto della politica di deficit spending attuata a livello nazionale ai propri partner commerciali rifilando loro dollari sopravvalutati necessari per l’acquisto delle materie prime fondamentali. In altri termini, la mancata svalutazione del dollaro rispetto all’oro alla luce del progressivo deterioramento economico Usa significava lo scaricamento massiccio (soprattutto) sul Giappone e sui Paesi europei dei costi della Guerra del Vietnam. L’amministrazione Johnson, pienamente consapevole dello stato dell’arte e del fatto che un aumento delle tasse gli avrebbe alienato fatalmente la fiducia dell’opinione pubblica, decise di finanziare i crescenti deficit attraverso l’emissione di una ragguardevole quantità di titoli di debito. I principali acquirenti erano proprio le Banche Centrali europee e giapponese, le quali erano state indotte, grazie alle forti pressioni esercitate da Washington, ad alleggerire la pressione sull’oro statunitense limitandosi ad accumulare dollari anziché impiegare gli avanzi per erodere ulteriormente le riserve auree di Fort Knox.

Fu così che l’amministrazione Johnson si illuse di aver risolto il problema rifilando al Giappone e ai Paesi del “vecchio continente” gli oneri finanziari di quella guerra d’Indocina a cui gli stessi alleati si erano fermamente opposti. Dal canto loro, tuttavia, le banche e i governi europei avevano da tempo cessato di ridepositare presso gli istituti statunitensi le abbondanti riserve di dollari a disposizione accumulate tramite l’export e l’apertura di conti correnti per conto dei Paesi comunisti per riutilizzarli sotto forma di prestiti ai Paesi del Terzo Mondo. L’obiettivo era quello di scaricare su questi ultimi i rischi connessi alla tenuta alla moneta statunitense (inflazione compresa), trasformare il credito in penetrazione economica e accesso alle materie prime locali e istituire un modello di indebitamento capace di garantire un rientro dei capitali a medio-lungo termine correlato da interessi.

Al gioco aveva preso attivamente parte anche l’oligopolio bancario newyorkese, uscito enormemente rafforzato dal processo di concentrazione bancaria che era stato innescato nella seconda metà degli anni ’50 dalla decisione dell’amministrazione Eisenhower di esentare il settore degli intermediari finanziari dall’osservanza delle leggi anti-trust.

Secondo un rapporto redatto nel 1961 dal Dipartimento della Giustizia, le cinque principali banche di New York (due delle quali facevano capo al gruppo Rockefeller) erano arrivate a controllare qualcosa come il 75% dei depositi del principale centro finanziario del mondo grazie al provvedimento assunto dall’amministrazione Eisenhower. La riduzione della concorrenza generata dal processo di concentrazione rafforzava notevolmente il potere dell’oligopolio bancario, il cui margine di manovra all’interno degli Stati Uniti era tuttavia fortemente limitato dal pacchetto di regole particolarmente stringenti per quanto concerne la remunerazione dei depositi – per quelli a vista fu vietata, mentre per quelli a tempo fu pesantemente ridimensionata attraverso la limitazione dei tassi corrispettivi – e la trasparenza.

La soluzione al problema escogitata dal cartello bancario newyorkese, alla costante ricerca di investimenti altamente remunerativi, consistette proprio nell’ottenere da governo e Congresso il placet necessario ad entrare nel business del riciclaggio delle enormi riserve di dollari detenute all’estero in cui erano già pesantemente invischiati gli intermediari finanziari europei. Gli istituti di credito di New York convinsero quindi le autorità di Washington ad apportare una modifica all’Interest Equalization Tax in base alla quale i prestiti erogati ai residenti stranieri dalle filiali estere delle banche statunitensi non sarebbero più stati soggetti alla tassazione statunitense, prima di impiantare proprie filiali presso le più importanti capitali del “vecchio continente”.

La meta preferita fu la City di Londra, disciplinata da un regime normativo adeguato e perfettamente funzionale, in termini di remunerazione, alla gestione di un mercato in grande ascesa come quello degli eurodollari. Per il governo britannico, intenzionato a rilanciare la centralità della piazza finanziaria londinese in ambito finanziario senza rinunciare allo Stato sociale né alla propria autonomia decisionale e domiciliare il mercato degli eurodollari presso la capitale rappresentava una via d’uscita rispetto al famoso “trilemma” messo in evidenza da Robert Mundell, in base al quale era impossibile conciliare cambi fissi, libertà dei movimenti di capitale e autonomia in materia di politica monetaria.

Di fatto, l’egemonia della City su questo lucroso business consentiva alla Gran Bretagna di «soddisfare la domanda di credito internazionale offrendo prestiti in dollari sulla base dei depositi in valuta statunitense dei cittadini stranieri». Il vantaggio che il governo statunitense intravedeva dietro lo sviluppo di uno spazio monetario autonomo e deregolamentato come quello degli eurodollari era sotto molti aspetti analogo: finché sarebbe stato sostento da riserve auree commisurate e da una bilancia dei pagamenti in buono stato, il mercato degli eurodollari avrebbe consolidato la supremazia del “biglietto verde” e agevolato l’espansione del capitale delle imprese multinazionali Usa, rendendola per di più autosufficiente tramite l’assunzione di prestiti in Europa. Detto in altri termini, il sistema dell’eurodollaro permetteva a Washington di allentare le pressioni sulla bilancia dei pagamenti statunitensi e, a ricasco, sul dollaro. Ma soltanto a condizione che i dollari in uscita dagli Stati Uniti non vi facessero mai ritorno; un’eventualità rispetto alla quale non esisteva alcuna forma di garanzia.

Così, grazie al benestare di Washington, il mercato dell’eurovaluta conobbe una fase di rapido sviluppo. In breve tempo, l’esempio britannico fu emulato da altre grandi piazze finanziarie del calibro di Zurigo, Lussemburgo e Tokyo, che pur ritagliandosi un discreto spazio operativo non riuscirono tuttavia a intaccare la supremazia conquistata da Londra sul mercato off-shore di dollari statunitensi, dominato nella fattispecie dalla Bank of England, dalla potente S. G. Warburg & Co. e dalle filiali locali delle grandi banche di New York. Svincolate da obblighi di riserva e da qualsiasi genere di restrizione in materia di remunerazione dei depositi, le “eurobanche” si avvalsero puntualmente della possibilità di offrire sia tassi di interessi sensibilmente superiori a quelli assicurati dal circuito bancario tradizionale, sia quelle garanzie di anonimato richieste da evasori fiscali, cartelli della droga bisognosi di ripulire i proventi del narcotraffico e riciclatori di denaro di vario genere. Non stupisce pertanto che, mentre l’indice Dow Jones accusava una caduta del 36%, il mercato off-shore degli eurodollari continuasse a espandersi di volume fino a raggiungere un valore complessivo stimato in 385 miliardi di dollari. L’economista Marcello De Cecco lo ha identificato come «il più importante fenomeno finanziario degli anni ’60», anche per via del ruolo tutt’altro che secondario che giocò rispetto al deterioramento delle basi finanziarie statunitensi. Già nel 1963, quando l’amministrazione Kennedy si cimentò nel vano tentativo di bloccare l’assalto all’oro statunitense, era palese che il meccanismo dell’eurovaluta era entrato in conflitto sia con la sicurezza nazionale che con la prosperità interna poiché una quota ignota ma indubbiamente rilevante delle passività con l’estero che mantenevano costantemente elevata la pressione sulle riserve auree Usa era costituita proprio dai saldi in dollari depositati presso le “eurobanche” dalle imprese multinazionali statunitensi.

La totale assenza di obblighi in materia di riserve di cui beneficiava il sistema degli eurodollari implicava sul piano teorico il dissolvimento della cruciale linea di demarcazione tra moneta e credito su cui si fonda la capacità delle Banche Centrali di regolare la base valutaria. In termini pratici, lo sviluppo di questo mercato off-shore conferì piena concretezza alla prospettiva di un’espansione potenzialmente illimitata della liquidità internazionale al di fuori dei circuiti della Federal Reserve. Del meccanismo dell’eurodollaro si servivano infatti non solo dalle Banche Centrali straniere dotate di riserve di valuta pregiata, ma anche e soprattutto gli istituti di credito privati a cui era stato sottratto il controllo sull’emissione monetaria da Roosevelt e dal segretario al Tesoro Morgenthau nel corso degli anni ’40. Basti pensare che, già nel 1961, l’oligopolio bancario newyorkese controllava il 50% circa delle attività complessive legate all’eurodollaro. L’accumulo di masse crescenti di denaro in depositi che sfuggivano al controllo di qualsiasi autorità nazionale alimentò le pressioni su Banche Centrali e governi affinché manipolassero tassi di interesse e di cambio in modo tale da attrarre o respingere la liquidità stivata nei mercati off-shore a seconda delle specifiche necessità congiunturali, senza tuttavia mitigare le pressioni al rialzo sui tassi di interesse sollecitate dalla concorrenza degli eurodollari.

D’altra parte, le continue oscillazioni valutarie e i differenziali tra i tassi di interesse aprirono dinnanzi ai capitali depositati presso il mercato dell’eurodollaro ulteriori prospettive di espansione mediante le transazioni e l’arbitraggio sui cambi. Il risultato del reciproco rafforzamento di questi sviluppi portò all’esplosione del business degli eurodollari, che alla fine degli anni ’70 avrebbe raggiunto un volume di transazioni pari a sei volte il valore del commercio mondiale nella sola piazza londinese e assunto su di sé il controllo del processo di determinazione dei rapporti di cambio tra le varie monete e tra queste ultime e l’oro. Come rilevò il capoeconomista della Chase Manhattan Bank Eugene A. Birnbaum: «il mercato dei finanziamenti internazionali in dollari si è spostato da New York all’Europa. I prestiti esteri in dollari, soggetti in precedenza ai criteri di controllo degli organismi governativi americani, sono stati trasferiti, e così sottratti all’ambito giurisdizionale di questi ultimi. Il risultato è stato l’accumulo di un immenso volume di fondi e di attività – il mondo dell’eurodollaro – al di fuori dell’autorità normativa di qualunque Paese e di qualunque organismo». Parallelamente, l’economista Henry Hazlitt vaticinava sulle pagine di «Newsweek» che «gli Stati Uniti si vedranno costretti a bloccare il processo di dismissione del proprio oro a 35 dollari l’oncia […]. Ne scaturirà una profonda crisi del mercato dei cambi con conseguenze disastrose per gli Usa e per il mondo intero». La previsione si rivelò del tutto azzeccata, visto che di lì a brevissimo l’amministrazione Nixon ripudiò unilateralmente gli Accordi di Bretton Woods, inaugurando l’epoca dei tassi di cambio fluttuanti e del “super-imperialismo” statunitense, per usare il titolo di un impareggiabile lavoro condotto sul punto dall’economista Michael Hudson.

Disancorato dall’oro, il dollaro trovò come ufficioso ma validissimo sottostante la forza militare degli Stati Uniti, reinsediandosi al centro del commercio mondiale e del sistema monetario internazionale nato dalle ceneri del Gold-Exchange Standard. La riconfigurazione dei mercati finanziari che ne scaturì pose gli Stati Uniti nelle condizioni di finanziare i propri deficit crescenti attraverso l’importazione di capitali esteri, gestita nelle fasi essenziali dal circuito bancario statunitense sui cui conti gli istituti stranieri sono obbligati a riversare fondi per poter beneficiare di corrispondenti riserve in dollari. Questo meccanismo per un verso svolge un ruolo nevralgico per promuovere la diffusione internazionale del dollaro, perché assicura a qualsiasi banca straniera la possibilità di raccordarsi al sistema finanziario Usa senza impiantare necessariamente filiali sul suolo statunitense. Per l’altro, garantisce a Washington un formidabile strumento di condizionamento verso il resto del mondo, perché sottopone tutti i sistemi bancari stranieri alla giurisdizione statunitense esponendoli al rischio di incorrere in sanzioni o restrizioni di altra natura.

Di qui la nascita del Brics, costituito da Paesi accomunati dalla necessità di sottrarsi agli effetti devastanti della “militarizzazione del dollaro” ad opera degli Stati Uniti. La Cina, sotto questo profilo, manifesta una spiccata inclinazione a perseguire l’obiettivo siglando accordi di swap valutario con i propri partner (Russia, Brasile, Argentina, ecc.) e promuovendo lo yuan-renminbi, tanto come riserva di valore quanto come unità valutaria per regolare l’interscambio commerciale con l’estero. Nonché attraverso l’implementazione di un sistema di centralizzazione dei flussi di dollari al di fuori degli Stati Uniti che replica sotto diversi aspetti il vecchio meccanismo degli eurodollari. L’elevata performatività dell’economia nazionale e l’incommensurabile capacità industriale, sorrette da un quadro giuridico interno che riscontra crescente credibilità internazionale e combinate al ruolo strategico giocato da Hong Kong, dotata di una valuta legata al dollaro statunitense da rapporti di cambio fissi e tuttora incline – a differenza di Pechino – a investire in titoli di Stato statunitensi, rendono in altri termini la Cina un formidabile polo d’attrazione per soggetti stranieri dotati di cospicue disponibilità di capitali in dollari, che vengono poi o reimpiegate per pagare materie prime e ed energia o trasformate in prestiti all’estero dal sistema bancario cinese. L’attivismo della Cina fa sì che una quota significativa dei petrodollari riconducibili ai Paesi del Golfo Persico non vada più a finanziare i colossali deficit statunitensi, ma ad acquistare beni, servizi e/o partecipazioni azionarie in Cina. A sua volta, quest’ultima ricicla quanto incassato per importare petrolio – relegando così il dollaro a “semplice” unità di conto – e, soprattutto, sotto forma di credito verso i Paesi del cosiddetto “Sud del mondo”, molti dei quali strangolati dalla “trappola del debito”. I petrodollari non reinvestiti direttamente nell’economia Usa ma convertiti in prestiti all’estero per effetto dell’intermediazione cinese rientrano così negli Stati Uniti senza sostenere il “signoraggio” del dollaro, ma alimentando invece l’inflazione interna. Per rafforzare il processo e incamerare valuta statunitense da prestare all’estero, la Cina si è spinta lo scorso novembre a emettere obbligazioni a tre e cinque anni in Arabia Saudita denominate in dollari per un controvalore di 2 miliardi, collocandole ad un tasso di interesse addirittura inferiore a quello assicurato dai titoli di Stato facenti capo al Dipartimento del Tesoro. La domanda, a quanto pare, superava i 40 miliardi di dollari.

Qualora il fenomeno dovesse rivelarsi non episodico, la Cina ottempererebbe automaticamente a tutti i requisiti per fungere da fonte di finanziamento internazionale alternativa e concorrente rispetto a quella statunitense, alimentando così le pressioni al rialzo sui tassi di interesse indipendentemente dall’atteggiamento dei regolatori Usa. La Cina sta in altri termini sottraendo alla Federal Reserve la titolarità esclusiva delle funzioni connesse alla gestione del dollaro privandola anzitutto della prerogativa di determinare i tassi di interesse, come plasticamente dimostrato dall’incremento della redditività dei titoli a dieci anni rispetto a settembre, a dispetto del taglio di circa cento punti base del tasso a due anni varato simultaneamente dalla Fed.

Per gli Stati Uniti, si tratta di una minaccia insidiosissima, perché destinata ad accrescere progressivamente gli oneri legati al servizio del debito, che al termine dell’anno fiscale in corso dovrebbero raggiungere i 1.200 miliardi di dollari. Una cifra colossale, cresciuta di 2,6 volte rispetto al 2021, pari al 13,5% del bilancio federale e inferiore soltanto all’esborso cumulativo di Medicare e Medicaid (1.700 miliardi ) e dei programmi previsti dalla Social Security (1.500 miliardi), ma nettamente superiore all’intero budget del Pentagono (817 miliardi di dollari). Alla fine del 2024, il debito federale degli Stati Uniti ammontava ad oltre 36.000 miliardi di dollari, ed è destinato ad aumentare a un ritmo molto più sostenuto rispetto a quello dell’economia. Il problema di insostenibilità che ne deriva può sfociare in una crisi di credibilità destinata a ridimensionare drasticamente l’afflusso di capitali stranieri. Le conseguenze sono facilmente immaginabili, se si considera che soltanto nel 2025 il Dipartimento del Tesoro è chiamato a rifinanziare 7.000 miliardi di dollari di debito composto per lo più da cambiali e titoli a scadenza inferiore ai cinque anni con un rendimento medio di circa il 2%. Qualora la curva dei rendimenti attuale rimanesse invariata nel corso dell’intero anno, la spesa per interessi aumenterebbe di quasi 160 miliardi di dollari.

La Cina, perfettamente consapevole dello “stato dell’arte”, si è mossa con il consueto tempismo, portando avanti il processo di liquidazione graduale delle detenzioni di titoli di Stato statunitensi e continuando a espandere le proprie riserve auree, dopo aver istituito un sistema di quotazione dell’oro presso Shanghai – lo Shanghai Gold Exchange.

Così, Pechino per un verso accumula oro, scarica Treasury statunitensi sostiene il processo di “internazionalizzazione dello yuan-renminbi”; per l’altro, si avvale della piazza di Hong Kong per centralizzare capitali denominati in valuta statunitense e alimentare un flusso internazionale di dollari svincolato dal controllo della Federal Reserve, offrendo un importantissimo canale di finanziamento sia ai Paesi indebitati, sia a quanti necessitano di aggirare il regime sanzionatorio statunitense.

Quella escogitata dall’ex Celeste Impero rappresenta una soluzione ingegnosa e “felpata”, che combinando pragmatismo a flessibilità si candida a ridisegnare gli assetti geofinanziari accrescendo l’influenza cinese su scala globale a detrimento degli Stati Uniti. Il pensiero strategico cinese distillato in “testi sacri” come L’arte della guerra («usa metodi ortodossi per affrontare il nemico e metodi straordinari per ottenere la vittoria»), i 36 stratagemmi («uccidi con un pugnale preso in prestito») e il Ssu-ma fa («accrescete gli eccessi del nemico, impadronitevi di ciò da cui dipende la sua forza») trova qui plastica ed esemplare applicazione.

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