L’opinione pubblico in Italia sta peggiorando, così come lo stato dell’economia del paese. Cosa succederà dopo?
Non c’è niente da ridere
Ci ha pensato Il Sole 24Ore, riprendendo un sondaggio Censis, a farci presente quanto ormai è evidente sotto gli occhi di tutti: gli italiani sono sempre più ostili all’Occidente e vedono con crescente distanza le sue istituzioni.
Stando al sondaggio citato, più del 70% degli intervistati si rende conto dell’arroganza dell’Occidente, che pretende di imporre il libero mercato e la “democrazia” liberale al resto del mondo. Una percentuale analoga è convinta del prossimo sfasciarsi dell’Unione Europea. Più del 66% degli intervistati attribuisce agli USA e all’Occidente la gran parte della responsabilità per i conflitti in Ucraina e Medio Oriente e poco più della metà è convinta dell’ascesa dei paesi del Sud del Mondo.
Si tratta di un dato statistico probabilmente non esaustivo, ma sicuramente coerente con il malcontento che cresce a vista d’occhio e che non è più rassicurabile con qualche operazione propagandistica.
Il clima sociale è costantemente teso: la paura della guerra, seguita da quella per i problemi economici nazionali, è costantemente diffusa e alimentata in tutti gli ambiti. La retorica giornalistica assieme a quella politica non cessano di inneggiare alla necessità di una partecipazione diretta ai conflitti o, altra opzione, ad un sostegno economico a fondo cieco, ma non vi è contatto con la realtà, non c’è ascolto dei cittadini.
Il processo di rappresentanza politica è un vecchio marchingegno della democrazia, ormai obsoleto. Il problema oggettivo è che in un sistema liberale, non è sostituibile con nient’altro: la rappresentanza è l’unico meccanismo di controllo da parte dei cittadini sui politici ai quali hanno delegato la loro responsabilità. Per trovare una alternativa, occorre cambiare del tutto il paradigma politico.
Il punto di rottura è situato nel fragile equilibrio fra interesse personale e interesse collettivo: quanto si è disposti a sacrificare per realizzare qualcosa che abbia valore per il bene comune?
Il filosofo greco Platone già aveva spiegato molto bene i rischi della democrazia: «Ecco, secondo me, come nascono le dittature. Esse hanno due madri. Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia. L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi. Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è pronuba e levatrice. Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo.» (Platone, Repubblica, VIII)
Il PIL che non c’è
Il Governo Meloni aveva promesso una risalita del PIL del 1%, ma l’ISTAT riporta solo lo 0,5% per il 2024. Una crescita che non basta e non funziona. la legge di bilancio è stata costruita su delle previsioni a di poco surreali e non potrà reggere, costringendo ad un taglio sulla spesa pubblica, come è solito fare. Ma i soldi per le armi all’Ucraina e a Israele non mancano mai. A rimetterci dovranno essere ancora una volta sanità, welfare, scuola.
Il dato è indicativo di una stagnazione economica evidente. La crescita non è contemplata nemmeno per il 2025, dove la stima realistica dell’ISTAT è per lo 0,8% a dispetto del 1,2% promesso dall’esecutivo. L’effetto di questo blocco sarà un aumento ulteriore della povertà, erodendo il già debole potere di acquisto delle famiglie, messe in crisi dalla impossibilità di alternative.
Lo aveva previsto con precisione Guido Salerno Aletta, economista, già nel 2022: bisogna trovare un meccanismo idoneo a bloccare gli spread sui debiti pubblici, decidendo subito, visto che la BCE ha già deciso di chiudere l’ombrello della liquidità e che la Commissione ha ripreso ad agitare il bastone.
Da una parte, infatti, i debiti pubblici negli scorsi due anni sono cresciuti a dismisura per le misure volte a contrastare la emergenza pandemica e poi sono stati imbottiti, soprattutto in Italia, di nuovi impegni di spesa per finanziare il PNRR. Dall’altra, la BCE ha già dichiarato concluso il programma di emergenza PEPP e si appresta ad alzare i tassi di interesse.
Per l’Italia si prospettano tempi duri: il costo del finanziamento del debito pubblico salirà e sarà ancora più difficile rispettare gli obiettivi di riduzione del rapporto debito/PIL.
Paradossalmente, solo l’inflazione ci verrebbe incontro: essendo un parametro basato su grandezze nominali, in euro correnti, l’aumento dei prezzi andrebbe a gonfiare artificialmente il PIL e dunque il rapporto migliorerebbe.
Se i tassi non salissero affatto rispetto ai livelli attuali, ci troveremmo nel paradosso di essere in una situazione di stagnazione o anche di contrazione del PIL reale, cioè in recessione, con una inflazione che taglieggia comunque i redditi, e con tassi di interesse che non remunerano il capitale investito: una situazione in cui perdono tutti.
Ma con la libertà di movimento dei capitali, è difficile fermare i disinvestimenti e dunque le vendite dei titoli che rendono troppo poco: lo spread, che è misurato sul mercato secondario, salirebbe comunque. E quindi, al momento delle emissioni per il rinnovo del debito in scadenza, sarebbe gioco forza adeguarvisi.
Ciò ci riporta al “patto sociale” pensato nella primavera del 2022 dai Sindacati con il governo Draghi di allora: la stagnazione dei salari fece sì che l’inflazione energetica e delle materie prime – e non inflazione da domanda, – venisse pagata da 23 milioni di lavoratori, provocando uno straordinario spostamento di redditi dai salari ai profitti in modo che gli imprenditori si potessero assicurare una quota di profitti consistenti anche in un contesto di guerra economica e di conflitti globali.
L’intero panorama politico, che ha approvato l’aumento delle spese militari e tagliate le risorse a scuola e sanità, è favorevole a che il costo della crisi venga a ricadere unicamente sulla forza lavoro. E non ha intenzione di tornare indietro.