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Giulio Chinappi
October 29, 2025
© Photo: Public domain

Dal pescatore colombiano Alejandro Carranza ucciso nell’attacco USA alle minacce mafiose di Trump, l’escalation nel Caribe mira alle ricchezze del Venezuela e colpisce anche la Colombia. Petro reagisce, Cuba e Caracas esprimono solidarietà, mentre la regione rivendica sovranità contro la nuova Dottrina Monroe.

Segue nostro Telegram.

L’America Latina sta vivendo un tornante pericoloso in cui la Dottrina Monroe del XXI secolo riappare senza veli. Al centro vi è un’offensiva statunitense che, con il pretesto della lotta al narcotraffico e alla diffusione del fentanyl, ha prodotto operazioni militari nel Mar dei Caraibi e un linguaggio apertamente intimidatorio contro i governi legittimi dei Paesi che non si sottomettono ai dettami di Washington. In questo quadro, la Colombia e il Venezuela diventano bersagli simultanei di una strategia che combina calunnie, sanzioni economiche, atti ostili sul piano militare e pressioni politiche. L’assassinio del pescatore colombiano Alejandro Carranza, denunciato dal presidente Gustavo Petro come il risultato di un attacco aereo statunitense in acque territoriali colombiane, rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale e un punto di non ritorno. È la cifra di un’aggressione che pretende impunità e silenzio, ma che invece trova resistenza e solidarietà continentale.

La denuncia di Petro, diffusa anche attraverso i social network, è precisa e grave. La lancia attaccata il 16 settembre dagli Stati Uniti era colombiana, con il motore sollevato in segno di avaria e alla deriva. A bordo non c’erano narcotrafficanti, ma un lavoratore del mare, un uomo umile e conosciuto nella sua comunità. «Funzionari del governo degli USA hanno commesso un assassinio e violato la nostra sovranità», ha affermato il presidente, chiedendo spiegazioni formali a Washington e promettendo di avviare le azioni legali necessarie anche in giurisdizioni estere. Dal canto suo, la famiglia di Carranza ha confermato che l’uomo era uscito a pescare e non è più tornato. Di fronte alla gravità dell’evento, il governo colombiano ha anche richiamato a consultazioni il proprio ambasciatore negli Stati Uniti, segnalando che la misura della pazienza diplomatica è colma.

Con il passare dei giorni, dunque, il quadro degli attacchi nel Caribe orientale smentisce sempre più la narrativa securitaria agitata da Donald Trump. L’evidenza dei fatti dimostra come i bersagli non siano vettori di fentanyl verso gli Stati Uniti, bensì in gran parte pescatori o piccoli contrabbandieri legati a rotte locali di marijuana e, in alcuni casi, a passaggi secondari della cocaina verso Europa e Africa. L’idea che la frontiera marittima tra il Venezuela e Trinidad e Tobago sia un ponte operativo del presunto “narco-terrorismo” diretto agli Stati Uniti non trova riscontro né nella geografia delle rotte dei traffici, che oltretutto passano prevalentemente per l’Oceano Pacifico, né nei principali rapporti internazionali sul traffico di droga. L’impianto ideologico serve piuttosto a legittimare una campagna di attacchi unilaterali e di uccisioni extragiudiziali, ormai decine, senza corpi restituiti alle famiglie e senza prove rese pubbliche.

In parallelo, Trump ha scelto la via delle minacce in stile mafioso contro la Colombia e il suo presidente, esattamente come fatto in precedenza con il Venezuela. Il presidente statunitense ha diffamato Petro definendolo, senza uno straccio di prova, “leader del narcotraffico”, ha ventilato l’uso della forza per “chiudere” coltivazioni illecite e ha imposto dazi che violano il Trattato di Libero Scambio tra i due Paesi in vigore dal 2012. Petro ha risposto con fermezza, smascherando la falsità delle accuse e chiedendo il ritiro dei dazi che colpiscono l’agroindustria e i lavoratori colombiani. Ha inoltre dichiarato “sospeso di fatto” il tratatto di cui sopra a causa della decisione unilaterale di Washington di imporre dazi al 10% contro la Colombia, convocando un Consiglio dei ministri televisivo per discutere misure in difesa del lavoro nazionale e della vita umana. In tal modo, Petro ha voluto ribadire il principio secondo il quale il solo controllo legittimo su una democrazia lo esercita il suo popolo, senza le ingerenze di attori stranieri.

In questo contesto, il presidente colombiano ha nuovamente respinto l’idea di utilizzare l’esercito del suo Paese come pedina per un’aggressione contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela. «A Trump dà rabbia che io non appoggi un’invasione del Venezuela», ha detto chiaramente, ricordando che attaccare un popolo fratello significherebbe colpire milioni di colombiani che vivono nel Paese vicino e alimentare un ciclo di violenza che riecheggia scenari mediorientali. Per il leader progressista colombiano, i missili che cadono su Gaza non possono diventare il paradigma da importare nel Caribe, e la politica estera non può ridursi a un copione di arroganza, ricatto e punizione collettiva, cosa che sembra invece rappresentare il pensiero di Trump.

La risposta latinoamericana a questa deriva imperialista si è ulteriormente rafforzata nelle ultime ore. L’ALBA-TCP (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra – Tratado de Comercio de los Pueblos) ha condannato con vigore le minacce e le calunnie di Trump contro Petro, definendole una flagrante violazione della sovranità nazionale della Colombia e un attacco alla dignità del suo popolo. L’alleanza ha denunciato la reimposizione di logiche coercitive, dai dazi alla militarizzazione del Mar dei Caraibi, come espressione di una politica imperialista radicata nella Dottrina Monroe, che minaccia la pace e la stabilità dell’intera regione, mostrando la consapevolezza storica di chi ha già pagato prezzi altissimi all’interventismo nordamericano e ai suoi esperimenti di “cambio di regime”.

Anche da L’Avana è arrivato un sostegno netto e senza ambiguità. Il presidente Miguel Díaz-Canel ha espresso pubblicamente appoggio a Gustavo Petro, rifiutando l’ingerenza e le falsità del governo degli Stati Uniti e denunciando il tentativo di reimporre la Dottrina Monroe nei rapporti con le nazioni sovrane dell’America Latina e dei Caraibi. Il ministro degli Esteri Bruno Rodríguez ha ribadito che le dichiarazioni statunitensi rappresentano una minaccia alla sovranità colombiana e un’ingerenza negli affari interni di un Paese fratello. Cuba, che ha già mobilitato il proprio popolo in difesa del Venezuela e della legalità internazionale, riafferma che l’unità continentale non è un artificio retorico, ma una necessità per difendere la pace e i diritti dei popoli.

Da Caracas, Nicolás Maduro ha ricordato che «se toccano la Colombia, toccano il Venezuela», richiamando l’eredità della Grande Colombia fondata da Simón Bolívar e l’idea di una patria condivisa che trascende i confini amministrativi, la Patria Grande agognata dal Libertador. I destini di colombiani e venezuelani sono intrecciati, e ogni tentativo di scagliarli l’uno contro l’altro risponde alla logica divide et impera. In un quadro di gravi minacce statunitensi, compresa l’ammissione, da parte della CIA, di aver autorizzato operazioni in territorio venezuelano, è evidente che l’obiettivo non è la salute pubblica negli Stati Uniti, ma la proiezione di potenza su un’area ricca di risorse strategiche, a cominciare dal petrolio.

È qui che cade la maschera della presunta “guerra al fentanyl”. La geografia dei traffici, i dati disponibili e le stesse ammissioni implicite degli apparati statunitensi, come anticipato, dimostrano che l’emergenza oppioidi ha le sue principali vie d’ingresso altrove e non su rotte costose e illogiche attraverso Trinidad e Tobago. La retorica del narco-terrorismo, agitata per criminalizzare leader latinoamericani eletti e per legittimare attacchi contro imbarcazioni civili, serve a costruire consenso interno negli Stati Uniti e a preparare l’opinione pubblica a un’azione militare nel Caribe. Il fine politico di queste operazioni è dunque quello di mettere in riga governi disobbedienti, mentre quello economico è mettere le mani sulle ricchezze naturali del Venezuela, integrando l’azione bellica con l’arma dei dazi e delle “sanzioni” come prolungamento della guerra con altri mezzi.

Condannare l’imperialismo statunitense oggi significa difendere la sovranità della Colombia, del Venezuela e di Cuba, e con essa il diritto dei popoli a scegliere il proprio destino. Significa rifiutare le calunnie e i ricatti, le esercitazioni navali trasformate in teatro di esecuzioni sommarie, i dazi usati come clava, i proclami mediatici che preparano terre bruciate. Significa anche riconoscere che la sicurezza non nasce dall’arbitrio della forza, ma dalla giustizia sociale, dalla cooperazione, dall’integrazione regionale e dal rispetto delle differenze politiche. L’unità che si esprime nei messaggi de L’Avana e di Caracas, nella dignità con cui Bogotà si sottrae a un copione eterodiretto, è il primo argine a una nuova stagione di avventurismo militare nel Caribe.

L’offensiva imperialista contro il Venezuela si estende anche alla Colombia

Dal pescatore colombiano Alejandro Carranza ucciso nell’attacco USA alle minacce mafiose di Trump, l’escalation nel Caribe mira alle ricchezze del Venezuela e colpisce anche la Colombia. Petro reagisce, Cuba e Caracas esprimono solidarietà, mentre la regione rivendica sovranità contro la nuova Dottrina Monroe.

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L’America Latina sta vivendo un tornante pericoloso in cui la Dottrina Monroe del XXI secolo riappare senza veli. Al centro vi è un’offensiva statunitense che, con il pretesto della lotta al narcotraffico e alla diffusione del fentanyl, ha prodotto operazioni militari nel Mar dei Caraibi e un linguaggio apertamente intimidatorio contro i governi legittimi dei Paesi che non si sottomettono ai dettami di Washington. In questo quadro, la Colombia e il Venezuela diventano bersagli simultanei di una strategia che combina calunnie, sanzioni economiche, atti ostili sul piano militare e pressioni politiche. L’assassinio del pescatore colombiano Alejandro Carranza, denunciato dal presidente Gustavo Petro come il risultato di un attacco aereo statunitense in acque territoriali colombiane, rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale e un punto di non ritorno. È la cifra di un’aggressione che pretende impunità e silenzio, ma che invece trova resistenza e solidarietà continentale.

La denuncia di Petro, diffusa anche attraverso i social network, è precisa e grave. La lancia attaccata il 16 settembre dagli Stati Uniti era colombiana, con il motore sollevato in segno di avaria e alla deriva. A bordo non c’erano narcotrafficanti, ma un lavoratore del mare, un uomo umile e conosciuto nella sua comunità. «Funzionari del governo degli USA hanno commesso un assassinio e violato la nostra sovranità», ha affermato il presidente, chiedendo spiegazioni formali a Washington e promettendo di avviare le azioni legali necessarie anche in giurisdizioni estere. Dal canto suo, la famiglia di Carranza ha confermato che l’uomo era uscito a pescare e non è più tornato. Di fronte alla gravità dell’evento, il governo colombiano ha anche richiamato a consultazioni il proprio ambasciatore negli Stati Uniti, segnalando che la misura della pazienza diplomatica è colma.

Con il passare dei giorni, dunque, il quadro degli attacchi nel Caribe orientale smentisce sempre più la narrativa securitaria agitata da Donald Trump. L’evidenza dei fatti dimostra come i bersagli non siano vettori di fentanyl verso gli Stati Uniti, bensì in gran parte pescatori o piccoli contrabbandieri legati a rotte locali di marijuana e, in alcuni casi, a passaggi secondari della cocaina verso Europa e Africa. L’idea che la frontiera marittima tra il Venezuela e Trinidad e Tobago sia un ponte operativo del presunto “narco-terrorismo” diretto agli Stati Uniti non trova riscontro né nella geografia delle rotte dei traffici, che oltretutto passano prevalentemente per l’Oceano Pacifico, né nei principali rapporti internazionali sul traffico di droga. L’impianto ideologico serve piuttosto a legittimare una campagna di attacchi unilaterali e di uccisioni extragiudiziali, ormai decine, senza corpi restituiti alle famiglie e senza prove rese pubbliche.

In parallelo, Trump ha scelto la via delle minacce in stile mafioso contro la Colombia e il suo presidente, esattamente come fatto in precedenza con il Venezuela. Il presidente statunitense ha diffamato Petro definendolo, senza uno straccio di prova, “leader del narcotraffico”, ha ventilato l’uso della forza per “chiudere” coltivazioni illecite e ha imposto dazi che violano il Trattato di Libero Scambio tra i due Paesi in vigore dal 2012. Petro ha risposto con fermezza, smascherando la falsità delle accuse e chiedendo il ritiro dei dazi che colpiscono l’agroindustria e i lavoratori colombiani. Ha inoltre dichiarato “sospeso di fatto” il tratatto di cui sopra a causa della decisione unilaterale di Washington di imporre dazi al 10% contro la Colombia, convocando un Consiglio dei ministri televisivo per discutere misure in difesa del lavoro nazionale e della vita umana. In tal modo, Petro ha voluto ribadire il principio secondo il quale il solo controllo legittimo su una democrazia lo esercita il suo popolo, senza le ingerenze di attori stranieri.

In questo contesto, il presidente colombiano ha nuovamente respinto l’idea di utilizzare l’esercito del suo Paese come pedina per un’aggressione contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela. «A Trump dà rabbia che io non appoggi un’invasione del Venezuela», ha detto chiaramente, ricordando che attaccare un popolo fratello significherebbe colpire milioni di colombiani che vivono nel Paese vicino e alimentare un ciclo di violenza che riecheggia scenari mediorientali. Per il leader progressista colombiano, i missili che cadono su Gaza non possono diventare il paradigma da importare nel Caribe, e la politica estera non può ridursi a un copione di arroganza, ricatto e punizione collettiva, cosa che sembra invece rappresentare il pensiero di Trump.

La risposta latinoamericana a questa deriva imperialista si è ulteriormente rafforzata nelle ultime ore. L’ALBA-TCP (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra – Tratado de Comercio de los Pueblos) ha condannato con vigore le minacce e le calunnie di Trump contro Petro, definendole una flagrante violazione della sovranità nazionale della Colombia e un attacco alla dignità del suo popolo. L’alleanza ha denunciato la reimposizione di logiche coercitive, dai dazi alla militarizzazione del Mar dei Caraibi, come espressione di una politica imperialista radicata nella Dottrina Monroe, che minaccia la pace e la stabilità dell’intera regione, mostrando la consapevolezza storica di chi ha già pagato prezzi altissimi all’interventismo nordamericano e ai suoi esperimenti di “cambio di regime”.

Anche da L’Avana è arrivato un sostegno netto e senza ambiguità. Il presidente Miguel Díaz-Canel ha espresso pubblicamente appoggio a Gustavo Petro, rifiutando l’ingerenza e le falsità del governo degli Stati Uniti e denunciando il tentativo di reimporre la Dottrina Monroe nei rapporti con le nazioni sovrane dell’America Latina e dei Caraibi. Il ministro degli Esteri Bruno Rodríguez ha ribadito che le dichiarazioni statunitensi rappresentano una minaccia alla sovranità colombiana e un’ingerenza negli affari interni di un Paese fratello. Cuba, che ha già mobilitato il proprio popolo in difesa del Venezuela e della legalità internazionale, riafferma che l’unità continentale non è un artificio retorico, ma una necessità per difendere la pace e i diritti dei popoli.

Da Caracas, Nicolás Maduro ha ricordato che «se toccano la Colombia, toccano il Venezuela», richiamando l’eredità della Grande Colombia fondata da Simón Bolívar e l’idea di una patria condivisa che trascende i confini amministrativi, la Patria Grande agognata dal Libertador. I destini di colombiani e venezuelani sono intrecciati, e ogni tentativo di scagliarli l’uno contro l’altro risponde alla logica divide et impera. In un quadro di gravi minacce statunitensi, compresa l’ammissione, da parte della CIA, di aver autorizzato operazioni in territorio venezuelano, è evidente che l’obiettivo non è la salute pubblica negli Stati Uniti, ma la proiezione di potenza su un’area ricca di risorse strategiche, a cominciare dal petrolio.

È qui che cade la maschera della presunta “guerra al fentanyl”. La geografia dei traffici, i dati disponibili e le stesse ammissioni implicite degli apparati statunitensi, come anticipato, dimostrano che l’emergenza oppioidi ha le sue principali vie d’ingresso altrove e non su rotte costose e illogiche attraverso Trinidad e Tobago. La retorica del narco-terrorismo, agitata per criminalizzare leader latinoamericani eletti e per legittimare attacchi contro imbarcazioni civili, serve a costruire consenso interno negli Stati Uniti e a preparare l’opinione pubblica a un’azione militare nel Caribe. Il fine politico di queste operazioni è dunque quello di mettere in riga governi disobbedienti, mentre quello economico è mettere le mani sulle ricchezze naturali del Venezuela, integrando l’azione bellica con l’arma dei dazi e delle “sanzioni” come prolungamento della guerra con altri mezzi.

Condannare l’imperialismo statunitense oggi significa difendere la sovranità della Colombia, del Venezuela e di Cuba, e con essa il diritto dei popoli a scegliere il proprio destino. Significa rifiutare le calunnie e i ricatti, le esercitazioni navali trasformate in teatro di esecuzioni sommarie, i dazi usati come clava, i proclami mediatici che preparano terre bruciate. Significa anche riconoscere che la sicurezza non nasce dall’arbitrio della forza, ma dalla giustizia sociale, dalla cooperazione, dall’integrazione regionale e dal rispetto delle differenze politiche. L’unità che si esprime nei messaggi de L’Avana e di Caracas, nella dignità con cui Bogotà si sottrae a un copione eterodiretto, è il primo argine a una nuova stagione di avventurismo militare nel Caribe.

Dal pescatore colombiano Alejandro Carranza ucciso nell’attacco USA alle minacce mafiose di Trump, l’escalation nel Caribe mira alle ricchezze del Venezuela e colpisce anche la Colombia. Petro reagisce, Cuba e Caracas esprimono solidarietà, mentre la regione rivendica sovranità contro la nuova Dottrina Monroe.

Segue nostro Telegram.

L’America Latina sta vivendo un tornante pericoloso in cui la Dottrina Monroe del XXI secolo riappare senza veli. Al centro vi è un’offensiva statunitense che, con il pretesto della lotta al narcotraffico e alla diffusione del fentanyl, ha prodotto operazioni militari nel Mar dei Caraibi e un linguaggio apertamente intimidatorio contro i governi legittimi dei Paesi che non si sottomettono ai dettami di Washington. In questo quadro, la Colombia e il Venezuela diventano bersagli simultanei di una strategia che combina calunnie, sanzioni economiche, atti ostili sul piano militare e pressioni politiche. L’assassinio del pescatore colombiano Alejandro Carranza, denunciato dal presidente Gustavo Petro come il risultato di un attacco aereo statunitense in acque territoriali colombiane, rappresenta una flagrante violazione del diritto internazionale e un punto di non ritorno. È la cifra di un’aggressione che pretende impunità e silenzio, ma che invece trova resistenza e solidarietà continentale.

La denuncia di Petro, diffusa anche attraverso i social network, è precisa e grave. La lancia attaccata il 16 settembre dagli Stati Uniti era colombiana, con il motore sollevato in segno di avaria e alla deriva. A bordo non c’erano narcotrafficanti, ma un lavoratore del mare, un uomo umile e conosciuto nella sua comunità. «Funzionari del governo degli USA hanno commesso un assassinio e violato la nostra sovranità», ha affermato il presidente, chiedendo spiegazioni formali a Washington e promettendo di avviare le azioni legali necessarie anche in giurisdizioni estere. Dal canto suo, la famiglia di Carranza ha confermato che l’uomo era uscito a pescare e non è più tornato. Di fronte alla gravità dell’evento, il governo colombiano ha anche richiamato a consultazioni il proprio ambasciatore negli Stati Uniti, segnalando che la misura della pazienza diplomatica è colma.

Con il passare dei giorni, dunque, il quadro degli attacchi nel Caribe orientale smentisce sempre più la narrativa securitaria agitata da Donald Trump. L’evidenza dei fatti dimostra come i bersagli non siano vettori di fentanyl verso gli Stati Uniti, bensì in gran parte pescatori o piccoli contrabbandieri legati a rotte locali di marijuana e, in alcuni casi, a passaggi secondari della cocaina verso Europa e Africa. L’idea che la frontiera marittima tra il Venezuela e Trinidad e Tobago sia un ponte operativo del presunto “narco-terrorismo” diretto agli Stati Uniti non trova riscontro né nella geografia delle rotte dei traffici, che oltretutto passano prevalentemente per l’Oceano Pacifico, né nei principali rapporti internazionali sul traffico di droga. L’impianto ideologico serve piuttosto a legittimare una campagna di attacchi unilaterali e di uccisioni extragiudiziali, ormai decine, senza corpi restituiti alle famiglie e senza prove rese pubbliche.

In parallelo, Trump ha scelto la via delle minacce in stile mafioso contro la Colombia e il suo presidente, esattamente come fatto in precedenza con il Venezuela. Il presidente statunitense ha diffamato Petro definendolo, senza uno straccio di prova, “leader del narcotraffico”, ha ventilato l’uso della forza per “chiudere” coltivazioni illecite e ha imposto dazi che violano il Trattato di Libero Scambio tra i due Paesi in vigore dal 2012. Petro ha risposto con fermezza, smascherando la falsità delle accuse e chiedendo il ritiro dei dazi che colpiscono l’agroindustria e i lavoratori colombiani. Ha inoltre dichiarato “sospeso di fatto” il tratatto di cui sopra a causa della decisione unilaterale di Washington di imporre dazi al 10% contro la Colombia, convocando un Consiglio dei ministri televisivo per discutere misure in difesa del lavoro nazionale e della vita umana. In tal modo, Petro ha voluto ribadire il principio secondo il quale il solo controllo legittimo su una democrazia lo esercita il suo popolo, senza le ingerenze di attori stranieri.

In questo contesto, il presidente colombiano ha nuovamente respinto l’idea di utilizzare l’esercito del suo Paese come pedina per un’aggressione contro la Repubblica Bolivariana del Venezuela. «A Trump dà rabbia che io non appoggi un’invasione del Venezuela», ha detto chiaramente, ricordando che attaccare un popolo fratello significherebbe colpire milioni di colombiani che vivono nel Paese vicino e alimentare un ciclo di violenza che riecheggia scenari mediorientali. Per il leader progressista colombiano, i missili che cadono su Gaza non possono diventare il paradigma da importare nel Caribe, e la politica estera non può ridursi a un copione di arroganza, ricatto e punizione collettiva, cosa che sembra invece rappresentare il pensiero di Trump.

La risposta latinoamericana a questa deriva imperialista si è ulteriormente rafforzata nelle ultime ore. L’ALBA-TCP (Alianza Bolivariana para los Pueblos de Nuestra – Tratado de Comercio de los Pueblos) ha condannato con vigore le minacce e le calunnie di Trump contro Petro, definendole una flagrante violazione della sovranità nazionale della Colombia e un attacco alla dignità del suo popolo. L’alleanza ha denunciato la reimposizione di logiche coercitive, dai dazi alla militarizzazione del Mar dei Caraibi, come espressione di una politica imperialista radicata nella Dottrina Monroe, che minaccia la pace e la stabilità dell’intera regione, mostrando la consapevolezza storica di chi ha già pagato prezzi altissimi all’interventismo nordamericano e ai suoi esperimenti di “cambio di regime”.

Anche da L’Avana è arrivato un sostegno netto e senza ambiguità. Il presidente Miguel Díaz-Canel ha espresso pubblicamente appoggio a Gustavo Petro, rifiutando l’ingerenza e le falsità del governo degli Stati Uniti e denunciando il tentativo di reimporre la Dottrina Monroe nei rapporti con le nazioni sovrane dell’America Latina e dei Caraibi. Il ministro degli Esteri Bruno Rodríguez ha ribadito che le dichiarazioni statunitensi rappresentano una minaccia alla sovranità colombiana e un’ingerenza negli affari interni di un Paese fratello. Cuba, che ha già mobilitato il proprio popolo in difesa del Venezuela e della legalità internazionale, riafferma che l’unità continentale non è un artificio retorico, ma una necessità per difendere la pace e i diritti dei popoli.

Da Caracas, Nicolás Maduro ha ricordato che «se toccano la Colombia, toccano il Venezuela», richiamando l’eredità della Grande Colombia fondata da Simón Bolívar e l’idea di una patria condivisa che trascende i confini amministrativi, la Patria Grande agognata dal Libertador. I destini di colombiani e venezuelani sono intrecciati, e ogni tentativo di scagliarli l’uno contro l’altro risponde alla logica divide et impera. In un quadro di gravi minacce statunitensi, compresa l’ammissione, da parte della CIA, di aver autorizzato operazioni in territorio venezuelano, è evidente che l’obiettivo non è la salute pubblica negli Stati Uniti, ma la proiezione di potenza su un’area ricca di risorse strategiche, a cominciare dal petrolio.

È qui che cade la maschera della presunta “guerra al fentanyl”. La geografia dei traffici, i dati disponibili e le stesse ammissioni implicite degli apparati statunitensi, come anticipato, dimostrano che l’emergenza oppioidi ha le sue principali vie d’ingresso altrove e non su rotte costose e illogiche attraverso Trinidad e Tobago. La retorica del narco-terrorismo, agitata per criminalizzare leader latinoamericani eletti e per legittimare attacchi contro imbarcazioni civili, serve a costruire consenso interno negli Stati Uniti e a preparare l’opinione pubblica a un’azione militare nel Caribe. Il fine politico di queste operazioni è dunque quello di mettere in riga governi disobbedienti, mentre quello economico è mettere le mani sulle ricchezze naturali del Venezuela, integrando l’azione bellica con l’arma dei dazi e delle “sanzioni” come prolungamento della guerra con altri mezzi.

Condannare l’imperialismo statunitense oggi significa difendere la sovranità della Colombia, del Venezuela e di Cuba, e con essa il diritto dei popoli a scegliere il proprio destino. Significa rifiutare le calunnie e i ricatti, le esercitazioni navali trasformate in teatro di esecuzioni sommarie, i dazi usati come clava, i proclami mediatici che preparano terre bruciate. Significa anche riconoscere che la sicurezza non nasce dall’arbitrio della forza, ma dalla giustizia sociale, dalla cooperazione, dall’integrazione regionale e dal rispetto delle differenze politiche. L’unità che si esprime nei messaggi de L’Avana e di Caracas, nella dignità con cui Bogotà si sottrae a un copione eterodiretto, è il primo argine a una nuova stagione di avventurismo militare nel Caribe.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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