Risalire la china nel campo della produzione di navi commerciali e del commercio marittimo internazionale appare dunque a tutti gli effetti come il più impossibile sogno trumpiano.
In una celebre canzone degli anni ‘60 dello scorso secolo, l’italiana Orietta Berti intonava: “fin che la barca va, lasciala andare”, ma il problema per Donald Trump è proprio questo, la barca non va e costruirla come lui con molte ragioni vorrebbe è quasi impossibile, il ritardo tecnologico accumulato dagli Stati Uniti ben prima del suo arrivo alla Casa Bianca, negli anni falsamente dorati e trionfanti della speculazione finanziaria di Wall Street e della distruzione dell’industria manifatturiera interna, obbliga a ritenere svaniti, ma meglio si potrebbe dire affondati, tutti i sogni a stelle e strisce di eccellenza in questo settore.
Il ritardo è tanto rilevante da rendere del tutto improbabile qualsiasi ambizione di primato planetario nella cantieristica navale civile e nel correlato sistema di trasporto via mare, nonostante gli Stati Uniti fagocitino, in molti casi a prezzi irrisori, finanche di furto, una considerevole porzione planetaria delle materie prime e lavorate, dal settore alimentare a quello del vestiario e di molteplici altri manufatti altrove prodotti, che giungono nei porti atlantici e pacifici statunitensi.
La proposta trumpiana è semplice quanto giusta, ovvero rafforzare il settore dei cantieri navali nazionali, partendo dall’idea del suo collaboratore Peter Navarro di imporre dazi di considerevole portata agli omologhi settori cinesi, sudcoreani e nipponici. Nell’ultimo decennio i cinesi infatti hanno realizzato settemila nuove navi commerciali, ovvero in media settecento l’anno, la metà di quelle globalmente prodotte, tremila il Giappone, duemilacinquecento la Sudcorea, in considerevole ascesa con un incremento di navi realizzate superiore alle cinquecento per anno negli ultimi mesi, solo millecinquecento tutte le altre nazioni del mondo, Stati Uniti compresi, in sostanza non più di una cinquantina ogni dodici mesi sotto la bandiera a stelle e strisce.
Tanto grave e significativo ritardo statunitense è dovuto a costi e tempi infinitamente superiori, ma soprattutto allo stato potremmo dire archeologicamente primitivo dell’industria cantieristica, totalmente deprivata di qualsiasi innovazione tecnologica degna del XXI secolo, ma legata a un agire manuale dei pochi operai del settore del tutto primo – novecentesco, rendono il piano di rilancio del settore un obiettivo più che arduo, quasi impossibile, infatti non solo nelle file democratiche del Congresso, ma anche in larghi settori di quelle repubblicane, il progetto appare tanto avveniristico e futuribile, quanto eccessivamente dispendioso, vi è chi quantifica i costi in una devastante quantità, ma visto l’argomento potremmo dire un enorme bastimento, di miliardi di dollari.
Il migliore e più tragico esempio viene dai cantieri navali di Filadelfia, acquistati nel 2024 dai sudcoreani della Hanwha. Donald Trump ha contattato alcuni imprenditori statunitensi del settore, promettendo, nel caso si fossero offerti di riportare sotto la bandiera di Washington la struttura, un cospicuo aiuto di stato, per altro di stile molto sovietico e molto poco liberista. Tuttavia gli imprenditori hanno segnalato al presidente che i miliardi di dollari in regalo dall’Amministrazione statale, certo graditissimi, avrebbero dovuto avere una corrispondenza in una auspicabilmente accresciuta richiesta di ordini di costruzione. La Casa Bianca si è così attivata anche per provare a stimolare e incentivare l’acquisto di bastimenti “patriottici”, sussidiando non solo la realizzazione, ma anche l’acquisto di navi costruite sul suolo nazionale e allo stesso tempo proponendo di penalizzare le compagnie – ovvero tutte – al momento utlizzanti navi commerciali straniere, ma proprio a questo punto è emersa in tutta la sua tragicità la realtà: i cantieri di Filadelfia necessitano di otto mesi per realizzare una nave commerciale, quelli coreani di una settimana, inoltre il costo è cinque volte superiore, non solo per l’impiego di manodopera per ducentoquarantaquattro giorni invece che sette, ma anche perché il livello di modernizzazione tecnologica dei cantieri coreani è in questo senso all’avanguardia. Ammesso che si trovi un acquirente nazionale in questa calda estate del 2025, un eventuale ordine odierno per i cantieri di Filadelfia potrebbe essere soddisfatto dalle maestranze con un inizio lavori non prima della primavera del 2027, quando finalmente potranno mettere insieme i primi bulloni e le prime lastre d’acciaio, consegnando il bastimento terminato soltanto a partire dal 2028, insomma a mandato di Trump quasi terminato. I sudcoreani si sono offerti di portare nei cantieri della città resa celebre da Benjamin Franklin la saldatura automatizzata a loro spese, ma i tempi dell’impianto delle macchine e la loro attivazione non sono ben definiti e non potranno nell’immediato rendere più celeri i tempi di consegna.
Insomma una nave porta container costa in Sudcorea duecento milioni di dollari, negli Stati Uniti un miliardo di dollari. Gli appelli trumpiani per una “flotta commerciale strategica” e non più dipendente dalle commesse esterne, in particolare verso la Cina, con la quale intende posticipare lo scontro militare, auspicato in tempi brevi dai democratici e dai loro apparati di potere politico e finanziario, cercando l’attuale presidente piuttosto nell’immediato se non una vittoria economica su Pechino, almeno la ricerca di un riequilibrio della bilancia commerciale, paiono più un disperato grido di dolore, piuttosto che una possibile proposta di ribaltamento del catastrofico declino della cantieristica civile statunitense. Trump certo incassa anche qualche raro consenso dai suoi avversari, il senatore democratico dell’Arizona e già celebre astronauta Mark Kelly ha dichiarato piena ammirazione per: “lo sforzo più ambizioso di sempre per il rilancio dell’industria navale e del commercio marittimo statunitensi e nel contrasto del dominio cinese sugli oceani”, ma la sostanza non cambia, anzi la maggioranza dei congressisti di entrambi i partiti vorrebbero piuttosto varare una nuova legge intenzionata a vietare l’acquisto dai cinesi e rendendolo solo possibile dagli alleati strategici degli Stati Uniti come Giappone e Sudcorea, un piccolo accomodamento politico che tuttavia non aiuta Trump nel suo progetto di rilanciare l’occupazione e la manifattura negli Stati Uniti.
Per altro, dall’arrivo di Trump, molti altri cantieri navali statunitensi dediti alla costruzioni sia civili, sia militari, sono stati immediatamente coinvolti nei progetti di riarmo dell’Amministrazione, dunque non potranno assolvere neppure loro alla richiesta trumpiana di una via del mare statunitense, perché il ritardo, anche militare, preoccupa Trump più dei democratici che hanno fretta di portarci, con l’aiuto di politici europei come la Von der Leyen, Starmer e Macron, nella Terza Guerra Mondiale.
Di più, si è scoperto, per quanto concerne l’acquisto dai cantieri navali di Filadelfia da parte dei sudcoreani, che non si sia trattato del classico progetto capitalistico per arrivare a controllare un concorrente, quanto piuttosto di una gentilezza fatta da Seoul all’alleato di Washington per tenere in piedi un’azienda che produce solo navi commerciali per il trasporto interno tra porti degli Stati Uniti, in ottemperanza al Jones Act, ufficialmente noto come Merchant Marine Act del 1920, una legge federale che regola il commercio marittimo interno, richiedendo che le merci trasportate tra i porti statunitensi avvenga su navi costruite negli Stati Uniti, di proprietà statunitense, con equipaggio statunitense e con documenti statunitensi, un mercato marittimo interno ultra – protezionistico, potremmo dire una legge trumpiana ante litteram.
La Casa Bianca si adopera per piazzare agli alleati, in particolare europei, quantità enormi di gas naturale liquefatto, tuttavia non può trasportarlo nel vecchio Continente con navi cisterna statunitensi, sebbene uno dei mille ordini esecutivi di Donald Trump impegni sul lungo periodo le compagnie esportatrici a effettuare i trasporti con navi a stelle strisce, del tutto impossibile per la detta incapacità cantieristica di corrispondere la domanda, anche in questo caso i sudcoreani, intuendone il crescente mercato, hanno implementato la produzione di navi cisterna e nei soli ultimi dodici mesi ne hanno prodotte più di duecento, tra questi primeggia la Hanwha, la quale vede la possibilità di utilizzare il cantiere di Filadelfia come molo d’attracco per le sue imbarcazioni.
Proprio la Hanwha si propone non solo di innovare anche con moderne tecnologie la produzione dei cantieri di Filadelfia, ma sarebbe pronta ad aumentare significativamente i bastimenti realizzati, teorizzando anche un raddoppio della manodopera in servizio, tuttavia qui si scopre un ulteriore freno, ovvero la deficitaria carenza del sistema formativo statunitense nel preparare quadri e maestranze specializzate, tanto che l’azienda stessa dovrà farsi carico della creazione di corsi di apprendistato e auspicare così di poter formare da sola giovani apprendisti.
A tutto ciò si aggiunge un altro grattacapo per Donald Trump, ovvero l’irrilevanza degli Stati Uniti nel settore dei trasporti internazionali di container. Tra le aziende infatti primeggia la svizzera Mediterranean Shipping Company, più nota come MSC, con il 20% del mercato, segue la danese Maersk con il 14%, terzi i francesi della CMA CGM con il 13%, quarta la China COSCO Shipping con l’11% e in costante crescita, quinta la tedesca Hapag-Lloyd con il 7,5%, sesta la giapponese Ocean Network Express – ONE con il 6%, percentuale sotto cui di poco arriva la taiwanese Evergreen, ottava la sudcoreana Hyundai Merchant Marine con il 3%, noni gli israeliani della Zim Integrated Shipping Services – ZIM con il 2,5%, decima un’altra taiwanese: la Yang Ming Marine Transport Corporation con poco più del 2%, all’undicesima posizione un’altra taiwanese: la Wan Hai Lines con poco meno del 2% del mercato, si scende a percentuali sempre più infinitesimali per arrivare alla ventottesima posizione mondiale e trovare finalmente la prima statunitense, l’hawaiana Matson che ha una desolante percentuale dello 0,2% dei trasporti planetari, per intendersi, meno della metà degli iraniani.
Risalire la china nel campo della produzione di navi commerciali e del commercio marittimo internazionale appare dunque a tutti gli effetti come il più impossibile sogno trumpiano.